Un classico

Mentre ci son tante cose da terminare e altre da incominciare e altre ancora che sono già lì, in attesa d'essere scoperte e farsi interrogare, l'ufficio risente un po' del periodo estivo anche se lei, l'estate, è altrove e non a nord, ma è venuta qui, prima, quando tu pensavi fosse primavera, e dimenticarla non aiuta, alimenta soltanto qualche lamento quotidiano e incentiva la voglia di vacanze, che loro, le vacanze servono anche per respirare l'estate altrove. E sei alla tua scrivania con la valigia già a lato, pronta ad esplodere al primo tocco e farti tremare, poi, quando salirà disinvolta sulla bilancia, all'aeroporto, e lei, la valigia, d'improvviso deciderà di pesare quei 200 grammi di troppo.
Quando il collega belga si avvicina per domandarti qualcosa, vede la valigia e allora Ah, allora parti! Dove vai? A casa?
tu: Sì, stasera dopo lavoro parto per l'Italia, vado al mio paese...
lui: E dov'è, fammi vedere su Google maps!
tu: Da qualche parte nel sud d'Italia, aspetta... - apri Google maps - ecco, è qui...
lui: Ah, sulla costa! Così vicino al mare! E nel sud!
tu: Eh... sì, sì...
lui: Dai, fammi vedere delle immagini, vai su Google images!
tu: Ma... va bene, aspetta - apri Google images - ecco, guarda...
lui: Ma... ma... cioè tu a casa hai la spiaggia, il sole, il mare, ma che ci fai qui in Belgio? Perché sei venuto qui a Bruxelles?

Un classico, sia Dublino che a Bruxelles. E tu sei lì, che vorresti quasi spiegargli l'equazione del sole e del lavoro, del sud e delle abitudini, che sì ti piace il sud, ma c'è tanto altro da scoprire, altrove, diversità da vedere e magari in parte assorbire, e vorresti dirgli tante cose, troppe, che alla fine non dici nulla, risolvi tutto in un eh che vuole dire tutto, per te, e niente per lui. E buone vacanze.

Ma non puoi smettere di giocare

Nonno! - Esclamò il nipotino di 10 anni - ma un giorno andrò anch'io altrove come lo zio?
Certo tesoro - rispose il nonno - certo che potrai... o magari dovrai - gli scappò con voce più sommessa - chissà...
Cosa vuoi dire nonno?
Che magari vorrai per vedere posti diversi o forse dovrai in cerca di un futuro migliore, ma c'è tempo per questo, - le orbite degli occhi cercarono distrazione - c'è tempo...
E nonno, potrò andare in altri paesi e giocare con i bambini di quei paesi?
Eh, questo dipende tesoro mio - socchiuse le labbra secche e prese fiato - che i bambini degli altri paesi magari ti guarderanno in modo strano perché verrai da un altro paese...
Ma nonno! Per me non sarà un problema, avrò comunque voglia di giocare, gli altri non vorranno?
Dipende piccolo mio, dipende. Magari giocherai con quelli come te, che verranno da qui, e giocherete felici tutti insieme.
Ma nonno, - gli occhioni curiosi gli si riempirono di luce - io gioco già con i bambini di qui... se vado in un altro paese vorrò giocare con i bambini di ! Sono cattivi i bambini degli altri paesi?
No, non sono cattivi, o non meno di te... Magari ci giocherai, magari no, dipenderà dalla tua integrazione...
E cosa è la integrazione nonno?
I bambini di altri paesi conosceranno altri giochi, mangeranno altra merenda e avranno già un sacco di amici con le loro abitudini - per un attimo guardò fuori, dalla finestra - per questo sarà più facile per te giocare con gli altri bambini come te.
Ma nonno, a me piace imparare giochi nuovi e mangiare altre merende!
Ma dovrai imparare anche un'altra lingua, eppoi chi ti dice che gli altri bambini vorranno? Avranno un'altra cultura, diversa, e non sarà facile per te come non è facile per lo zio adesso...

