Sul treno verso Roma

E tu, bambino di appena 2 anni seduto tra le braccia della mamma, in questo treno affollato che ci porta a Roma Termini, tra gli sguardi curiosi che lanci intorno e le esclamazioni nascoste in ogni smorfia che regali al mondo, non ricorderai nulla di questi momenti, dell'adesso già passato, del signore qui a fianco che per mezzora ha cercato di attirare la tua attenzione rubando anche qualche sorriso non porterai memoria con te né di questo viaggio natalizio tra valigie ingrassate e panorami inaspettatamente soleggiati, non ci sarà posto tra le tue registrazioni celebrali di questo sconosciuto che t'osserva con fare sospetto interrompendo una lettura di Calvino e cercando tra la tua pelle arrossata riflessioni che non t'appartengono ma di cui forse sarai l'ispirazione; saranno altre le cose che ricorderai nella giustizia d'equilibri d'emozioni, saranno altre le cose che non vorrai dimenticare, che il tuo istinto di sopravvivenza conserverà con prudenza, che il tuo cuore ancora intatto porterà come cicatrice, perché adesso è il tempo dell'attesa, della crescita necessaria, del riempire i giorni di sapori, di tatto e carezze e puntare già al prossimo richiamo, che sia un suono, un colore o la novità d'un oggetto inerte agli occhi altrui. No, non ricorderai nulla di quest'adesso, perché ci saranno cose più importanti da accumulare tra memorie e connessioni neurali, né potrei mai fartene una colpa - non avrebbe senso -, ma sarai colpevole semmai un giorno, se tra qualche decennio continuerai a non accumularne, se le tue ore passeranno di continuo senza un'identità da raccontare, lasciando a digiuno raccoglitori d'emozioni lì programmati a registrare e ricordare, sarebbe semmai una colpa non approfittare degli adesso futuri e lasciarli passare in quel modo, a meno che tu non voglia, un giorno, tornare bambino.

Matriosca natalizia

Tra il riflesso ovale del tuo sguardo distorto nella sfera di una decorazione natalizia un po' invecchiata e l'ennesima frase che risuona più dell'immancabile augurio già svuotato però del suo significato originale, eh già, appena dopo aver liquidato la ripetizione dello stesso film natalizio, ancora, in onda da almeno un ventennio, una volta l'anno, di quelli dove l'acconciatura più che l'abbigliamento marca l'epoca remota e scene oramai memorizzate, t'accorgi che quella tipica sensazione di ritorno al passato in un mondo dove poco sembra essere cambiato, quel ritrovare persone e cose dopo anni sempre negli stessi luoghi, quasi facessero parte del paesaggio urbano e dovessero, inevitabilmente, farne parte, per non segnarne una mancanza, per non dar risalto ad una forzatura di cambiamento, proprio quella percezione d'immutabilità delle cose che risalta ad ogni rientro, sembra accentuarsi col natale, perché il natale ha in sé la metafora di se stesso. Ci dev'essere come un'entità superiore, lì, nel cielo freddo di dicembre, in attesa paziente d'ogni nuovo natale, pronto a prendere dallo scatolone impolverato personaggi e strutture, aggiungere magari qualche pennellata di rughe su qualcuno, un po' di polvere bianca tra i capelli ad altri, per posizionarli poi nella stessa posizione da anni, aggiungere i dialoghi, le esclamazioni, e ripetere il rito della preparazione e della ripetizione del natale, ancora una volta, instancabilmente, per farti ritrovare a tavola circondato dalle stesse frasi a commentare le stesse pietanze mentre in tv trasmettono lo stesso film e lì, in un angolo, c'è lo stesso presepio che ripetiamo anche noi, in scala maggiore, come un'inconsapevole matriosca natalizia, senza muschio ma con un po' di luoghi comuni sparsi qua e là, senza un motore che simula una fonte, un ruscello, ma con l'energia di un'euforia festiva alimentata dal raduno temporaneo; solo il tempo saprà se nascerà davvero qualcosa di nuovo, in questo natale, o se si starà semplicemente celebrando il rito dell'incontro e la ripetizione della tradizione, prima di tornare tutti nello scatolone o almeno lasciarci il copione e continuare, attori ad ogni modo, ma senza l'opprimente forzatura di dispensar auguri e quel sospetto da Truman show d'aver una pelle di pecora sulle spalle e dover risalire la collina fino alla grotta illuminata.

Sugli scalini bagnati della metro

Quando i piedi trovano spazio tra la folla che si accalca sulle scale, quelle normali, nonostante una buona parte intasi sempre l'ingresso di quelle mobili, mentre c'è chi nella fretta saltella sugli scalini con fare spesso goffo, ci son voci, nella metro di Bruxelles, che si mescolano nella ricerca d'armonie complicate, ci son accenti francesi che cadono lievi tra la signora che si muove a fatica e il ragazzino che chiama l'amico, ci son suoni italiani e spagnoli che il tuo filtro cerebrale riconosce distinti, inevitabilmente, e c'è sempre chi al telefono diffonde un inglese cordiale mentre intorno altri alfabeti provano maldestri a danzar insieme, c'è qualcosa di fiammingo e di polacco, probabilmente, interrotto da risate arabe e la musica di chi prova a stonare i pensieri con cuffie in esplosione, ci dev'essere anche qualcosa di portoghese, sicuramente, ma si confonde, mimetizza, in mezzo alla babele d'eco intrecciate. Non appena quel coro ininterrotto di voci mal orchestrate giunge alle pareti grigie della metro, negli angoli sporchi però silenziosi, tra gli ultimi scalini che lasciano spazio al crescendo di parole e sequenze innaturali di nuove lingue appena nate, ecco quel gran rumore, baccano di gente senza sosta, ognuno nel suo destino a respirare, se ti fermi ad ascoltarlo, quel rumore incessante d'api laboriose, quei passi pieni di vocali e quelle consonanti che rompono frontiere, è la voce di Bruxelles. E ce ne sono altre, altrove, quando il passaggio del treno verso Gare du Midi incontra sul ponte il clacson del traffico intasato o quando il mormorio di un bar affollato al Parvis de Saint-Gilles apre le porte alla fermata vicina dell'autobus in ritardo, se ti fermi ad ascoltarlo, quel rumore che stona e magari disturba, non appena la calca di turisti si ritrova in un'esclamazione nel mezzo della Grand Place o subito dopo il passaggio di un'auto diplomatica a Schuman e le sirene d'esasperata sicurezza, c'è quel frastuono di vibrazioni di tram e qualche dittongo smarrito, la respiri leggermente poi la ignori disattento perché è solo il chiasso della città mal organizzata, e invece anche quello è la voce di Bruxelles.

