Ritals

Li chiamavano così, gli italiani emigrati in Francia e Belgio dagli inizi del 900 all'ultimo dopoguerra, ritals (ma anche "macaroni", "pipi", "babi"), in senso dispregiativo in principio, come accade quando il diverso arriva di colpo (ed in massa) e la reazione è spesso quella della distanza e della difesa. Li chiamavano così ed era il modo di discriminare l'immigrato, in una tensione sociale che non ha mancato di toccare in modo cruento anche i nostri precedessori, italiani all'estero, quelli però senza carta di credito, senza volo low cost e senza Skype, ma anche no. La famosa valigia di cartone e gli italiani che dormivano in letti sempre caldi. Tensione sociale che, per esempio, terminò nel famoso massacro di Aigues-Mortes, dove furono uccisi fino a 150 italiani (il numero varia in base alle fonti), quando all'improvviso si scatenò una caccia all'immigrato, all'invasore, a chi rubava il lavoro. Vi ricorda qualcosa? Sono passati più di cento anni da quel massacro, di lotta di classe, di diritti, di sensibilizzazione, eppure quelle frasi e quel sentimento vive ancora verso altre ondate migratorie, moderne, per fortuna in cronache di minor intensità ma non per questo meno importanti.
E di rital si sentiva parlare anche in Belgio, qui a Bruxelles, quando nel 1946 ne arrivavano fino a 2000 alla settimana, di italiani in cerca di lavoro, in base al famoso accordo tra governo belga ed italiano per mano d'opera nelle miniere del sud in cambio di importazioni di carbone. Un rital era un ressortissant italien, per alcuni, o semplicemente un italien con l'aggiunta di quella 'r' che in francese era (ed è) difficile da pronunciare nella maniera corretta per gli italiani, per altri, insomma era né più né meno del nostro vuocumprà o chissà quanti altri nomignoli creati per identificare alcune classi di immigrati. Un rital aveva problemi d'integrazione, dovuti alla lingua, alle scarse risorse economiche, alla mancata educazione, al rigetto nel paese ospitante e ogni problema dovuto all'appartenenza ad una classe sociale di basso profilo. Un rital era orgoglioso delle proprie origini, forse più del dovuto, ma era in fondo una forma di difesa, in contrasto con chi lo definiva appunto rital, in modo dispregiativo. Un rital magari più recente sfrecciava in una macchina sparando a tutto volume "Je suis rital", lasciando qualche faccia perplessa intorno e confermando le sue origini negli stereotipi che il tempo sviluppa e poi radica.
Oggi rital sembra aver perduto quel suo senso dispregiativo, anche perché quei rital di un tempo son diventati parte integrante del tessuto sociale belga e le nuove generazioni sono belghe a tutti gli effetti, non disdegnando però di ricordare le proprie origini, quelle del padre, quelle nonno, magari partecipando a qualche festa dalla dubbia collocazione nazionale, correndo in massa allo stadio se per caso la squadra di calcio dei loro sogni venga a giocare in Belgio, cercando di praticare ancora quella lingua tanto amata. Oggi i rital diventano anche primi ministri, in Belgio, segnando quella che proprio Di Rupo ha definito una favola, da una famiglia disagiata all'occupare la carica politica più importante del paese.
E poi ci siamo noi, italiani in Belgio di ultima generazione, di passaggio o decisi a rimanere, probabilmente non verremo mai chiamati rital o almeno non in quell'accezione originaria, non dovremmo però ignorare chi eravamo, in termini di comunità, qui come altrove, né pensare che altre comunità, adesso nella loro fase rital, siano meno degne della nostra comprensione. Non è facile però.

E mi ricordo che

E nel giorno della memoria, sarebbe bello ricordare anche i 10 milioni di congolesi sterminati dalla colonizzazione belga e di quel più feroce Hitler che fu il re Leopoldo II, poco prima della prima guerra mondiale, e che ha poi lanciato il paese in una spirale di follia che dura ancora oggi. Solo, i congolesi sono meno importanti degli ebrei, sembra, e grazie a loro ci si è riempiti di diamanti, ma anche di cioccolato. Amaro, però.

