Pioggia spazzina

Quando Bruxelles inizia ad accogliere sempre un po' inattesa la prima neve dell'inverno e ci son quelli che si avvicinano alle finestre, quasi con meraviglia, come se fossero per alcuni instanti di nuovo bambini e quella fosse la prima neve in assoluto, mentre altri rimangono alle proprie scrivanie ingrigite o occupate ad occuparli nel lavoro che li assorbe, colpevoli un po' d'aver perso quel poco d'infanzia che li farebbe smuovere anche solo per un po', la neve non lo sa, non lo sa d'essere magia per alcuni e indifferenza per altri, mentre cade prima leggera e poi spinta da vento e quantità, coprendo lentamente ogni cosa con il suo manto di bianco e purezza stereotipata, iniziando a nascondere tracce di civiltà sovrana per imposizione, nascondendo tetti, marciapiedi, quartieri. Dura poco però, quell'accenno di meraviglia per quel colore inusuale, quanto basta a trasformare il bianco in traffico e lo stupore in freddo, non appena si accumula ai bordi delle strade per mescolarsi a ciò che poco prima nascondeva, prenderne il colore, indossarne l'aspetto per sembrare un ammasso di poltiglia grigia e nera, la neve non lo sa, di nuovo, che dalla poesia passa velocemente all'indifferenza, da magia a spazzatura, negli ingranaggi instancabili della città frenetica, che ritorna alla sua identità quotidiana non appena un giorno di pioggia arriva a ripulirne i panorami urbani e da quel sottile splendore dei riflessi sulla neve passa veloce al grigio d'un cielo uggioso, tra ombrelli affollati e schizzi di pantani a seminare sporchi risvegli.
Poi, quando alle 17:30 in ufficio qualcuno si volta alla finestra e s'accorge che c'è ancora luce, che toh, le giornate già si son allungate, come se tornasse per alcuni instanti di nuovo bambino e quella fosse la prima luce delle 17:30 in assoluto o addirittura il suo pensiero fosse già alla primavera, mentre altri rimangono alle proprie scrivanie ingrigite perché l'infanzia non c'è o è talmente occupata da dimenticar il proprio copione, la luce non lo sa, che adesso tocca a lei, cercare di non trasformarsi in poltiglia ai lati dei marciapiedi, ma non è facile ahimè, se i marciapiedi son umori dove passiamo ogni giorno impensieriti, soprattutto quando c'è chi non aspetta altro che una sua distrazione per imprecare lamenti ripetitivi, un po' vittime di testardaggini scoordinate e meteorologie sfasate, un po' perché forse nuvole e piogge sembra allevarle tra i pensieri, magari in attesa di qualcuno che gli presti un ombrello, un balcone sotto cui ripararsi, o un sorriso, anche lì, alla finestra dell'ufficio.

Cervelli in fuga

Sul sito della EPSO (un blog), per la sottomissione di richieste di partecipazione alle selezioni per lavorare per le istituzioni europee, si possono anche aggiungere commenti. La pagina è in inglese, ma c'è chi commenta in italiano, spudoratamente insistendo sul copia e incolla anche per sottomettere lettere di motivazione per posizioni differenti (e quindi anche le motivazioni dovrebbero essere differenti, la disoccupazione, a volte, è giusta), e c'è chi, sempre in italiano, aggiunge in un commento il suo curriculum, pensando forse così d'aver sottomesso la sua richiesta, andando magari al bar, sotto casa, tra qualche mese, e sbuffando in un "niente, nessuna notizia, quelli della Commissione, a Bruxelles, mi avranno scartato, chissà perché...". Già, chissà perché. Sono cattivissimo, lo so.

Intanto, in Belgio

Poi ti ripeti che mai devi vantarti del paese degli altri perché in fondo tu, a quel paese, a quei supposti pregi o vantaggi, non hai contribuito in nessun modo, anzi, ci vai per usufruirne, da immigrato, e magari poi te ne dimentichi alla prima pioggia, normalissima per dove sei, ma non per chi succede che abbia il corpo all'estero e la testa ancora in patria, metafisicamente contraddetto e ubiquamente in conflitto, o per chi continua a ripetersi d'esser solo di passaggio e invece succede che ci rimane anni e anni e inizia a metter radici, che se poi crescono troppo, quelle radici, entrano non in competizione ma alla ricerca di difficili armonie con quelle radici che già c'erano e che rimangono sempre un po' sotto esame, come un cordone ombelicale che non lascia un ombelico ma un punto indefinito, da stabilire se d'interrogazione o d'esclamazione e per quale pensiero o domanda poi, domande che ti trascinerai probabilmente per anni, pensando di trovarne la risposta accumulando esperienza o cambiandola, quella risposta, perché più saggio ti fa il tempo, pensi, o soltanto più radicato. Ci sono tante modernità, in Belgio, così come tante altre ne mancano e spesso te le ritrovi elencate, in lamenti camuffati da considerazioni o in conclusioni mascherate da partenze, però questa è bello sottolinearla, perché c'è Elio Di Rupo, il primo ministro belga, non uno qualunque, che dichiara, attraverso il suo account Twitter, d'essere fiero della modernità del Belgio, dove tutte le coppie hanno il diritto di sposarsi. E non è poco. Bravi.

