Sul treno verso Roma

E tu, bambino di appena 2 anni seduto tra le braccia della mamma, in questo treno affollato che ci porta a Roma Termini, tra gli sguardi curiosi che lanci intorno e le esclamazioni nascoste in ogni smorfia che regali al mondo, non ricorderai nulla di questi momenti, dell'adesso già passato, del signore qui a fianco che per mezzora ha cercato di attirare la tua attenzione rubando anche qualche sorriso non porterai memoria con te né di questo viaggio natalizio tra valigie ingrassate e panorami inaspettatamente soleggiati, non ci sarà posto tra le tue registrazioni celebrali di questo sconosciuto che t'osserva con fare sospetto interrompendo una lettura di Calvino e cercando tra la tua pelle arrossata riflessioni che non t'appartengono ma di cui forse sarai l'ispirazione; saranno altre le cose che ricorderai nella giustizia d'equilibri d'emozioni, saranno altre le cose che non vorrai dimenticare, che il tuo istinto di sopravvivenza conserverà con prudenza, che il tuo cuore ancora intatto porterà come cicatrice, perché adesso è il tempo dell'attesa, della crescita necessaria, del riempire i giorni di sapori, di tatto e carezze e puntare già al prossimo richiamo, che sia un suono, un colore o la novità d'un oggetto inerte agli occhi altrui. No, non ricorderai nulla di quest'adesso, perché ci saranno cose più importanti da accumulare tra memorie e connessioni neurali, né potrei mai fartene una colpa - non avrebbe senso -, ma sarai colpevole semmai un giorno, se tra qualche decennio continuerai a non accumularne, se le tue ore passeranno di continuo senza un'identità da raccontare, lasciando a digiuno raccoglitori d'emozioni lì programmati a registrare e ricordare, sarebbe semmai una colpa non approfittare degli adesso futuri e lasciarli passare in quel modo, a meno che tu non voglia, un giorno, tornare bambino.

Matriosca natalizia

Tra il riflesso ovale del tuo sguardo distorto nella sfera di una decorazione natalizia un po' invecchiata e l'ennesima frase che risuona più dell'immancabile augurio già svuotato però del suo significato originale, eh già, appena dopo aver liquidato la ripetizione dello stesso film natalizio, ancora, in onda da almeno un ventennio, una volta l'anno, di quelli dove l'acconciatura più che l'abbigliamento marca l'epoca remota e scene oramai memorizzate, t'accorgi che quella tipica sensazione di ritorno al passato in un mondo dove poco sembra essere cambiato, quel ritrovare persone e cose dopo anni sempre negli stessi luoghi, quasi facessero parte del paesaggio urbano e dovessero, inevitabilmente, farne parte, per non segnarne una mancanza, per non dar risalto ad una forzatura di cambiamento, proprio quella percezione d'immutabilità delle cose che risalta ad ogni rientro, sembra accentuarsi col natale, perché il natale ha in sé la metafora di se stesso. Ci dev'essere come un'entità superiore, lì, nel cielo freddo di dicembre, in attesa paziente d'ogni nuovo natale, pronto a prendere dallo scatolone impolverato personaggi e strutture, aggiungere magari qualche pennellata di rughe su qualcuno, un po' di polvere bianca tra i capelli ad altri, per posizionarli poi nella stessa posizione da anni, aggiungere i dialoghi, le esclamazioni, e ripetere il rito della preparazione e della ripetizione del natale, ancora una volta, instancabilmente, per farti ritrovare a tavola circondato dalle stesse frasi a commentare le stesse pietanze mentre in tv trasmettono lo stesso film e lì, in un angolo, c'è lo stesso presepio che ripetiamo anche noi, in scala maggiore, come un'inconsapevole matriosca natalizia, senza muschio ma con un po' di luoghi comuni sparsi qua e là, senza un motore che simula una fonte, un ruscello, ma con l'energia di un'euforia festiva alimentata dal raduno temporaneo; solo il tempo saprà se nascerà davvero qualcosa di nuovo, in questo natale, o se si starà semplicemente celebrando il rito dell'incontro e la ripetizione della tradizione, prima di tornare tutti nello scatolone o almeno lasciarci il copione e continuare, attori ad ogni modo, ma senza l'opprimente forzatura di dispensar auguri e quel sospetto da Truman show d'aver una pelle di pecora sulle spalle e dover risalire la collina fino alla grotta illuminata.