Allora è colpa della cultura, nonno? Anche io ho una cultura?
Tutti ne abbiamo una e nessuno la vuole perdere - abbassò lo sguardo, come a cercarsi parole tra le dita - Ma oggi dicono che il multiculturalismo abbia fallito...
Multicu-che? Che cosa è il multicutulismo nonno?
Il multiculturalismo è vivere tutti, ognuno con la propria cultura, nello stesso posto, cercando di mescolarsi e mantenere un certo equilibrio, senza perdere le proprie radici e rispettando quelle degli altri...
Nonno, non ho capito!
Non è facile, piccolo mio, è non devi capirlo adesso. Adesso va, va a giocare con gli altri nel cortile!
Ma nonno! Se continuo a giocare con loro, poi sarà più difficile per me giocare con i bambini degli altri paesi!
Ma non puoi smettere di giocare, angelo mio, non puoi smettere di giocare il tuo gioco, ora. Adesso va, va e non ti preoccupare!
Nonno! - Esclamò il piccolo Mohamed sulla soglia di casa - non vedo l'ora di giocare con i bambini degli altri paesi! - E corse fuori, veloce, mentre il nonno sospirò amaro, quasi invidiando quella ingenuità e certe semplificazioni, domandandosi semmai riusciranno un giorno a giocare, tutti insieme, quelli lì fuori e quelli lì altrove, con quel sorriso.

Maratona della Birra di Bruxelles, 2011

E anche quest'anno una massa frenetica di maglie gialle e sorrisi si è sparsa per il centro della città in cerca delle 10 birre da degustare, dei 6 simboli della maratona da fotografare, delle risposte al quiz da completare, durante la oramai famosa (ma non troppo) maratona della birra di Bruxelles. E come l'anno scorso, bisognava far in fretta per terminare il percorso e raggiungere la discoteca finale, che allo scoccare dell'una e mezza si chiudeva il traguardo e cominciava la festa.
Alcune delle persone vittime della maratona, ogni foto +5 punti!
Quest'anno però, un po' l'esperienza un po' la saggezza (ma neanche troppa), mi han fatto preparare meglio ed arrivare al traguardo, visto che durante la scorsa edizione mi arresi all'ottava birra, privo di sensi e decenza. Il segreto è anche non berle fino in fondo (e adesso lo so), o almeno non tutte, se non si vuole terminare a quattro zampe e vedersi rifiutare il taxi del ritorno a casa per paura di getti improvvisi, che le birre belghe son decisamente forti e dieci in poche ore son state una bella sfida per i 549 maratoneti di quest'anno.

Ma il bello della maratona è che non è una corsa di ubriaconi a bere a più non posso, ma anche e soprattutto un gioco, un'occasione di incontri e scoperte, facce nuove di ragazzi e di Bruxelles. Questa volta ho conosciuto anche gli organizzatori (che conoscevano il blog, addirittura) ed una coppia italiana che era lì proprio grazie al blog, che lo avevan letto su queste pagine virtuali e avevano deciso di partecipare, e io mi son quasi commosso, a sentire certe cose, che quasi gli volevo offrire una birra, ma non era il caso, lì, in quel momento, sarà per un'altra volta.
Lo so, lo so, sono 9, l'anno scorso erano 8, ho dimenticato di fotografare l'ultima,
un po' allegro un po' frettoloso, e così sarò costretto a partecipare anche l'anno prossimo.
Puntare a vincere la maratona è vivamente sconsigliato, non perché ve lo chiede il vostro fegato cantando lacrime napoletane magari con l'accento sbagliato, ma perché si finirebbe per non divertirsi, scappando da un punto all'altro senza potersi fermare per una chiacchiera, un brindisi, una risata con amici ma soprattutto con altri maratoneti che non aspettano altro che condividere con gente nuova quest'esperienza appassionante.
Purtroppo, come ogni anno, bisogna far in fretta per le iscrizioni, che esauriscono in poche ore e precludono una serata da non perdere. Per il prossimo anno allora restate sintonizzati, che non mancherò di ricordarvelo;)
Tutti i concorrenti prima della partenza. Da qualche parte, nella foto, c'è anche andima.