Roma caput mundi, forse

- Non è possibile, non è possibile! - ripeteva il signor Beppino al telefono, cercando di contenere un certo nervosismo crescente, volendo quasi afferrare la cornetta tra i denti, staccarne un pezzo con forza, masticarne la plastica a morsi decisi come a voler cercare d'attenuare quel suo umore intollerante tra denti e bocconi. Contegno, ci voleva contegno e autocontrollo. - Non è possibile - ripeteva il signor Beppino al telefono, contenendosi ed autocontrollandosi - che un appartamento a Roma possa essere più caro di un appartamento a Bruxelles - mentre dall'altra parte della cornetta l'impiegato dell'agenzia immobiliare romana riuniva tutte le sue rughe tra smorfie di stupore e incomprensione. - Le ripeto, non è possibile perché i dati parlano chiaro, ed in più è così logico! Un appartamento al centro di Roma non può costare 5 volte di più di un appartamento al centro di Bruxelles - ripeteva per l'ennesima volta il signor Beppino, quasi lasciando trafilare una certa rinuncia.
- Ma guardi, forse non si rende conto, stiamo parlando di Roma! Del centro di Roma! - esclamava con convinzione l'impiegato, come a ricordare la cosa più ovvia del mondo.
- Non è possibile, non è possibile! - per l'ultima volta, il signor Beppino al telefono - lo so che ci son le rovine dell'antica Roma, che si vede quasi il Colosseo, ma guardi, i dati parlano chiaro, perché un appartamento lì deve costare così tanto se l'indice di corruzione del paese è così alto? Guardi che comprare significa investire, guardi che comprare significa pensare al futuro, va bene che ci son rovine di più di duemila anni fa, ma io compro per il futuro, non per il passato, io compro per viverci, i dati parlano chiaro, se lì si taglia alla ricerca, si taglia all'educazione, si taglia alla sanità, mi dica lei, perché dovrei pagare così tanto per quell'appartamento? Qui si parla di presente e futuro, non me lo può giustificare con il passato, con le rovine, con le tracce di epoche lontanissime! Il mercato, allora, non è meritocratico, non usa criteri validi, quell'appartamento non può costare 5 volte il prezzo del nostro appartamento al centro di Bruxelles, capisce? - Se il signor Beppino avesse potuto vedere, in quel momento, mentre e appena aveva terminato quelle parole, se il signor Beppino avesse potuto vedere l'espressione dell'impiegato, lì a Roma, dall'altra parte della cornetta, forse avrebbe smesso, forse si sarebbe fermato, ma il silenzio, quel silenzio che riceveva dall'altra parte, lo interpretava come un'attesa, come una voglia d'ascoltare, e allora continuava. - Mi sembra chiaro che il prezzo debba essere in proporzione al benessere offerto da quel posto, alle possibilità di lavoro, alla qualità del futuro o almeno dalle opportunità che i miei figli possano avere lì, lo so, ci sono le rovine romane, ma guardi che quelle rovine romane alla finestra non daranno da mangiare ai miei figli, lo capisce? E in più i trasporti pubblici sono un problema, il parcheggio è un altro problema, insomma, come me lo giustifica lei, quel prezzo, quella differenza?
- Senta - Con una mano sulla fronte e la voce un po' rassegnata - stiamo parlando del centro di Roma, stiamo parlando dell'Italia, pensi al sole che avrà qui, pensi al cibo, pensi alla storia, alla cultura - ad ogni parola, ad ognuno di quei punti, già ascoltati mille volte, il signor Beppino faceva il verso, muoveva il capo come a contarli, come a ripeterseli danzando, ridendo, istericamente - Non dovrei neanche dirlo, stiamo parlando di Roma, del centro di Roma, i prezzi sono questi, se vuole spendere di meno possiamo vedere in altri quartieri, in periferia..
- Ma lei lo sa che il prezzo di un appartamento in periferia, lì a Roma, insomma per lo stesso prezzo posso ancora comprare qualcosa nel centro di Bruxelles? Guardi che c'è qualcosa che non va, con quei prezzi, con il mercato lì, lo capisce? - Oramai rinunciatario, già pronto al saluto.