Lavarsi la faccia

Si lavava la faccia due volte al giorno, lui, tutti i giorni. Se qualcuno gli avesse domandato perché mai si lavasse la faccia tutti i giorni, due volte al giorno, avrebbe risposto, lui, Per svegliarmi, la mattina, per pulirmi, la sera. E avrebbe avuto senso, la risposta. E invece mentiva, lui, più o meno, o non diceva, che a volte è meglio del mentire.
La faccia, lui, se la lavava, tutti giorni, è vero, due volte al giorno, ma aveva un'altra spiegazione, lui, tutta sua. Ognuno ha le proprie spiegazioni, per tutto, diceva il nonno, il suo. Dopo una nottata di sogni, viaggi, voli e mescolanze di ricordi, voci e presagi, dove l'immaginazione prendeva il sopravvento ed il subcosciente preparava per bene minestre oniriche utilizzando quel che trovava a caso nell'ippocampo, un mago, il subcosciente, bisognava pur lavarsi la faccia, far scivolare via tracce della notte e prepararsi al giorno, altrimenti si sarebbe potuto trovare il nonno al fianco in ufficio, il suo, un paio d'ali lì dietro, sulla schiena, la sua, e la pianta che gli avrebbe parlato nel bel mezzo di un meeting, anche se noioso, il meeting. Non poteva correre il rischio, lui. E dopo una giornata di metro, ufficio, strada, traffico e bestemmie e scadenze e preoccupazioni, la fretta poi, la battuta fuori luogo del collega e la notizia di bombardamenti sul giornale, il cliente che puntualmente non aveva capito una mazza e il manager che quella mazza l'aveva stupidamente promessa, puntualmente, ecco, bisognava pur lavarsi la faccia, far scivolare via tracce della giornata e prepararsi alla notte, altrimenti avrebbe potuto dormire con il manager al fianco nel letto, il suo, un paio di documenti lì, tra le mani, le sue, ed il comodino che gli avrebbe parlato con l'ultimo bollettino di guerra. No, non poteva correre il rischio, lui.
E allora era vero, si lavava la faccia due volte al giorno, lui, tutti i giorni. Ogni mattina, sappiatelo, si lavava la faccia per lasciar via i sogni, i suoi. La notte invece, la faccia se la lavava per lasciar via gli incubi, quelli degli altri.

Gli italiani all'estero di cui non si legge in giro

Faceva freddo ieri sera a Bruxelles, alla Porte de Namur, c'era quella pioggerellina sottile, continua, che accompagna ogni smorfia. E c'era una ragazza sul marciapiede, mentre ti affrettavi a raggiungere la scuola, per gli esami del quinto livello di francese, tra il traffico, il semaforo, persone e pioggia. Aveva il classico cartello da mendicante, quella ragazza sul marciapiede, j'ai faim, diceva il cartello, ho fame, ti ripetevi in mente. L'hai guardata di sfuggita, tra il marciapiede nero, di pioggia, di passi, di fretta e di città, e l'hai guardata per un attimo prima che lo sguardo cadesse di nuovo al cartello, j'ai faim, ho fame, diceva. Era giovane, giovanissima, non più di 25 anni probabilmente, e d'istinto ti sei fermato per far cadere un euro in quella specie di ciotola, vuota in attesa di speranze. Hai sempre avuto come un sentimento sommesso per i mendicanti, d'indifferenza, d'incomprensione, magari riassunto in quell'espressione comune, andassero a cercarsi un lavoro, oppure meglio non dar loro nulla, meglio non illuderli di poter andar avanti così oppure mah. Quando però la gravità ha risucchiato il tuo euro in quella specie di ciotola, lei ha reagito con un merci, un grazie che non ha lasciato equivoci, la pronuncia, l'accento, ci sono cose che anche tra il rumore del traffico, i passi della gente e il ritmo della pioggia, ci sono cose che non lasciano dubbi: era italiana. Ma sei italiana? Le hai chiesto, sì, sono italiana, t'ha risposto, e cosa ci fai così? cosa è successo? a quel punto ti fermi, tutto intorno scompare, siete tu e lei e basta. Lei, italiana a Bruxelles, 25 anni, probabilmente, avrebbe potuto essere tua sorella, probabilmente, non ti saresti fermato se fosse stata più grande, dal colore di pelle diverso o dai lineamenti troppo stranieri, si chiama empatia probabilmente, è lo stesso motivo per cui si piange per la morte di un cantante ma non per i cento bambini giornalieri in Africa. Non ho trovato lavoro, ci ho provato, ma niente e... ecco, ti dice, ecco. Ma da quanto tempo sei a Bruxelles? Sei, sette mesi forse. E perché non torni in Italia? No, in Italia no, sarebbe peggio. Quando si volta per non guardarti più, come a voler chiudere la conversazione, già sicuramente troppo intima e imprevista, le lasci 5 euro cercando di abbozzare un sorriso maldestro d'incoraggiamento e domandando, quasi fosse quello il prezzo per un'ultima domanda, come ti chiami? Gaia, ti risponde. Buona fortuna Gaia.