Contrari sospetti

Poi al corso serale d'olandese, mentre la prof è intenta a spiegare una di quelle parole che non puoi associare a nessuno dei tuoi riferimenti linguistici, volgende, e il suo contrario, vorige, eppoi un'altra di quelle parole per cui solo la memoria e la pratica, a braccetto, potrebbero conservarne ortografia e significato, ed il suo contrario, c'è chi non sa dire proprio la parola più famosa, fiammingo in quanto popolo, in lingua olandese, che non è olandese, anche se per il 99% le due lingue son uguali, è fiammingo, te lo dicono fin dal primo giorno di scuola, che lì s'impara il fiammingo accademico, che differisce per pronuncia e qualche parola dall'olandese, e che quasi non si parla, perché poi c'è il dialetto d'Anversa, qui in Belgio, e quello di Bruges, c'è quello di Ghent e quello d'Ostenda, e così via, giusto per motivarti, fin dai primi giorni, a te studente un po' perplesso, insieme ad altri 16 con sguardi smarriti, tra cui molti belgi ad imparare una lingua per loro straniera. Poi, dopo appena 3 mesi rimanete in 4, gli studenti immortali, quelli sopravvissuti ad una lingua che miete più della selezione naturale in paesaggi urbani francofoni sotto attacchi d'accenti nordici graffianti, e nessuno ancora sa come dire fiammingo, abitante delle Fiandre, in fiammingo, quella lingua che non è olandese, e allora la prof lo scrive alla lavagna, Vlaamingen, ed il suo contrario - dice - scrive Franstaligen, per lei valloni, come se ci potesse essere il contrario di un popolo, come se davvero, qui, in Belgio, ci fossero due popoli, uno il contrario dell'altro, come prossima e scorsa, c'è fiammingo e vallone. E infatti è vero, son davvero due popoli, quei due lì, che però provano a restar uniti in equilibri quasi mai semplici e spesso poco logici ad occhi stranieri cui piacerebbe banalmente semplificare, perché prossima e scorsa no, non possono riferirsi alla stessa settimana. O forse sì, se si tratta di una settimana belga.

Bruxelles boom boom

Bruxelles boom boom è quella città in continua evoluzione che si contorce nelle difficoltà di un boom demografico difficile da gestire, quando le carceri traboccano di detenuti e si è costretti ad ospitarne tre in celle omologate per uno; o quando bisogna prenotare già dopo il primo mese di gravidanza l'asilo nido e si è già in ritardo, paradossalmente, perché non c'è più spazio, tutto è pieno, e le liste di attesa diventano chilometriche. Bruxelles boom boom è quella Bruxelles che grida alla criminalità quando c'è chi viene ucciso accoltellato a Matonge per un furto di cellulare, a pochi passi da una delle vie commerciali principali del centro, o chi viene sparato, alle 3 del pomeriggio, alla Place Bethléem, a pochi metri da una delle pizzerie migliori della città, quella di Momo, algerino dall'accento napoletano, o ancora quando uno studente viene violentato in Place des Martyrs, praticamente al lato del corso più trafficato della capitale e le dichiarazioni dell'università lasciano tutti un po' perplessi, mentre si riaccendono i soliti dibattiti sulla criminalità brussellese.

Bruxelles boom boom affonda le sue radici nel tempo tra edilizia feroce e protagonismi eccessivi, fin da quando il sindaco Anspach, ossessionato dalla Parigi di Haussman, decise d'interrare la Senne, il fiume che diede vita alla città, tra lavori che sconvolsero il centro cittadino per ritardi, corruzione e morfologia urbana; e non sazio, fu proprio Anspach tra i grandi promotori della costruzione di quello che diviene poi il simbolo dell'esagerazione (più vasto anche della Basilica di San Pietro a Roma) nonché ennesimo problema per gestione e manutenzione: il Palais de Justice, distruggendo gran parte di un quartiere operaio, quello di Marollen, e affidandolo ad un architetto che fin ad allora non aveva praticamente nulla sul proprio curriculum, Joseph Poelaert, e la cui intenzione iniziale era di terminare l'opera con una piramide al posto della cupola. Solo la sua morte ha poi risparmiato a Bruxelles boom boom un altro capriccio edilizio, come quello che portò a dividere la città in due, completamente attraversata da binari ferroviari e stazioni e le cui espropriazioni, gli innumerevoli cantieri abbandonati e poi ripresi, marcarono per decenni il tessuto urbano lasciando una cicatrice che ancora oggi divide in due la capitale.

Bruxelles boom boom è quella città che sventra interi quartieri per far spazio a palazzi di vetri e burocrazia, che cancella con qualche pala meccanica le sue maison caratteristiche e tracce d'art nouveau per creare, per esempio, micromondi d'istituzioni europee (senza sosta) o che lascia interdetta anche la comunità internazionale al Congresso d'Architettura di Venezia quando, incredibilmente, si decide di abbattere la Maison du Peuple di Horta, perché non rappresentava più gli ideali della cooperativa socialista, pur essendo un'opera d'arte unica e a poco servì preservarne alcuni frammenti della facciata, lasciati marcire e poi andati rubati, abbandonati nel mezzo della periferia. Bruxelles boom boom è quella Bruxelles raccontata magistralmente da quel genio di François Schuiten per cui una città perde la propria identità nella ricerca di una modernità esasperata a cui mal si adatta e che finisce per ammalarla, di façadisme, di je-m'en-foutisme, ma che al contempo l'arricchisce, di diversità, di creatività.

C'è a chi fa paura, Bruxelles boom boom, e c'è chi non la conosce, nella propria percezione di quel sottoinsieme urbano che quotidianamente vive, ma Bruxelles boom boom è lì, tra le mille facce della tanto nominata capitale d'Europa che però a stento s'elegge capitale del Belgio, immersa in un multiculturalismo scalpitante da gestire e a cui adeguarsi, non senza traumi, in qualche modo, in quello che spesso sembra un gran bel disordine e che invece poi ti fa innamorare.