- Ancora con quell'appartamento? Lasciamo stare, Beppino... - Disse la moglie, qualche minuto più tardi, guardandolo con occhi un po' preoccupati un po' dolci.
- Niente, non ci riesco, - rispose Beppino, ancora con una mano sulla cornetta - devo cambiare strategia, questo tipo di negoziazione non funziona...

Eppoi tutti ad ubriacarsi a Place du Luxembourg


In effetti hanno ragione, quella non è Bruxelles, o almeno non quella belga.
(Poi però ci lamentiamo della cattiva integrazione degli altri).
Una vita da turisti, spesso. Cento Bruxelles, a ciascuno la sua.

Pensieri d'emigranti introspettivi

Ti ho salvato, cervello, dalla sterilità di luoghi comuni perpetuati, da frasi ed abitudini sopravvissute a invasioni e carestie e necessarie più della mobilia in bar e piazze dove si continua ad incontrarsi per commentare il passare delle ore, da riti e ripetizioni maldestre per conservare mentalità e quindi legislazioni, da un invecchiamento precoce fatto di carestie di stimoli e adattamenti popolari; ti ho risparmiato, cervello, la digestione tortuosa di stupidaggini mascherate da verità, lo stordimento nel navigare tra dibattiti e programmi televisivi imbarazzanti d'animali urlanti in giacca e cravatta e acclamati talenti a riempire palinsesti e sogni adolescenziali; Ti ho voluto nutrire, cervello, di altre culture, d'altri alfabeti, di altre sfide e sacrifici, affinché tu possa confrontare pregi e carenze, affinché tu possa distinguere aggettivi e stereotipi, affinché tu possa cibarti d'avventure e mondi altrui, affinché tu possa avere anche la possibilità d'un ritorno, semmai tu lo decida, ma solo dopo averci provato.

Ti ho riempito, cuore, della nostalgia del distacco, della sofferenza del non esserci e della mancanza della famiglia che t'ha riempito d'amore, degli amici che t'hanno abbracciato e rinforzato, dei panorami che t'hanno visto crescere e che ancora oggi fanno risuonare il tuo battito e calore, alla vista, al respiro, al ricordo. T'ho fatto male, cuore, quando son fuggito con la rabbia del rigetto, quando son partito con la paura dell'ignoto, quando ho chiuso gli occhi ubriaco di speranze; ma t'ho fatto bene, cuore, quando ti sei innamorato d'altri paesaggi altrove, d'altri modi di fare, pensare, essere, quando hai stimato chi sapeva aspettare, quando hai apprezzato chi sapeva ringraziare, quando hai rispettato chi rappresentava una serietà dimenticata. E t'avrò pure illuso, cuore, cantandoti d'Eldorado inesistenti, di paradisi dove tutto era oro e civiltà, e invece no, son compromessi, guarda un po', ma son compromessi, cuore, che t'hanno ridato il sorriso.

Ti ho portato altrove, corpo, perché tu possa calpestare altre strade, inciampare per un passo maldestro, cadere, salire e correre, ma soprattutto sudare e avere la consapevolezza che per quel sudore siano maggiori le probabilità d'asciugarlo e sentirsi soddisfatti; t'ho trascinato via, corpo, quando le estensioni dei tuoi piedi non erano ancora radici lunghe e ben salde, ma t'ho fatto un torto, corpo, perché adesso pendono, quelle radici, in un limbo dalle dubbie identità, non appena ti sei spogliato di nazionalismi e filtri popolari e la patria che indossavi s'è dimostrata fragile e incompleta; t'ho fatto respirare fuori, corpo, perché tu possa riempirti i polmoni di un'aria diversa, perché tu possa provare pietanze dagli aromi sconosciuti, baciare labbra straniere, ascoltare accenti inattesi, e perderti, tra scoperte silenziose e immancabili sconfitte, per poi ritrovarti, più forte e deciso.

