La sorpresa

Idea originale e carina, bella la prima parte, la seconda un po' meno con le solite accuse agli altri, stancanti e opinabili, non ci fosse stata molto meglio.

6 commenti:

tt ha detto...

si, le accuse sono un po' generiche e qualunquiste pero' un fondo di verita' c'e'. e' difficile a volte tracciare il confine fra quanto sia desiderata questa gioiosa emigrazione, e quanto sia invece subita. a volte non lo sappiamo neanche noi. soprattutto, credo che quello che fa soffrire non e' tanto allontanarsi per un'esperienza sacrosanta e che arricchisce, quanto la sensazione di non poter tornare quando si vuole. (lo so, sto un po' rimettendo in discussione la mia posizione a riguardo!)

andima ha detto...

@Fra
sono d'accordo, molti partono più perché forzati che per una sana volontà di arricchirsi culturalmente, ma a chi dare la colpa? Alla politica nazionale? A quella comunitaria? A quella globale? Alla mentalità comune che prima o poi fa collassare sogni generazionali? Al mondo del lavoro che cambia e impone altri ritmi? Alla società che corre verso competitività insostenibili?
Lo so, ce ne son tanti che stan fuori ma che pagherebbero per tornare o almeno lo mettono nei loro top10 sogni e se la prendono con x e y e ti posso dire, dal flusso di email private che mi arriva settimanalmente e dai feedback che poi ne conseguono, che mi sembra anche abbastanza saturo il mercato, pure qui, o più che saturo sempre più competitivo e quindi difficile, selettivo, era facile predirlo, giustamente, ma il modello è quello: si va dove c'è il lavoro. C'è chi sopravvive, sogna il ritorno, stenta, in questo modello, e chi gongola, s'arricchisce (non solo economicamente), s'emoziona. Puntare il dito contro la casta e dire è tutto colpa vostra, però, non rassicura né aiuta.

Anonimo ha detto...

sbagliato generalizzare però difficile non farlo se si vuole descrivere il fenomeno sotto l'aspetto emotivo.
Mi spiego, bisogna differenziare l'emigrazione basata sull'impossibilità di trovare un qualsiasi lavoro nel luogo natio, ed emigrazione per trovare il lavoro per il quale si è studiato per anni e che in passato si trovava sotto casa.
In questo secondo caso trovo più difficile scorgere la pistola puntata alla tempia dell'emigrante.
Capisco i sacrifici affrontati per arrivare alla laurea, però riconsiderare altre strade, questo è un aspetto che non tutti vogliono affrontare, preferendo emigrare, per poi lamentarsi di non riuscire a tornare.
Tenere a mente che la vita scorre per tutti ed ha le sue fasi, un battito di palpebre ed è troppo tardi per tornare ed allo stesso tempo non più giovani per digerire la vita da expat.
Vi lascio con questo pensiero, che secondo me coglie nel segno i rischi in cui si incorre:

"Gli anni, in fin dei conti, hanno una sorta di vuoto quando ne trascorriamo troppi in una terra straniera. Rimandiamo la realtà della vita, in questi casi, fino al momento futuro quando respireremo di nuovo l’aria natia; ma il tempo passa e non vi sono momenti futuri; oppure, se facciamo ritorno, constatiamo che l’aria natia ha perduto le sue qualità corroboranti, e che la vita ha sposato la propria realtà nel luogo in cui ritenevamo di risiedere solo temporaneamente. Così trovandoci tra due paesi, non ne abbiamo alcuno, o solo quel minuscolo lembo dell’uno o dell’altro nel quale riposeranno infine le nostre ossa scontente" - Nathaniel Hawthorne

andima ha detto...

@Anonimo
Grazie per il contributo e per aver sottolineato una delle tante differenze per cui si parte. Non si possono categorizzare in solo due scatole però, sarebbe troppo semplicistico. E sarei anche d'accordo su discorsi di flessibilità, ma valgono fino ad un certo punto e con certe condizioni. A quel punto la flessibilità sta proprio nel cercare qualcosa altrove. Non c'è vita soltanto nel proprio paese natio, ce n'è anche altrove. E tanta, per fortuna.