Adesso, forse

Quando poi leggi l'ennesimo endorsement a Renzi ci son tre aggettivi che ti fanno prudere le mani, perché si ripetono quasi a stancare e potrebbero facilmente sfociare in un mare di fuffa, è giovane, ti dicono, è moderno, leggi, è rottamotore, ripetono, come se bastassero questi tre aggettivi a giustificare inequivocabilmente una scelta, cieca, il più delle volte, perché quasi nessuno elenca uno, oh, almeno uno, mi dico, un punto del programma di Renzi, nessuno ne ricorda qualcuno e lo menziona, lo difende, lo fa suo, sarà che a riempirsi la bocca di giovane, moderno e rottamatore, si finisce poi col non aver fiato per altro, ma se poi ci riempiono le orecchie di giovane, moderno e rottamatore, si finisce col creare solo rumore e non si ascoltano bene altre voci, se solo ci fossero. Sarà anche quello il problema, sicuramente, che le altre voci non attirano la stessa attenzione, perché sono meno giovani, meno moderne, meno rottamatrici e non si sanno vendere allo stesso modo, ma non è in base al confronto con il passato, con il ventennio di barzelletta politica voluta, che si può motivare una scelta, perché altrimenti possiamo tranquillamente sintetizzare col solito rito, il voto di pancia, che di solito lascia l'amaro in bocca, con il tempo.

Eppure me ne basterebbe uno, oh, uno dico, almeno un punto, di Renzi, da chi lo appoggia e vuole il cambiamento, adesso, spiegato e difeso, per cambiare già opinione sulla mediocrità di una gran fetta di elettori e sulla precarietà del sistema democratico tanto difeso ed esportato; me ne basterebbe uno da chi invece continua a navigare nel suo mare di fuffa, muovendosi a ritmo di giovane, moderno, rottamatore. Non è difficile. Basta una query su Google. Il programma di Renzi è qui, son 36 pagine, troppe per molti, lo so: il valore civico della scelta politica di un elettore in un sistema democratico è inversamente proporzionato alla pigrizia con cui si raccolgono informazioni su quella scelta. E non sarebbe gravissimo, se non che quella scelta vale 1 come quella di chi le 36 pagine le legge e poi le digerisce, magari anche condendole di giovane, moderno, rottamatore, ma come condimento, non piatto principale. E che si legge in questo programma? Beh, si leggono cose carine (cambiare la legge elettorale, abolire le province, diminuire la pressione fiscale, investire sulla scuola, sulla ricerca, semplificare la burocrazia per vie telematiche), si leggono cose che molti non hanno il coraggio di dire o almeno su cui preferiscono sorvolare (registrazione delle coppie di fatto, testamento biologico), cose molto meno carine (svendere beni pubblici per ridurre il debito, seguire l'agenda Monti) e altre tra utopia e propaganda (ridurre i privilegi ai politici, togliere i finanziamenti ai partiti, combattere le mafie, la corruzione, ridurre il numero di forze dell'ordine); poi, sulla coerenza e la compatibilità di questi punti nello stesso programma potrebbero nascere fiumi di chiacchiere da bar, ma sarebbe già un passo avanti, forse.
Eccoli allora, alcuni punti. Adesso, però, adesso dimenticateli in fretta, sono noiosi, questi punti, bisogna pensare, è più facile ripetere giovane, moderno e rottamatore e affidare le proprie speranze, di pancia, a tre aggettivi. Poi però mi chiedo, amaramente, una speranza che vale meno del tempo necessario a leggere 36 pagine, che importanza ha?

Che quasi dimenticavo

Poi tra un corso di lingue, una riunione di lavoro, un treno in ritardo, un incontro necessario, ti accorgi che son cinque gli anni in cui vivi altrove, te lo fanno ricorcare indirettamente gli altri, e non c'è più quell'ebrezza di raggiungere un traguardo come dopo il primo o il secondo anno all'estero né la voglia di ricapitolare successi e sconfitte, perché iniziano ad accumularsi, gli anni, ed ingrassare di ricordi ed esperienze, trasformando un'avventura in normalità, e quella nostalgia che ti spinse a creare il video qui sotto, dopo appena un anno a Dublino, è andata rimpicciolendosi, perdendo voce e vigore, sarà anche grazie ad equilibri di compromessi personali soddisfatti e a sorrisi che, nonostante questo e quello, si riesce ad avere ogni giorno. E soprattutto a condividere. E sarà anche perché l'estero è iniziato a diventare meno straniero, avere il sapore di casa, e si attraversa il limbo degli essere metafisici (di quegli animali mitologici che son gli italiani all'estero, con il corpo oltre confine e la testa sui quotidiani nostrani) con i piedi alleggeriti da orgogli, stereotipi e superbie. Ad attraversarlo così, quel limbo, fa meno male. Se però vi piacciono i resoconti, quello di 2 anni fa è ancora abbastanza attuale, altrimenti c'è il video di una nostalgia quasi svanita, che però prima o poi doveva comparire tra queste pagine virtuali.

Contributi concreti ad un'Europa unita

Se c'è una cosa che in un qualche modo ha contribuito alla scoperta, allo scambio, alle interazioni se pur minime tra europei, formando o almeno aiutando a formare quella coscienza di un continente che raggruppa diversità e storia e conoscere lo sconosciuto a pochi km da casa, confermare o dubitare di qualche stereotipo secolare, osservare finalmente da vicino cosa altrimenti si vedeva in servizi televisivi già filtrati o tra le chiacchiere di un amico poco obiettivo, sui libri delle scuole medie, se c'è una cosa che ha spinto o almeno ha facilitato in modo incredibile gli spostamenti nella tanto acclamata unione europea, varcando confini di montagne e idee per visitare, osservare, magari dimenticare dopo pochi giorni, spesso licenziare tra smorfie d'intercalari negli aggettivi misti del bar o chissà diffondere in maniera meno superficiale perché vissuto, ecco se c'è una cosa che ha fatto vivere un po' più d'Europa agli europei, negli ultimi anni, non son state certamente le politiche nazionaliste d'interessi sempre in conflitto né la propaganda di fratellanza che si veste d'accuse quando la crisi s'estende e bussa frettolosa, né sarà stato il famoso progetto Erasmus che spesso si riduceva ad una possibilità per chi già agiato avrebbe potuto viaggiare comunque ed aveva tempo e risorse per dedicare un anno ad altre priorità, ecco se c'è una cosa che ha veramente avvantaggiato un po' tutti, studenti e non, benestanti e meno, europeisti e scettici, ma che spesso si critica, per quell'immancabile impulso al lamento e la leggerezza nelle giuste aspettative corrispondenti ai costi agevolati, e insomma ha partecipato a relazioni, scambi, toccate e fughe o ritorni e permanenze, di turisti ingenui o avventurosi curiosi, ecco, se c'è una cosa insomma che ha collaborato a quell'idea d'Europa unita, è una cosa che dovrebbe essere tanto altro e invece poi ti accorgi che si chiama Ryanair.