Sono una persona orribile

E adesso come dopo la morte di Michael Jackson, ci sorbiremo un mese e più di canzoni di Amy Winehouse, ovunque, in qualsiasi luogo, in ogni macchina, in tutte le case, sotto ogni ombrellone, sotto la doccia, sul cellulare.
Mi domando a questo punto cosa succederà quando morirà Rocco Siffredi...

p.s. il titolo del post riprende volutamente una nota serie del blog di Alessadro Bonino.

La cravatta e il panino di subway

Mentre l'altro ieri nella metro osservavi le lancette che quasi s'affrettavano per rubarti tempo e trasmettere stress, una ragazza ti scrutava con sguardo analitico ed una smorfia tra disgusto e dissenso, l'hai vista bene, quella smorfia, che non ha lasciato dubbi nel tuo immaginario, che prima ti ha fissato la cravatta - che lo sai stonava decisamente con il colore della camicia, ma la mattina è sempre una fretta che non lascia scampi alle perplessità - e poi ha fissato quello che portavi alla mano, un panino di subway, ancora caldo, preso di corsa tra l'ufficio e la metro, e allora magari avrà calcolato i due addenti e la conclusione sarà stata qualcosa tipo: povero impiegato, ufficio e casa, e guarda che cena, un panino di subway, che pena, cibi commerciali, sintetici, di plastica, che vita avrà mai, dalla scrivania indaffarato ad una cena solitaria direi, quasi malato, con un panino di subway. Solo che lei non l'avrà pensato in rima, forse.
Però mai sommare una cravatta ed un panino di subway. Perché la vita degli altri ha dettagli e scorciatoie quasi impossibili da decifrare e loro, le scorciatoie, hanno codici segreti e maniglie ben nascoste, e allora un giudizio affrettato genera spesso teorie anni luci lontane da quello che poi può essere la realtà e lei, la realtà, sa ingannare anche chi la possiede, facilmente. Mai giudicare una cravatta più un panino di subway. Perché della vita degli altri non possiamo sapere tutto né pretendere di scoprirla in due dettagli sebbene evidenti o dalla somma di due sguardi addirittura in movimento, nelle oscillazioni del vagone della metro, che lui, il resto, è tanto grande quanto complesso, anche per chi ci vive dentro. Eppoi eran belle le parole di Freccia, pensi, quando al microfono diceva credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri, anche senza cravatta e senza panino di subway alla mano.
Avresti quasi voluto dirglielo, che la cravatta non è giornaliera ma a certi meeting è una maschera quasi obbligata per manifestare serietà e celare lacune, e che il panino non era la cena, ma una base necessaria a quello stomaco che presto si sarebbe ritrovato nella maratona della birra di Bruxelles, e che non ci sarebbe stata nessuna tavola triste e solitaria ma corse e sorrisi, brindisi e incontri, e che lei, la birra belga, può far male a stomaco vuoto, lo sai bene tu che lo scorso anno eri a terra inerte dopo l'ottava e non hai visto il traguardo.
Quando alla fermata le porte si son aperte di scatto per vomitare l'ennesimo carico di corpi e pensieri, avresti quasi voluto dirglielo ma saresti caduto nel giudizio di pensieri altrui, a giudicare chi supponevi stesse giudicando, che magari era tutta una fantasia, la tua, di quelle che rigurgiti nei tragitti quotidiani, nella metro degli stimoli imprevisti, eppoi non c'era tempo, c'era una maratona da affrontare e dei sorrisi da rincorrere e la cravatta da lasciare a casa e, già, il panino di subway da mangiare, innocente lui, che più che in pasti ai giudizi stava per finire in un mare di birra.