Bruxelles ma rebelle

Ho ripetuto quasi a memoria l'inizio in olandese del messaggio della metro, come quello in francese, come quello in inglese. Ho lasciato il corpo appoggiato nell'angolino tra la macchina dei biglietti ed il portellone della metro, mentre la mente frugava tra le facce degli altri senza una meta ben precisa. Mediocre mente. Se ci fosse stato un controllore, nella metro di Bruxelles, l'avrebbe fermata all'istante. Non si importunano così le rughe altrui, senza un camice di confessore. Appena il treno della metro ha frenato all'improvviso, troppo tardi per la mente distratta, il corpo era quasi a terra. Instabile, questo corpo.
Ho lasciato il corpo a sorseggiare una birra belga tra chiacchiere che non migliorano lo spirito, mentre la mente frugava tra le voci degli altri decifrando alfabeti accentati. Appena il quarto bicchiere ha diffuso il suo tonfo vuoto, troppo tardi per la mente distratta, il corpo era già un contenitore di rigurgiti. Mediocremente. Ho detto vai corpo, fatti questi due giri di parco, guarda che verde al parco Duden, mentre la mente frugava tra scadenze, impegni ed interrogativi voraci. Andare, è andato. Poi ci siam persi, lui era già tornato a casa quando la mente ancora seguiva le radici d'un albero secolare. Maldestre, queste menti.
Ho parlato di italiani a Bruxelles con un amico salentino ed una ragazza asturiana. Sembra ci sia una statistica a Bruxelles. Sembra che le ragazze, tutte, siano state almeno una volta con un ragazzo italiano. Ovunque, questi italiani. Sembra che ci sia anche un'espressione, per loro. Sembra, che al confronto con altre nazionalità, siano più insert coin. Insert coin, questi italiani.
Ho lasciato fuori la spazzatura sempre nei giorni prestabili, per due anni e mezzo. Ho lasciato la spazzatura fuori l'ultimo giorno del trasloco, dopo le pulizie, non potevamo andar in metro con un bustone della spazzatura, pensai. Ma non era un giorno consentito. Che sarà mai, per una volta, pensai. Dopo qualche mese ho ricevuto una lettera dal comune di Schaerbeek. Era la spazzatura. 160 euro di multa. Precisi, questi belgi.
Ho raccontato ad un belga francofono di quanto spesso capiti di entrare in un negozio, qui a Bruxelles, parlare francese e ricevere risposte in italiano. Capita anche a me, m'ha detto, ma con l'olandese. Simpatici, questi belgi francofoni.
Ho giocato a biliardino con un ragazzo italiano in un pub spagnolo, contro due ragazzi greci, parlando in inglese, qui a Bruxelles. I ragazzi greci ridevano tanto, sicuri di distruggerci. Noi pure, nell'insensata convinzione che l'Italia vincerebbe senza problemi contro la Grecia e così pure noi. La patria è una religione fatta di bestemmie. Una ragazza greca non faceva altro che parlare, al lato del biliardino, distraendo. Grecia 1 - Italia 0. Bravi. La ragazza greca continuava a parlare. Sorry, can you go for a walk, le ho chiesto. E' andata. Ubbidienti, queste greche. Grecia 1 - Italia 1. Ecco. La ragazza greca poi però torna, all'improvviso. Grecia 2 - Italia 1. Finisce così, con i greci in trionfo quasi avessero vinto la coppa dei campioni. In effetti, hanno battuto l'Italia, mica poco. Quasi inutili, queste nazionalità.
Ho detto Bruxelles, e se ci vedessimo di meno?. Aspetta un attimo, m'ha risposto.