Quando ti ricordano quello che sei

Eppoi si voltano tutti, simmetrici verso di te, tu in fondo al tavolo e scomposto in una smorfia dai sapori misti, tu che ti ritrovi spinto sul palcoscenico dell'attenzione a raccogliere sguardi che non promettono applausi, e come incalzati da uno scatto spontaneo però curiosi scoppiano in una risata, sonora, non appena durante le due ore settimanali di corso avanzato di francese, lì in azienda, nella grande sala al quarto piano, la professoressa nomina la parola mafia e inevitabilmente tu, forse non essenzialmente tu, unico italiano in quella stanza di belgi dall'accento rauco del nord, diventi ambasciatore involontario e destinazione impulsiva d'associazioni d'idee banali. Non è la prima volta - ti ricordi- né tanto meno sarà l'ultima - ti ripeti -, ma riesce difficile abituarsi a quell'idea, quella che si diverte a trovarti sempre impreparato, quando gli altri ti ricordano che sei italiano, irrimediabilmente, e che il Vitangelo Moscarda attraverso cui ognuno ti guarda, ti ascolta, ti ricorda, indossa stereotipi centenari d'esagerazioni e verità e tu, se è vero che non t'arrabbi quando si tratta di qualcosa di positivo, seppur gonfiato, che sia arte che sia cucina o soltanto il risultato di una partita di calcio, di cui non vuoi né potresti attribuirti meriti o legami, allora ugualmente non dovresti batter ciglio quando l'altra faccia della medaglia cade sul tavolo in un rumore metallico dalle eco divertenti, appena tutti in coro ridono e graffiano, per poi scusarsi, in poche parole convenzionali, come se ti potesse offendere, come se poi potesse essere vero, che tu, lì, sia la mafia piuttosto che l'arte o la corruzione piuttosto che la moda, come se tu fossi l'Italia tutta in un concentrato di carne e accenti, non lo sei, ma devi star al gioco dei cliché fatali, raccogliere il furore del pubblico sempre puntuale e lasciare lesto il palcoscenico in un inchino d'inamovibile leggerezza, magari riflettendo qualche sorriso che vorrebbe sussurrare non sono la mafia, anzi forse sono sempre meno italiano, eppoi sono io, tutto qui, ma che invece sarà riassunto in un sono italiano, sono la mafia, la torre di Pisa e pure la Nutella, l'ingresso è libero, prego, venghino siori e siore, venghino.
Eppoi tutti si voltano nuovamente verso la prof, il sipario si chiude veloce e il palcoscenico scompare, lì, in fondo al tavolo, al quarto piano, durante il corso settimanale di francese avanzato, e tu ti dimentichi, rapidamente, quello che sei negli altri, per continuare, solitario, a pensare d'essere soltanto te stesso, all'estero, in mezzo agli altri.

Tempi moderni

"Grazie alla nuova tecnologià mi informo in tempo reale e lo dimentico all'istante".
Da uno dei vignettisti de El Pais. Ce ne sono altre e vale la pena un'occhiata.

Cortometraggi urbani

Poi ti ritrovi nel finestrino opaco del treno fermo alla stazione, a guardare gli altri a pochi metri in attesa sulla piattaforma affollata, ciascuno nella sua vita importantissima a respirare, ognuno inconsciamente impegnato nel suo destino da decifrare, e il finestrino diventa un televisore temporaneo che trasmette live frammenti scomposti di vita altrui, spiando con sguardi curiosi dettagli sottili seminati da chi riempie l'attesa a cercare risposte tra le unghie indisciplinate o immerso in mondi alieni tra le pagine di un libro dal titolo troppo piccolo anche se sforzi gli occhi e impegni l'immaginazione, non si legge e poco importa mentre c'è chi controlla ripetutamente l'orologio in preda ad un'ansia da ritardo, ma qui in Belgio sarebbe meglio farci l'abitudine - pensi - perché conta più interpretare la voce rauca di chi annuncia cambi di binari e orari saltellanti che il tabellone luminoso ed i suoi numeri arrossati da incrociare. Quando un altro treno si ferma davanti al tuo schermo, a cambiar bruscamente canale, il finestrino inquadra veloce altre comparse, in questa quotidianità di cortometraggi urbani, attraverso altri finestrini, c'è chi parla, chi ascolta musica e chi sbadiglia, mentre le tue cuffie accompagnano l'ennesima scena di sguardi incrociati, che repentini si schivano, per poi rincontrarsi, nel controllo che non fosse solo una coincidenza, nel delirio che stessi guardando proprio lui, più volte, per qualche motivo, non farà in tempo a capirlo, perché il treno ripartirà sbuffando i suoi ritmi metallici e spostando la camera, di nuovo, verso altre scenografie, immortalando altri antagonisti. Appena alla stazione successiva intravedi il ragazzo che fissa un manifesto di Justin Bieber, in concerto da qualche parte in Belgio, muovi subito la cinepresa oculare per concentrarti su altri personaggi nei dintorni per poi non riuscire a sottrarti al dubbio atroce però rilevante, perché in questo gioco d'oscar metropolitani ognuno è regista e comparsa allo stesso tempo ed il tuo finestrino trasparente diventa presto scenario per chi dall'altro lato t'osserva invadente e tu figurante involontario, lì dalla finestra di un treno di passaggio, dalla piattaforma in attesa d'altre destinazioni, c'è chi ti stava registrando su pellicole d'inerzia, la scena del ragazzo che sporge il capo dal finestrino del vagone mentre parte dalle cuffie del regista la colonna sonora del momento, l'ultimo pezzo di Justin Bieber, mentre tu, proprio tu, reciti la tua parte involontaria e qualcuno ha scelto per te di mandarti in onda abbinato a Justin Bieber. E la smetti, ti volti, rapidamente, basta: a volte - concludi - c'è veramente troppa parità di diritti in questo mondo.

Cose a cui non ti abitui

Poi vai ad un ristorante africano a Bruxelles a mangiare carne di coccodrillo e banane fritte, l'orologio del sud, si chiama il ristorante, e ti siedi, ti guardi intorno con sguardo curioso, osservi le decorazioni caratteristiche e l'atmosfera calorosa, mentre al tavolo a fianco parlano spagnolo, a quello alle tue spalle francese, al tuo italiano, inglese, qualche pensiero in greco, qualcosa sussurrata in spagnolo, e arriva la cameriera, di pelle scura, giustamente, in un ristorante africano, a Bruxelles, e ti parla tranquillamente in italiano. Appunto.