Il discorso nazionale, alla non nazione

Così domani il Belgio sarà fuochi e parate per la festa nazionale, anniversario dell'indipendenza, un po' come il 14 luglio dei vicini francesi ma meno patriottico e sciovinista, che loro, i francesi, ridono spesso dei vicini belgi, quando ascoltano qualche espressione in francese che risente d'inglese o d'olandese, quasi un sacrilegio, per loro, che il francese è di Francia e tutti gli altri son scolari, somari. Eppoi il Belgio, si sa, è il paese del surrealismo, dicono, che dopo 400 e più giorni senza governo dalle ultime elezioni tutti si chiedono cosa mai dirà il re alla nazione durante l'annuale discorso, che finora ha nominato dieci e più responsabili per risolvere la crisi tra i partiti ma è difficile dividersi le fette di potere quando la torta ha due ricette, una fiamminga e l'altra vallona, e in più al centro la ciliegina brussellese fa gola a tutti ma resta amara, non solo in gola. E il re dovrà parlare di nazione ed unità, proprio il re, che guai a chiamarlo Re del Belgio, che lui è il Re dei Belgi e non del Belgio, perché la monarchia qui fu una monarchia popolare, che non c'era nessun monarca quando i belgi, proprio quel 21 luglio 1831, ne elessero il primo ottenuta l'indipendenza, e ne elessero uno tedesco, neanche belga, che divenne quindi il re dei belgi. E proprio lui, non lo stesso del 1831, ovviamente, ma il re dei belgi attuale, nato proprio in quel di Bruxelles, dovrà parlare di nazione, d'identità ed unità a quel popolo elettore che 400 e più giorni fa ha votato per un governo che ancora non c'è, ha visto vincere un partito dall'umore separatista, è sceso in piazza gridando vergogna, vanta un nuovo record del mondo non proprio da elogiare e ancora si domanda semmai ci sarà soluzione o rottura, magari in attesa di una parola consolatrice, uno spunto emozionale da quel re che li rappresenta, anche se quando parla olandese fa sorridere per l'accento - dice il collega belga, del nord, ovviamente - e ha sempre quell'espressione un po' triste un po' solenne, da giorni al centro di previsioni, vignette e scommesse, per capire cosa mai dirà nel suo discorso nazionale a quella che per molti appare come una non nazione, magari riassunta proprio in un quadro del loro celebre Magritte. Maestro del surrealismo, appunto.

La ville est vide

Dice il tassista, mentre si dirige verso il centro e i tergicristalli spazzano via l'umore non estivo di una notte brussellese, la ville est vide, e lui la preferisce così in un luglio uggioso, vuota, tranquilla, che di turisti ce ne son sempre ma lui almeno non subisce il traffico di quella definita città più imbottigliata d'Europa (ma davvero?), mentre il tuo accento non tradisce i lineamenti e le espressioni, ti chiede subito se sei italiano, o meglio non lo chiede, te lo dice già, a te che invece vorresti chiedertelo ogni tanto, non tanto per perdite improvvise di presunte identità, quanto per significati e teorie mal digerite, troppo lunghe da affrontare in un taxi verso il centro e che poi non interesserebbero nemmeno al tassista spensierato, nella sua città tranquilla, finalmente. E allora sì, gli confermi l'intuizione e tagli corto, sei di Napoli, che le approssimazioni non tengon mica conto degli errori eppoi che senso avrebbe perdersi in dettagli, in luoghi a più sconosciuti e panorami intimi, associazioni personali.
Poi per un attimo il tassista si volta, parla di Sicilia e della sua terra, lì appena oltre il mare, dice che siam vicini, l'Italia e la Tunisia, come lui seduto a guidare e tu lì alla sua destra, basterebbe allungare una mano per toccarsi, non c'è bisogno di gridare per comunicare, eppure non tutti quelli che si siedono poi iniziano a parlare. Intanto i tergicristalli continuano imperterriti, che magari è colpa loro se fuori piove, se il cielo colora la notte d'un grigio intrigo, lo stesso che vedrai dalle vetrate del pub del centro, quando in una birra belga lascerai andare i pensieri insoddisfatti, quelli accumulati e più pesanti, in attesa che diventino leggeri tra un sorso amaro ed un altro veloce. Ma quel grigio lassù è una tela ben studiata, che intrappola pensieri quando lasciati andare salgono flottando per rimanere lì impigliati e mostrarsi immutati al prossimo sguardo distratto, quando qualcuno ti parlerà e tu con la mente sarai già altrove, i tuoi occhi cadranno su quel grigiore in movimento e la sorpresa sarà ritrovarci i tuoi pensieri.