Non sono d'accordo nemmeno con il brano citato, con quel "gli anni hanno una sorta di vuoto quando ne trascorriamo troppi in una terra straniera". Esagerato, secondo me. Gli anni all'estero son così pieni d'esperienze, di lavoro, sociali, personali, (di vita, appunto) che è difficile ridurle ad incomplete, come se avessero una sorta di vuoto, si rischia di cadere nell'esagerazione per cui solo in patria gli anni hanno senso, solo la vita passata in patria ha un certo valore.
E va bene parlare di quel limbo tra due paesi, di quella sensazione di essere straniero ovunque, è uno dei tanti compromessi, che se assorbito e digerito bene poi scompare, diventa un vantaggio, si apprezza. E sono d'accordo che può essere un rischio in cui si incorre, spesso inconsapevolmente, ma è appunto una conseguenza di una scelta, da accettare o cambiare, con un'altra scelta. C'è chi recrimina però che certe scelte non sono in piena libertà, perché poi c'è un lavoro, dei compromessi, ecco meno flessibilità. C'è chi si sente imprigionato all'estero, quindi? (Esagerati). Beh, basta dare un peso ai propri compromessi e darsi una risposta, definire bene cosa sia "prigione" e "libertà". E anche "felicità", quando si ha tempo.

Anonimo ha detto...

Ciao, sono l'autore dell'ultimo intervento.
E' ovvio, per chi ti legge da diverso tempo, come il sottoscritto, che il mio pensiero non si rivolgesse personalmente a te.
Proprio gli articoli che scrivi, le riflessioni e gli interrogativi che a volte poni, sei anzi di aiuto a chi magari vive "sospeso" e rischia di finire nella spirale del testo che ho citato.
Non è semplice descrivere la miriade di condizioni che hanno imposto la partenza, come non è ipotizzabile vedere le singole esperienze all'estero di ognuno, la capacità o voglia di integrazione che cambia da paese a paese con le diverse culture.
Proprio per la difficoltà di questi aspetti, credo che l'importante sia proprio di dover porre a se stessi un interrogativo, che spesso riesce difficile, perché troppe volte ci piace mentire a noi stessi, preferendo restare prigionieri della nostra identità.
Questo interrogativo deve poter farci dire di stare bene dove stiamo, anche qui chiudo e saluto citando Cicerone, frase così semplice ma che, a mio avviso, racchiude l'essenza anche dell' aspetto dell'emigrante.
"Patria est ubicumque est bene"

andima ha detto...

Non avevo pensavo assolutamente si rivolgesse a me, tranquillo;)
Sono d'accordissimo sul porsi l'interrogativo, non quotidianamente, sarebbe esagerato, ma periodicamente, fare dei bilanci, rivedere i propri compromessi, ripesarli e controllare il proprio equilibrio. Certo, come hai detto, non è facile fare autocritica ne' paragoni, soprattutto quando c'è di mezzo la patria, l'estero, la propria definizione di felicità. Pero', se ci mentissimo e il risultato fosse "sono felice", non sarebbe una bella bugia? Aiuterebbe sicuramente motivazione e stato d'animo, aiuterebbe a star meglio con se stessi e gli altri ed avrebbe un fondo di verità. Certo, se dura poco allora era una bugia, si smaschera facilmente, il lamento è sempre dietro l'angolo. Bisogna imparare a capirsi, e l'esperienza all'estero è sicuramente un'opportunità per farlo. In fondo è quello che faccio anche in questo blog, per me, è anche un modo di capirmi, di tracciare le mie evoluzioni, di confrontarmi con gli altri, di capirmi.
Ottima la frase di chiusura. Ne riporto anche altre altrettanto famose (che colleziono con il tempo e che non sono necessariamente in tema con questi commenti, ma con quello del vivere altrove):
"A me sembra che starei sempre bene là dove non sono." Baudelaire, Le Spleen de Paris
"La vera patria è quella in cui incontriamo più persone che ci somigliano" Stendhal
"Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco.” Josef Koudelka