Es muss sein brussellese

Poi ti ritrovi ad attraversare il centro di notte, in bici, ed un'improvvisa sensazione di libertà spinge pedali e leggerezza mentre la città sembra accompagnarti in una palpabile complicità, sei vivo abbastanza, sei sereno, e non puoi che attribuire parte di quello stato d'animo a Bruxelles. Certo, avresti potuto avere la stessa sensazione pedalando in una qualsiasi città italiana, di notte, la stessa tranquillità e spensieratezza, ma non lo saprai mai perché, come scriveva Kundera, si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti né correggerla nelle vite future. E poco importa. Quando le macchine in fila s'incastrano in puzzle di traffico e luci, tu sfrecci euforico sulla destra e sorride al tuo passaggio la guardia notturna davanti all'ambasciata americana, sarà sicuramente annoiata in quella sua monotona veglia e un ragazzo che pedala innocuo a qualche metro rappresenta pur un attimo di compagnia a rompere silenzio e concentrazione. Eppoi eccola Bruxelles, non appena ti circondano musica da discoteca e dieci, venti, cento altri ragazzi in bicicletta, pattini e skateboard, ti ricordi che è venerdì e che c'è la roller parade: 6000 persone, dicono le statistiche, che si riuniscono ogni venerdì durante il periodo estivo a Bruxelles per attraversare mezza città e rompere disegni urbani di grigio e clacson, bloccando temporaneamente la circolazione accompagnati da poliziotti in bici, in pattini a rotelle, e c'è chi ci va con il cane, chi coi bambini, chi un po' brillo, mentre musica tecno tiene alto il ritmo e passanti si fermano curiosi, altri increduli. E capisci il perché del sorriso della guardia all'ambasciata americana. E il perché del traffico. Ed ecco come ci s'innamora di Bruxelles, città surreale che non finisce mai di stupire. Questa è Bruxelles, pensi. Non esattamente. Questa è la tua Bruxelles, ripensi. Non precisamente. Questa è la tua Bruxelles in questo preciso istante, in quest'umore e queste percezioni, concludi. Ce ne sono altre, altrove, in altri respiri e attraverso altri sguardi, e ce ne saranno altre mille tra appena due minuti, sono già passate, le hai perse, ce ne saranno altre, diverse. Ma poco importa. La tua, per il momento, va benissimo così.

Prodotti tipici

"nemmeno la macchinetta per il caffè, cioè lo strumento di produzione, è di casa nostra. I prodotti nascono da una collaborazione internazionale. Che ci piaccia o no. L’importante è saperlo, ci vogliono nuove regole, è certo, ma tant’è, meglio conoscere la fisiologia della filiera perché spesso è la nostra ignoranza della fisiologia a produrre il danno. Metti la pizza. È in corso di registrazione la dizione: specialità tradizionale garantita (pizza napoletana STG). Questa etichettatura avrà un vantaggio economico? Davvero il prodotto certificato è realizzato con materia locale? Ma veramente? Per ottenere la pizza napoletana (che sia STG o meno) di così eccellenti qualità, è necessario impiegare la farina Manitoba, ottenuta da grani selezionati dall’antica cultivar canadese Manitoba. Ciò significa che per ogni pizza paghiamo le royalties ai selezionatori di quel grano. Il pomodoro Pachino? Stessa cosa, le tre varietà di ciliegino più in uso, Piccadilly, Shiren e Titì, sono selezionate dalla ditta israeliana Hazera. Sono buoni perché gli israeliani investono nella moka da 12 anni, cioè fanno un’ottima ricerca e poi ci vendono semi, mica solo a noi, a tutto il mondo."

Et voila. Nell'era della globalizzazione, neanche la pizza, quella autentica, sfugge a certi giochi, anzi ne dipende. E pensare che c'è chi, all'estero, disgustando piatti stranieri, spesso decanta a gran voce i sapori del bel paese, autentici, unici, inimitabili, perdendosi tra un po' di patriottismo spicciolo e inciampando maldestro in trappole d'ingenua ignoranza.

Una cartolina un po' falsata

A Ballarò ieri sera si cercava giustamente di mostrare che all'estero c'è più trasparenza e in effetti visti gli ultimi risvolti non è difficile far meglio, però bisogna giusto puntualizzare che: la candidata italiana del video che dice di non voler comprare voti altrui nemmeno con un cornetto, poi le coincidenze, ti lascia una sua lettera nella casella della posta con un messaggio a penna sulla busta in cui dice d'essere passata, d'aver suonato e non averti trovato, perché - dice - si voleva presentare (ma a casa no, quelli sono i testimoni di Geova); se dicessimo a un belga che i trasporti funzionano bene, potremmo rischiare di farlo morire dalle risate; la signora alla fine non dice che se non andasse a votare, prenderebbe una bella multa, perché qui è obbligatorio. No, giusto per chiarire, che non pensino in Italia che a Bruxelles vivano un milione di "Mario Monti".

Una squadra fortissimi

Ma dopo gli ultimi ennesimi scandali di corruzione, dalla Lega Nord a Formigoni, da Fiorito a tutta la Regione Lazio per non elencarne altri ancora e senza dimenticare che sui giornali non finisce l'operato giornaliero di chi non è casta ma pur la partorisce senza tregua, nell'Indice Internazionale della Percezione della Corruzione è chiaro che quest'anno l'Italia è veramente pronta per il salto di qualità! Se l'anno scorso era tra i primi paesi in Europa in quanto a corruzione e appena sopra Romania e Tunisia, quest'anno con tutto questo impegno si possono anche superare Colombia e Marrocco, secondo me ce la può fare, sarebbe un giusto traguardo dopo tutti questi sforzi, altro che la finale inaspettata di Prandelli o medaglieri olimpici dorati, questo è l'anno buono per scavalcare addirittura lo Zambia e il Messico e suggellare una qualità oramai indiscutibile del vero sport nazionale, basta soltanto mantenere lo stesso ritmo fino a fine anno, tenere alta la concentrazione e sono sicuro che la conferma arriverà, già le vedo le bandiere tricolore appese ai balconi e le nuove generazioni pronte a mantenere alta la tradizione non più correndo estasiati al Circo Massimo per accogliere il pulman dei vincitori ma restando comodamente al bar o al più guardando i campioni nazionali invitati a Ballarò e ridere mentre Crozza li deride.
Poi c'è pure chi ha il coraggio di dire che non è un paese talentuoso, mah.