Contro natura

Povero il leone Ariel, re della selva senza più regno, da un anno paralizzato e bisognoso di cure. Povera pure la veterinaria, cercando d'aiutarlo mentre lo vede soffrire, chiedendo al mondo aiuto per gli 11.000 dollari e più al mese necessari per le cure, ma per fortuna ci son i giornali, il tam tam della rete, i 50 mila e passa sostenitori della sua pagina su facebook per l'ennesima contraddizione che stimola sentimenti e click e magari Ariel continuerà il suo viaggio, anche se forse lui vorrebbe l'eutanasia, che neanche sa che significa, ma è l'istinto che lo suggerisce, quella natura che lo vorrebbe ruggire, scattare, e che bilancia equilibri sottili e che, se potesse, u-n-d-i-c-i-m-i-l-a dollari al mese li destinerebbe cinicamente ad altro. E pure Ariel sarebbe d'accordo.

Ieri in ufficio

Ieri in ufficio stavi leggendo qualche brano in francese, che adesso che la scuola serale è terminata per la pausa estiva ne approfitti ogni tanto e chiedi qualcosa ai colleghi, e leggevi di analfabeti e illetterati (analphabètes et illetré), qualche foglio proposto durante i corsi dalla prof, ma che non avevi leggo per chissà quale motivo, che la prof consegna di tutto da leggere, spesso interessante, altre volte da individuarne il senso. E a un certo punto hai chiesto qualcosa al collega, più per stimolarti a praticare il francese che per fare una domanda vera e propria e infatti non dovevi farlo, perché poi ti sei ucciso.
Riassunto fedelissimo di suicidi quotidiani. Lo so, la
mia calligrafia non è delle migliori, ma credo si capisca.

La pigrizia ci ucciderà

A mensa, mentre sei in fila per riempire la tua bottiglietta d'acqua, il collega con il vassoio già pieno riempie il suo bicchiere d'acqua. Poi lo lascia sul vassoio e prende un altro bicchiere di plastica e lo riempie. Poi lo lascia sul vassoio e prende un terzo bicchiere di plastica e lo riempie.
"Ah, prendi l'acqua per tutti oggi?" Gli chiedi.
"No... no... è per me, così non mi devo alzare ogni volta per riempirmi di nuovo il bicchiere" E sorride. Sorriderà magari di meno il pianeta quando di tutta quella plastica non saprà che farne, come digerirla, trasformarla. Sorrideremo di meno anche noi, poi, quando di quella plastica saremo costretti a cibarci.