Del morire in aereo

Ogni volta che il signor Mario prendeva un aereo c'era un pensiero ricorrente, una sorta di ragionamento inconcluso che si ripeteva non appena annunciavano l'imminente decollo e lì fuori dal finestrino il mondo attendeva il distacco forzato di quell'ammasso di metallo e pensieri, pensieri che contenevano sempre, o almeno ogni volta che il signor Mario era lì seduto, congetture e fantasie sulla morte ed il destino. Se ognuno muore - pensava il signor Mario - quando arriva la sua ora, perché così si diceva e quindi era, allora si potrebbe morir in volo, per un guasto al motore, per un'intemperia imprevista, per un volatile insensibile agli ultrasuoni diffusi dall'aeroporto che finisca a danneggiar un motore, solo se fosse giunta l'ora di qualcuno dei passeggeri, che pur son tanti e quindi alta la probabilità dell'ora fatale. Ma poi - pensava il signor Mario - non sarebbe giusto morire per l'ora di qualcun altro se non fosse giunta ancora la propria ora, sarebbe una contraddizione dell'ipotesi di partenza. Allora - arrivava a dedurre il signor Mario - ecco spiegato perché gli incidenti aerei, le tragedie in volo, son così rare: accadono soltanto quando sia giunta l'ora di tutti i passeggeri, unitamente, che debbano quindi morire insieme, tutti. A questo punto - si meravigliava il signor Mario - la probabilità di incidenti di quelle dimensioni per voli non nazionali doveva essere ancor più bassa, perché il giungere in maniera congiunta della propria ora per ogni passeggero dell'aereo doveva tener conto anche delle coincidenze dei fusi orari, dovevano insomma coincidere non solo le ore della propria morte ma anche i ritardi e le ore legali vigenti nei paesi di residenza. Annuiva e si guardava intorno, il signor Mario, per capire se ci fossero tanti stranieri, al suo fianco o nelle file ancora visibili dall'altezza del suo sedile, per cercare di dedurre dai lineamenti il fuso orario d'origine, le differenze possibili, i più e i meno, perdendosi spesso in calcoli che richiedevano diverse ripetizioni e che lo tenevano occupato per buona parte del volo.

Però - aggiungeva il signor Mario - in aereo si può morire anche per un infarto, per un boccone di traverso di quei panini secchi e dal sapor talvolta artificiale, non necessariamente per una tragedia di massa, insomma se giungesse l'ora di uno dei passeggeri, non significherebbe che di conseguenza giungesse anche quella di tutti gli altri, non si doveva aspettare una coincidenza astrale per morire in aereo, la propria ora poteva arrivare anche nella solitudine di una singola morte. In realtà però - si torceva il signor Mario - basterebbe che giungesse l'ora del pilota, sebbene oggigiorno il pilotaggio di quest'uccelli di ferro e quadranti sia quasi automatico, per decretare l'ora di tutti i passeggeri e dell'equipaggio, perché l'ora del pilota, in quel contesto, con quelle probabilità, assumerebbe un'importanza maggiore e quindi un'eccezione. A questo punto il signor Mario tornava a guardarsi intorno perché - pensava - probabilmente il pilota non era l'unico ad avere una tale importanza, probabilmente c'erano a bordo altri individui la cui morte richiedeva un sacrificio di massa, la cui ora fosse talmente significativa da divorare le ore della morte degli altri e trascinarla in un'eco di titoli e notizie in giro per il mondo dell'aereo che con lui e a causa sua avrà terminato il viaggio in modo anormale. Solo, non son facil da trovare, certe personalità, nelle incomprensibili trame del destino, e il signor Mario finiva con accusar dolori al collo, per l'inquieto desiderio di scoperta, per scovare quell'ora, quella morte, prima che arrivi e lo colga di sorpresa. A volte, pensando d'averne trovato uno, doveva sforzarsi nel resistere e domare i suoi pensieri, quella voglia fortissima d'alzarsi e andar a chiedere: scusi, sa mica se per caso è giunta la sua ora?

Quando l'aereo atterrò, quel freddo pomeriggio di gennaio, il signor Mario vide le sue teorie scomparire man mano che il paesaggio dal finestrino assumeva dimensioni e distanze abituali, come sempre quei pensieri sarebbero tornati a nascondersi in nicchie celebrali per tornar poi a riempirgli le smorfie nel prossimo volo, lasciandogli per l'ennesima volta la sottile soddisfazione tra gli occhi di aver sopravvissuto anche a quel volo, di non esser morto per il giungere della propria ora né di quelle altrui. All'uscita dell'aeroporto però, quel freddo pomeriggio di gennaio, un autista maldestro lo investì, fatalmente. La sua ora era giunta, senza il bisogno d'altitudini innaturali né d'uccelli affollati.