Perdutamente straniero

Ma senti un po', cara lingua, che sulla punta nascondi sinonimi intimiditi però ancora non dimenticati, bisognerebbe far qualcosa se quando mio fratello mi chiama al telefono io ho quella cosa, la gola, che mi fa male, un po', poi con sorpresa non riesco a dirlo, non ricordo come si dice, gola, in italiano, c'è l'ho lì, proprio sulla punta, della lingua, ma non vien fuori, in nessun modo, all'improvviso ho come perso quella parola così basilare dal mio vocabolario in espansione disordinata, salta fuori gorge, ma non è quella giusta, lo so, vorrei dirgli garganta, ma non mi capirebbe, e tu non m'aiuti, cara lingua, neanche con throat, disgraziata, mentre mio fratello è lì al telefono che cerca di capire, che s'inizia magari a preoccupare, cosa sarà mai questa cosa che mi fa male, tu lingua ti muovi invano e non vomiti quella maledetta parola, fino a costringermi a dire con rinunciataria vergogna "quella cosa che c'è nel collo" e giustamente mio fratello sorpreso però turbato risponde "ma tu all'estero stai diventando scemo?". Un po', forse. E succede poi con l'amico una sera a Bruxelles, volevo dirgli che c'era quell'altro che secondo me è alquanto addicted a una cosa e non sapevo dirlo, in italiano, addicted, perché dovevo addirittura tradurlo da una lingua straniera, perché tu non m'aiutavi, lingua, torcendoti in movimenti impacciati però continui, mentre un joder e un putain rompono in esclamazioni e perdo un poquito di tempo a trovare parole una volta ordinarie, adesso rallentate da affollamenti linguistici in equilibri precari. Sarà forse questo, l'essere europei, sembrare un po' dislessici però ubriachi, non parlar bene nessuna lingua nuova per ovvie necessità di tempo e sforzi e perdere la fluenza di quella natia per mancanza di pratica e dintorni, rimanere in un limbo di rallentamenti vocali e sorprendersi per un sinonimo lasciato fuori, quando si preparava la valigia delle necessità e s'imbottiva il bagaglio vorace di vocaboli necessari, perdendone altri sul percorso a ostacoli però stimolanti. Forse s'accumulano lì, sulla tua punta sempre più affollata, parole in cerca di memorie, in attesa d'una chiamata liberatoria, per il semplice piacere di ritrovarsi tra le vibrazioni della laringe e con la speranza di cadere in frasi grammaticalmente corrette mentre un sorso in più di birra le stimola ad amplessi promiscui dalle dubbie generazioni e tra un meeting, un corso serale e un bacio dall'accento lontano tu, lingua, m'accompagnerai nel diventar a passi straniero. E cioè un po' strano per la perdita di quel che ero.

L'equivoco stravagante

- Insomma è una vergogna, non se ne può più, siamo sempre lì, certi personaggi rischiano di diventare anche dei miti per le nuove generazioni, sono lì chiaramente senza meriti, uno schiaffo alla meritocrazia che in questo paese diventa sempre più un miraggio, ad occupare un posto senza rispettare le responsabilità che ne derivano, lì su tutti i giornali nostrani ma anche su quelli stranieri, a ricordarci quanto di più brutto dobbiamo ancora subire del ventennio berlusconiano. E questo sarebbe il nuovo che avanza? E' tutta distrazione, distrazione di massa, tutti a occuparsi dei titoloni che genera, delle ultime foto, gli incontri, le apparizioni, creando un personaggio per vendere e per rincoglionirci e noi lì a leggere, a comprare, a parlarne, mentre i veri problemi son ben altri, ma no, cadiamo in questi tranelli mediatici spinti dai giornali e lasciati passare da quegli ignavi dell'opposizione, per l'ennesimo hashtag su twitter e le parodie virali su facebook, basta, non se ne può più, dobbiamo uscirne, ma come?

- Bravo, anch'io ho pensato lo stesso dove aver visto le foto della sfilata della Minetti!

- No ma.. io veramente parlavo di Monti.

Rien à voler

Niente da rubare. Foto scattata qui, nel punto di ritrovo del nostro gruppo Gasap. Intanto si torna
a parlare di criminalità a Bruxelles, con un aumento del 14% di infrazioni registrate dal 2010 al 2011,
a ridosso delle prossime elezioni comunali.

Fiorito, Michele Serra e Benigni

Tutti qui, in un video (che ho rubato), dopo l'amaca tanto criticata però tanto osannata di Michele Serra sul personaggio del momento, Fiorito, questo video calza a pennello, ricordando anche le sviolinate esagerate di Benigni che non fanno che contribuire a quell'autocelebrazione esasperata di una parte del passato, dimenticando tutto il resto.

La stanza

Quando muoveva gli occhi, nella stanza, si guardava intorno, parlava ed interagiva con gli altri, non se ne rendeva conto, era tutto normale, naturale per loro, lì da tante ore. C'era un sole luminoso fuori che tagliava qualche pennellata di nube mentre la finestra ne rifletteva una parte sul muro. Faceva caldo, si stava bene. Poi, dovendo rispondere ad una telefonata, uscì dalla stanza per qualche minuto. Attraversò il corridoio stretto che portava all'atrio dove c'era una finestra aperta e non appena l'aria stimolò il respiro a riempire polmoni e sangue d'ossigeno fresco, ecco che subito ebbe un sollievo intenso, come alzarsi da terra per qualche secondo, come viaggiare. Quando poi rientrò nella stanza, nell'instante in cui aprì la porta richiamando l'attenzione degli altri, un odore fortissimo s'impadronì dei suoi sensi. Quella stanza puzzava. Quella stanza puzzava, ma fino a qualche minuto addietro era seduto lì, senza saperlo, senza rendersene conto. Quella stanza puzzava, e tutti gli altri non lo sapevano, non potevano capirlo. Quella stanza puzzava e non ci fu modo di farlo capire agli altri, lo guardavano in modo strano, quasi li stesse offendendo, consigliò invano di aprire la finestra, di respirare aria nuova e intanto tratteneva il fiato, non riusciva più a respirare nella stanza né voleva abituarsi nuovamente a quell'aria allora ostile. Eppure qualche minuto addietro era stata la sua aria, ci respirava, parlava, interagiva, rideva, era anche la sua stanza. Ci stava bene. Allora uscì di nuovo dalla stanza, inevitabilmente. Alle sue spalle qualcuno si sentì offeso, qualcun altro disse che era strano, molti non capirono. Chiuse la porta e andò via. Sulla porta c'era scritto "patria", lui lesse "Italia" scuotendo il capo, con ancora un rigurgito amaro di quell'odore stagnante in gola, ma anche con tanta voglia di respirare aria nuova.