E per fortuna non era Casu Marzu

Me lo immagino, Yuri, mentre galleggiava nell'aria nella stazione orbitale durante la missione STS-100, con i pensieri in preda all'assenza di gravità, ognuno al posto sbagliato, le preoccupazioni che si scontrano con i sorrisi, una speranza che non può più cascare al suolo e trasformarsi in delusione, ma non come accadrebbe a noi, no, non nel panico improvviso d'idee senza appigli, che gli astronauti son stati preparati anche a questo, anche a gestire la gravità tra le pareti cerebrali, con i pensieri che galleggiano sì, ma con disciplina. E insomma Yuri stava lì a scrutare la terra da lontano, con gli occhi a cercare di intravedere a migliaia di chilometri di distanza la sua piccola, piccolissima regione, ma niente, la rotazione terrestre non lo permetteva, non ancora, bisognava attendere ancora un po' e nell'attesa un pensiero di nostalgia quasi galleggiava fino alla metamorfosi lacrimale quando ad un tratto Yuri sente qualcosa, un odore strano, mai sentito prima. E con metodologia, come gli avevano insegnato ai training per viaggiare nello spazio, Yuri respira profondamente e prova ad analizzare l'aria, annusando bene, aprendo bene le narici, collezionando campioni di quell'odore, senza muoversi per non perdere la concentrazione, mentre intorno Ken, Jeffrey, Chris, John, Scott e Umberto erano impegnati in chissà quale altro esperimento spaziale. Quando poi Yuri proprio non sapeva contestualizzare e identificare quell'odore, che non era sicuramente nella documentazione NASA, che non faceva parte dell'equipaggiamento della missione, che non poteva essere un corpo estraneo entrato all'improvviso dallo spazio, a contaminare la stazione, ad alterare gli esperimenti e la missione e il livello di allarme, si volta con le gocce di sudore anche loro in preda all'assenza di gravità, che non è bello, quando dall'ascella qualcosa ti scivola sul collo e ti arriva dritta in faccia, si accorge che Umberto aveva qualcosa in mano, che non era kriptonite ma gli aveva scombussolato tutti i sensi, lì, nello spazio, e lasciato in preda alla pressione dell'ignoto. E in una crisi di nervi lì lì per arrivare, anche i nervi senza gravità, con il sudore ascellare nelle narici, allora Yuri quasi urla un "What's that?" e Umberto gli risponde con calma ed un sorriso sotto quei baffi: è Parmiggiano, ciccio, Parmiggiano nello spazio.

Certi regali son per sempre, o quasi

Poi ti ritrovi con gli scatoloni del trasloco che sembra infinito, quelli con la priorità più bassa e perciò delegati agli ultimi fine settimana, quelli rimasti ancora chiusi e di cui nessuno sa cosa mai possano contenere, quasi fossero degli scrigni segreti di popoli estinti o meteore piombate in notti ignote da mondi lontani, che loro, i mondi lontani, buttano cose così, nell'universo, a casaccio, e questo cose poi cadono dal cielo, prendono fuoco, sembrano comete, da lontano qualcuno dedica loro pure un desiderio e le indica col dito, e invece loro, nei mondi lontani, avevano magari semplicemente buttato la spazzatura e tu invece l'hai trasformata in sogni. Che siamo spesso così, coprofagi inconsapevoli.
E insomma ti avvicini ad uno degli scatoloni quasi con fare premuroso, che un movimento maldestro potrebbe innescare una reazione imprevista e micidiale, che ad aprirlo le pareti celebrali ti si riempiono di incognite ed ipotesi che puntualmente cadranno di fronte all'inatteso quanto inutile oggetto portato dietro di trasloco in trasloco e invece dopo aver spostato questo e lasciato cadere quell'altro, ecco che ti ritrovi tra le mani un foglio di carta che non lascia dubbi per forma e consistenza: è lui. Lo avevi davvero dimenticato ma salta fuori, quasi diffondesse una luce propria, come fosse il Santo Gral da alzare al cielo in segno d'idolatria, senza neanche scartalo inizi a ridere e t'accorgi subito dell'errore, dall'altra stanza lei ti domanda perché ridi, che non bisogna mai ridere senza calcolarne le conseguenze, quando si fruga negli scatoloni. E dici niente, niente, che hai trovato le solite cose inutili, che sarebbe bene buttarle e liberare spazio, bisogna sempre liberare spazio, che altrimenti si sta stretti, che sennò respiri la polvere degli oggetti del passato e ti droghi di ricordi anche quando sei in armonia con il tuo presente e non lo sai. Scosti un po' il foglio di carta e lo rivedi, lì, rosa, erano anni che non lo contemplavi così, che quasi ti mancava, regalo di laurea d'amici d'università, chissà perché portato con te dall'Italia a Dublino, dall'Irlanda a Bruxelles, per ricordare quella banda di esauriti dei tuoi amici, quasi fosse una foto di alcuni di loro, una sintesi, un contenitore di concetti, di tempi passati. Ah se potesse parlare! Per un attimo vorresti quasi accenderlo ma poi il rumore sarebbe troppo sospetto, più della risata di prima, e allora no, niente, con fare deciso lo rinchiudi di nuovo nella sua veste di carta e lo getti nella busta della spazzatura, quasi con rigetto, come fosse il più brutto dei rifiuti. Veloce, senza guardare, senza fiatare. Addio, vibratore a tre velocità.