Sugli scalini bagnati della metro

Quando i piedi trovano spazio tra la folla che si accalca sulle scale, quelle normali, nonostante una buona parte intasi sempre l'ingresso di quelle mobili, mentre c'è chi nella fretta saltella sugli scalini con fare spesso goffo, ci son voci, nella metro di Bruxelles, che si mescolano nella ricerca d'armonie complicate, ci son accenti francesi che cadono lievi tra la signora che si muove a fatica e il ragazzino che chiama l'amico, ci son suoni italiani e spagnoli che il tuo filtro cerebrale riconosce distinti, inevitabilmente, e c'è sempre chi al telefono diffonde un inglese cordiale mentre intorno altri alfabeti provano maldestri a danzar insieme, c'è qualcosa di fiammingo e di polacco, probabilmente, interrotto da risate arabe e la musica di chi prova a stonare i pensieri con cuffie in esplosione, ci dev'essere anche qualcosa di portoghese, sicuramente, ma si confonde, mimetizza, in mezzo alla babele d'eco intrecciate. Non appena quel coro ininterrotto di voci mal orchestrate giunge alle pareti grigie della metro, negli angoli sporchi però silenziosi, tra gli ultimi scalini che lasciano spazio al crescendo di parole e sequenze innaturali di nuove lingue appena nate, ecco quel gran rumore, baccano di gente senza sosta, ognuno nel suo destino a respirare, se ti fermi ad ascoltarlo, quel rumore incessante d'api laboriose, quei passi pieni di vocali e quelle consonanti che rompono frontiere, è la voce di Bruxelles. E ce ne sono altre, altrove, quando il passaggio del treno verso Gare du Midi incontra sul ponte il clacson del traffico intasato o quando il mormorio di un bar affollato al Parvis de Saint-Gilles apre le porte alla fermata vicina dell'autobus in ritardo, se ti fermi ad ascoltarlo, quel rumore che stona e magari disturba, non appena la calca di turisti si ritrova in un'esclamazione nel mezzo della Grand Place o subito dopo il passaggio di un'auto diplomatica a Schuman e le sirene d'esasperata sicurezza, c'è quel frastuono di vibrazioni di tram e qualche dittongo smarrito, la respiri leggermente poi la ignori disattento perché è solo il chiasso della città mal organizzata, e invece anche quello è la voce di Bruxelles.

Contrari sospetti

Poi al corso serale d'olandese, mentre la prof è intenta a spiegare una di quelle parole che non puoi associare a nessuno dei tuoi riferimenti linguistici, volgende, e il suo contrario, vorige, eppoi un'altra di quelle parole per cui solo la memoria e la pratica, a braccetto, potrebbero conservarne ortografia e significato, ed il suo contrario, c'è chi non sa dire proprio la parola più famosa, fiammingo in quanto popolo, in lingua olandese, che non è olandese, anche se per il 99% le due lingue son uguali, è fiammingo, te lo dicono fin dal primo giorno di scuola, che lì s'impara il fiammingo accademico, che differisce per pronuncia e qualche parola dall'olandese, e che quasi non si parla, perché poi c'è il dialetto d'Anversa, qui in Belgio, e quello di Bruges, c'è quello di Ghent e quello d'Ostenda, e così via, giusto per motivarti, fin dai primi giorni, a te studente un po' perplesso, insieme ad altri 16 con sguardi smarriti, tra cui molti belgi ad imparare una lingua per loro straniera. Poi, dopo appena 3 mesi rimanete in 4, gli studenti immortali, quelli sopravvissuti ad una lingua che miete più della selezione naturale in paesaggi urbani francofoni sotto attacchi d'accenti nordici graffianti, e nessuno ancora sa come dire fiammingo, abitante delle Fiandre, in fiammingo, quella lingua che non è olandese, e allora la prof lo scrive alla lavagna, Vlaamingen, ed il suo contrario - dice - scrive Franstaligen, per lei valloni, come se ci potesse essere il contrario di un popolo, come se davvero, qui, in Belgio, ci fossero due popoli, uno il contrario dell'altro, come prossima e scorsa, c'è fiammingo e vallone. E infatti è vero, son davvero due popoli, quei due lì, che però provano a restar uniti in equilibri quasi mai semplici e spesso poco logici ad occhi stranieri cui piacerebbe banalmente semplificare, perché prossima e scorsa no, non possono riferirsi alla stessa settimana. O forse sì, se si tratta di una settimana belga.