Prossimamente, a Bruxelles

Insieme ad un amico, io il mezzo braccio, lui la mente generatrice, si è deciso di ripetere un esperimento ben riuscito in Olanda e vedere di nascosto l'effetto che farà. Per parlare di narrativa e non solo, ci si organizza qui per riunirsi intorno a un tavolo, prossimamente, a Bruxelles. Non siate timidi.

A me gli occhi

Ma carissimo collega che dici di non essere impegnato mentendo spudoratamente per infinita gentilezza o chissà per leggerezza macchiata d'incuranza sottile, se quando ti parlo continui a fissare ipnotizzato il tuo schermo opaco alla ricerca del senso di una vita insipida o intento a risolvere un qualche problema che ti affligge probabilmente da ore e contemporaneamente emetti monosillabi preistorici tentando invano di apparire concentrato anche sulle mie parole, dovresti saperlo che così facendo stai utilizzando in modo del tutto sbagliato la tua e la mia risorsa tempo, stimolandomi a mandarti una presentazione power-point fatta ad-hoc da fissare la prossima volta, una cosa semplice, una slide e pochi punti per sapere che 1. così facendo non troverai la soluzione al tuo problema perché nel frattempo ci sono io che disturbo la tua concentrazione 2. così facendo non risponderai correttamente alla mia domanda perché non mi stai ascoltando pienamente e c'è il tuo problema che disturba 3. stiamo perdendo tempo entrambi nei nostri monologhi paralleli quando basterebbe soltanto un po' di cooperazione spicciola 4. non sarei costretto a ripetere n volte lo stesso identico concetto quasi fosse la dimostrazione del teorema di Pitagora da te trasformata in quella dell'ultimo teorema di Fermat 5. quando qualcuno ti parla, in generale, non guardare altrove per un principio minimo d'educazione che sta tra il rispetto e l'empatia. Poi, sempre in quella slide fatta ad-hoc, ci sarebbe anche un altro punto, magari listato alla fine, meno importante forse perché rappresenta un vantaggio opinabile o una trascurabile consapevolezza, ma degno di nota nelle nostre interazioni quotidiane ahimè necessarie, 6. mi staresti anche meno sulle balle.

Cose da vedere, assolutamente


L'accento inglese è comprensibilissimo, ma nel caso si possono attivare i sottotitoli in italiano. Sono 18 minuti spesi davvero bene, fidatevi.

Pronto per l'Europa?

Quindi, mentre la Commissione Europea pubblicizza dal suo canale Youtube il continente delle meraviglie, perché nonostante la crisi e l'austerità non bisogna dimenticare cosa ci circonda...


...i neo-nazisti in Grecia, sempre durante quella crisi e spinti da quell'austerità, diventano la terza forza politica del paese e, quando incontrano degli immigrati non in regola, succedono di queste scene:



I turisti saranno sicuramente pronti per l'Europa, soprattutto dopo aver visto il primo video. Ma gli altri?

Dicono che il Belgio sia un'illusione

Ritorna il tema della scissione e addirittura del piano B di separazione mai scartato, a quanto pare, tra una battuta un po' infelice un po' provocatoria del Presidente della Regione di Bruxelles. Siamo sempre alla non nazione, al paese del surrealismo, ma ci piace anche per questo. Ecco come commenta la dichiarazione del giorno un blogger belga:

Il Belgio è un'illusione. E' quello che avrebbe dichiarato il Ministro-Presidente della Regione di Bruxelles questa mattina. Ed è vero. Quando si arriva all'aeroporto, non c'è scritto da nessuna parte che siamo in Belgio. Siamo in "Vallonia", nelle "Fiandre" o a "Bruxelles", ma non in Belgio. E non è prendendo la navetta verso Schuman che la questione si risolve. Lì si ascoltano tutte le lingue d'Europa. Difficile dire dove siamo esattamente. Capita lo stesso alla frontiera francese. A parte un piccolo pannello e lo stato dell'autostrada che degrada all'improvviso, niente indica che si è in Belgio. Eppure, il Belgio esiste, qualche volta. Appare in un lampo e scompare con la stessa rapidità. Ci sono degli instanti belgi, furtivi, come delle stelle cadenti. I diavoli rossi (la nazionale di calcio belga) vincono una partita. Un autobus s'incendia in un tunnel. Delle richiamate all'ordine, felici o meno, e siamo tutti belgi. Ma è qualcosa che non dura mai a lungo. E' questo il Belgio? No, deve essere un'illusione. In fondo, Charles Picqué ha appena inventato probabilmente il miglior slogan di marketing per il paese: il Belgio è un'illusione. Non avevamo trovato nulla di meglio dal "Il Belgio evapora", un invito per i turisti del mondo intero a venire a visitare un'ultima volta, prima che non sia troppo tardi, questo paese immaginario.

Della vita degli altri, poi tua

E ti ricordi del primo giorno al corso di francese, qui a Bruxelles, tre anni fa, quando la prof entrava nella classe un po' in attesa con quell'aria professionale però materna iniziando a parlare soltanto in francese come fosse qualcosa di naturale per gli studenti invece già in un panico leggero però constante. Ricordi che qualche nozione degli appunti delle medie risaliva come rigurgito spontaneo e riuscivi a capire qualcosa di sensato mentre la prof parlava un po' balbettando cercando di scandire dittonghi e parole quando il suo francese da riforma accademica si diffondeva tra occhi stanchi d'ufficio e sbadigli camuffati da pruriti. Certo l'essere italiano ti aiutava indubbiamente a carpire almeno il senso di alcune frasi a rilento e non dovevi collezionare rifiuti categorici come chi chiedeva anche qualcosa di semplicissimo in inglese e non dovevi incassare rimproveri puntuali come chi provava a rispondere, ancora, in inglese, mentre il ragazzo cinese era perso, lì, nella lingua di Maupassant e tra l'accento di Edith Piaf, il ragazzo cinese non poteva in alcun modo costruire relazioni con la propria lingua lontana né trovare connessioni tra musicalità ondulante e costrutti latini. Perso, il ragazzo cinese era lì tentando di imparare qualcosa a memoria, annotando con cura anche gli ordini più banali e lottando con le proprie corde vocali per una pronuncia difficilmente comprensibile mentre tu l'osservavi con una smorfia dispiaciuta che però grondava del compiacimento di non essere in quelle condizioni di smarrimento, trasformando sofferenze altrui in sostegni precari per umori altrimenti meno allegri. Poi, oggi, sei andato alla prima lezione del corso d'olandese. E il ragazzo cinese eri tu.