Bruxelles ma belle

Ho detto pardon alla signora che aspettava sulla soglia del vagone della metro e mi ha risposto oh sorry, ho lasciato la porta aperta per il tizio che stava arrivando nel lungo corridoio per andare in ufficio, ha detto dank u well, ho urtato un ragazzo per strada facendo cenno del dispiacere, ha detto no pasa nada. Ho assaggiato la pioggia che lenta staccava pezzi di colore dal cielo per confonderlo con la città, non aveva il sapore di vaniglia ma del resto la vaniglia non è grigia. Chi passeggia con l'ombrello, sotto questa pioggia, riceve l'applauso delle gocce sulla tela ma perde il messaggio decifrato di tamburi uggiosi.
Ho visto un ragazzo magrebino con un cappello della nazionale italiana e quei colori hanno richiamato l'attenzione, come se il tricolore avesse voce, la voce diceva hey mi hai visto, sono io, sono te, diceva, e invece era soltanto un simbolo commerciale. La mia patria non ha soltanto tre colori, tre colori sono pochi. Sotto la pelle non c'è bandiera, ho controllato. Ho ascoltato un professore di Berlino ripetere che la salvezza per l'Europa dei vecchietti è nella riforma del sistema educativo e nei flussi migratori, mentre c'è chi altrove pensa di risolvere la crisi alzando il prezzo del permesso di soggiorno. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, o sé stesso, come dicono alla Crusca. Solo che siam talmente connessi che allora bisognerebbe piangere tutti insieme. Non sarebbe una bella scena, piangere tutti insieme.
Ho incontrato un ragazzo spagnolo che parlava perfettamente italiano senza averlo mai studiato, lo ha imparato guardando rai1, rai2, rai3 sulla televisione belga, ha imparato italiano guardando la tv italiana. Per un attimo ho avuto paura. Ho pensato potesse parlare con la voce della Di Filippi, con gli editoriali di Minzolini, con le curve di una velina. Invece era un ragazzo sano. Imparare una lingua non cambia la propria visione del mondo, forse. Non ho osato però domandargli un'opinione sulla tv italiana. E sulla cultura che ne ha dedotto. Ho conosciuto un ragazzo francese di madre calabrese, urlava Cavani, Cavani, Cavani, cercando napoletani in un pub a Bruxelles. Conosceva a memoria l'intera formazione del Parma del '98. Ci sono giocatori che ricordo soltanto grazie a Fifa 99. Hanno tutti la faccia uguale al 70%, nelle mie memorie. Poi ha iniziato a gridare forza Lecce. Ho avuto come l'impressione che stesse buttando l'esca e pescare qualche tifoso, qualche simpatia. Chi semina cori da stadio non raccoglie sempre simpatie, ma nemmeno tempesta.
Ho portato con me in Italia gli appunti di francese, ma che sia liceo, università o corso di lingue la regola non cambia. Durante le vacanze non si fanno i compiti. Ma si fa cambiare aria ai libri. Ho comprato da Bruxelles dei libri spagnoli in una libreria di Madrid e li ho inviati in Italia. In Italia ho incartato i libri spagnoli e li ho portati con me a Madrid. A Madrid ho regalato i libri spagnoli, che son venuti con noi a Bruxelles. Il cerchio si è chiuso. Ho fatto girare l'economia. Ho conosciuto un ragazzo romano che vive a Madrid, abbiam parlato dei falsi amici della lingua spagnola e dell'essere italiani all'estero, entrambi da più di 4 anni altrove. Quegli strani esseri mitologici, metà stranieri metà italiani. Ho quasi avuto voglia di rimanere a Madrid, questa volta. Mi passerà prestissimo.
Ho sussurrato Bruxelles, ma ti son mancato?. Aspetta un attimo, m'ha risposto.

Ripartenze

Lo so, la calligrafia è da migliorare. Il disegno, pure. Ma siccome un babbo natale meno paffuto
e meno barbuto del solito mi ha portato in dono una tavoletta grafica, beh dovevo
pur incominciare ad usarla. Ecco, questa è una prova, si spera in miglioramenti.