Percezioni brussellesi

Qualche settimana fa all'uscita dalla metro, mentre tu e la ragazza lituana del corso di francese parlate di Bruxelles, c'è qualcuno avanti che si tira pigro un foglio di giornale sotto al piede, che se fosse stata una lattina almeno l'istinto del calciatore l'avrebbe lanciata di qualche metro, spostandola dal tragitto o proiettandola nella traiettoria futura, in attesa del prossimo colpo maldestro, invece i fogli di giornali spesso ce li portiamo dietro, perché leggeri e incoscienti, perché incolpevoli e distratti. La ragazza lituana del corso di francese dice che dove abita, qui a Bruxelles, ci son un sacco di polacchi e si sente più al sicuro in mezzo a loro, perché li conosce, perché son facce familiari, perché ne capisce la lingua e può comunicare, e mentre te lo dice tu per un attimo sei altrove, pensi che nella cittadina in quel sud d'Italia da dove vieni i polacchi magari non trasmetterebbero la stessa sicurezza, magari sarebbe da evitare un quartiere affollato di operai in nero e badanti con la malizia della fuga, che sarebbe considerato degradato, e sei dovuto andar a Dublino, in quell'Irlanda di 4 anni fa che ancora ruggiva di tigre celtica e incentivi, per ritrovarti con il team leader polacco che coordinava ma soprattutto condivideva conoscenze, t'insegnava sviluppo e design, in giacca e cravatta e non pantaloni sporchi di stucco, lontano da tutti quei pregiudizi e stereotipi che altrove chiudono menti e generalizzano percezioni di realtà. Perché la realtà non è sempre soltanto quella che si vede intorno, che ci raccontano fin da piccoli o che ci ripetono attraverso luoghi comuni e credenze, propagande unilaterali e chiacchiere da bar.
E mentre la ragazza te lo dice e tu sei ancora altrove, passa un ragazzo, dai lineamenti magrebini, magari in direzione di un altro quartiere per alcuni insicuro, degradato, da evitare, soltanto perché non popolato da maggioranze d'Europa occidentale, sicuramente diverso dal quartiere delle istituzioni europee, dove stranieri poco integrati brindano in inglese e spendono beati stipendi incontrollati. E tu da quel quartiere dopo 2 anni sei andato via, seppur sicuro e moderno, perché morto, surreale, scheletri d'uffici e strade deserte nei fine settimana, cravatte frettolose e polizia a transennare la mattina. Sei andato dove ci son i polacchi, i magrebini e tanti altri, ma c'è soprattutto vita, a St. Gilles, e un'altra realtà da percepire. Poi magari te ne penti, chissà.

Voici du jus de gingembre

Reazione ad un succo di zenzero, come sostituto al caffè a fine pranzo,
in un ristorante senegalese a Bruxelles. Succede esattamente come descritto
 in un disegno lasciato da una cliente sulla parete, anche se continuo a
preferire l'Amaro del capo. Foto scattata qui.