Bruxelles boom boom

Bruxelles boom boom è quella città in continua evoluzione che si contorce nelle difficoltà di un boom demografico difficile da gestire, quando le carceri traboccano di detenuti e si è costretti ad ospitarne tre in celle omologate per uno; o quando bisogna prenotare già dopo il primo mese di gravidanza l'asilo nido e si è già in ritardo, paradossalmente, perché non c'è più spazio, tutto è pieno, e le liste di attesa diventano chilometriche. Bruxelles boom boom è quella Bruxelles che grida alla criminalità quando c'è chi viene ucciso accoltellato a Matonge per un furto di cellulare, a pochi passi da una delle vie commerciali principali del centro, o chi viene sparato, alle 3 del pomeriggio, alla Place Bethléem, a pochi metri da una delle pizzerie migliori della città, quella di Momo, algerino dall'accento napoletano, o ancora quando uno studente viene violentato in Place des Martyrs, praticamente al lato del corso più trafficato della capitale e le dichiarazioni dell'università lasciano tutti un po' perplessi, mentre si riaccendono i soliti dibattiti sulla criminalità brussellese.

Bruxelles boom boom affonda le sue radici nel tempo tra edilizia feroce e protagonismi eccessivi, fin da quando il sindaco Anspach, ossessionato dalla Parigi di Haussman, decise d'interrare la Senne, il fiume che diede vita alla città, tra lavori che sconvolsero il centro cittadino per ritardi, corruzione e morfologia urbana; e non sazio, fu proprio Anspach tra i grandi promotori della costruzione di quello che diviene poi il simbolo dell'esagerazione (più vasto anche della Basilica di San Pietro a Roma) nonché ennesimo problema per gestione e manutenzione: il Palais de Justice, distruggendo gran parte di un quartiere operaio, quello di Marollen, e affidandolo ad un architetto che fin ad allora non aveva praticamente nulla sul proprio curriculum, Joseph Poelaert, e la cui intenzione iniziale era di terminare l'opera con una piramide al posto della cupola. Solo la sua morte ha poi risparmiato a Bruxelles boom boom un altro capriccio edilizio, come quello che portò a dividere la città in due, completamente attraversata da binari ferroviari e stazioni e le cui espropriazioni, gli innumerevoli cantieri abbandonati e poi ripresi, marcarono per decenni il tessuto urbano lasciando una cicatrice che ancora oggi divide in due la capitale.

Bruxelles boom boom è quella città che sventra interi quartieri per far spazio a palazzi di vetri e burocrazia, che cancella con qualche pala meccanica le sue maison caratteristiche e tracce d'art nouveau per creare, per esempio, micromondi d'istituzioni europee (senza sosta) o che lascia interdetta anche la comunità internazionale al Congresso d'Architettura di Venezia quando, incredibilmente, si decide di abbattere la Maison du Peuple di Horta, perché non rappresentava più gli ideali della cooperativa socialista, pur essendo un'opera d'arte unica e a poco servì preservarne alcuni frammenti della facciata, lasciati marcire e poi andati rubati, abbandonati nel mezzo della periferia. Bruxelles boom boom è quella Bruxelles raccontata magistralmente da quel genio di François Schuiten per cui una città perde la propria identità nella ricerca di una modernità esasperata a cui mal si adatta e che finisce per ammalarla, di façadisme, di je-m'en-foutisme, ma che al contempo l'arricchisce, di diversità, di creatività.

C'è a chi fa paura, Bruxelles boom boom, e c'è chi non la conosce, nella propria percezione di quel sottoinsieme urbano che quotidianamente vive, ma Bruxelles boom boom è lì, tra le mille facce della tanto nominata capitale d'Europa che però a stento s'elegge capitale del Belgio, immersa in un multiculturalismo scalpitante da gestire e a cui adeguarsi, non senza traumi, in qualche modo, in quello che spesso sembra un gran bel disordine e che invece poi ti fa innamorare.