Cose a cui non ti abitui

Poi nuvoloni grigi colorano voraci il cielo pigro e c'è già chi sentenzia con fermezza la fine dell'estate, illuminati, lo avevan già detto per poi ricredersi, non lo diranno di nuovo, probabilmente, almeno fino alla prossima, avendo così perso mezzo discorso di parole già dette con cui riempivano il mezzo bicchiere di birra la sera, troveranno altre sillabe inutili per distrarre meccanici ore ed umori, mentre la parola estate se ne rallegra un po', per abusi e ritornelli, se ne dispiace un po', per la perdita d'attenzioni. Quando a Diegem calpesti l'erba del business park ancora più cupo se i palazzoni di vetri riflettono i grigiori del cielo e un vento, forte e già freddino, richiama il collo a nascondersi tra le spalle nella speranza di un rifugio un po' sollievo, ti dirigi alla camionetta dei panini che richiama impiegati come api al fiore, soprattutto se l'unico, non conteso ma un po' lento, troppo nel servire ed ecco che si crea la coda, la lunga attesa per il pranzo quotidiano. Ma è la prima volta per te, il dubbio vale la fila. C'è il signore distinto fiammingo che ordina con fare preciso e la signora della camionetta gli risponde con un sorriso in fiammingo. C'è la signora infreddolita francofona che sembra cliente affezionata e la signora della camionetta le risponde con un sorriso in francese. C'è il ragazzo dai lineamenti orientali un po' perso nel menù appeso e la signora della camionetta in inglese gli spiega il panino del giorno. Un pezzo di Belgio: una signora qualunque di una camionetta ambulante a far panini nella periferia brussellese parla più lingue del ministro degli esteri di un paese del sud d'Europa. Quando arriva il tuo turno, già sicuro della scelta, già sciolto nelle parole, in francese chiedi il panino numero uno con pochi dittonghi, uno sforzo nell'accento forse, una tranquillità acquisita con certe frasi della lingua studiata per tre anni e abbastanza rilassato per l'ambiente, nonostante il freddo. E la signora della camionetta ti risponde in italiano, naturalmente. Un altro pezzo di Belgio, che si ripete e ripete, quando meno te lo aspetti, cose a cui non riuscirai mai ad abituarti, per la loro imprevedibilità soprattutto, per la semplicità che trasmettono. Ti ricordi del collega argentino a Dublino, una volta ti disse di una specie di proverbio, lì, in Argentina, dicono che se gratti un argentino poi sotto trovi un italiano, o qualcosa del genere. In Belgio non c'è neanche bisogno di grattare.

Prima di mandare il tuo cv all'estero..

Un po' d'attenzione non guasta, cara cervello in fuga.
Ieri pomeriggio, presa da Facebook. Poi però non ci lamentiamo che non c'è lavoro.

Il (non) mio grosso grasso matrimonio spagnolo

Ma ovvio che non c'è nessun problema, essere l'unico straniero ad un matrimonio spagnolo non spaventa mica. Figurati per un italiano poi. Nell'anno della finale del 4 a 0. Hola, Buenas, Encantado, stretta di mano, bacio, Xavi, Juan, Miri, Paco, Ali e Isabel, ho perso il conto, non ricordo il mio nome. Ah, già Antonio, sì ho un nome spagnolo, ma vedi le coincidenze. Oddio di origine spagnola non saprei. Ma i romani non lo usavano da prima ancora che esistesse la Spagna? No, figurati, guarda per consolazione prenditi Cristoforo Colombo, va bene, non ci voglio neanche entrare in quella lotta di natalità. Pues se vuoi avrei anche altri da passarti come nazionalità, no, così, meglio abbondare diciamo noi. Ma perché non spostarsi all'ombra? Sai, sarà il nodo alla cravatta, con 35 gradi a breve perdo conoscenza. Por cierto, a Bruxelles questo sole non c'è, per fortuna dico io, come dici?, qui è il clima migliore del mondo?, sarà. Ma sediamoci a tavola chaval, ah, brindiamo con questo vino rosso, ma guarda, i vostri sono i vini migliori del mondo, m'era sfuggito. Ah, una fetta di prosciutto crudo, no scusa, volevo dire jamon, i migliori del mondo, ma pensa, pata negra, senza dubbio. Scusa, ho Manolo Escobar che mi fischia nelle orecchie, non ho capito, puoi ripetere? Ah, non lo sapevo, certo, la metro di Madrid è tra le migliori del mondo. Niente, niente, solo un fastidio, sai, tra i denti ho il goal di Iniesta del mondiale, avreste mica uno stuzzicadenti magari imbevuto con molto rum? Brugal va bene, sì. E cosa dire della Liga, poi, oh, il campionato più bello del mondo. No, niente, è solo un po' di torcicollo, ho un dolore alle spalle, dev'essere Nadal, Lorenzo e Pedrosa che mi tirano la colonna vertebrale, è che all'improvviso risento un po' dell'infortunio di Chiellini e quello di Motta. Dev'essere uno stiramento, poi passa, tra due o quattro anni, forse. Ma torniamo a mangiare, ah ma ovviamente, il cibo più buono del mondo. Certo, la dieta mediterranea, oh, ce l'avete solo voi il mediterraneo eh, per carità. No, niente, ho come delle fitte di nazionalismo allo stomaco, dev'essere il condimento, troppa patria e protagonismo, è che non sono abituato, di solito mangio leggero. Claro, claro, è lo stesso quando vado a casa, anche lì, con certe spezie s'abbonda sempre. Non lo so, sarà un'inutile complesso d'inferiorità o il bisogno innecessario di difendere la patria, come se io avessi una spada al posto della mano e mostrassi i canini ad ogni sorriso. Ah, ecco, prendiamoci un digestivo, all'anice va bene, ehm, no, non ce l'avete solo voi, da noi si chiama Sambuca, in Francia Richard, sono simili, sai, basta uscir fuori per scoprire che il proprio mondo non è l'unico assoluto e spesso neanche il migliore. Venga, non ci pensiamo, andiamo a ballare mentre voi vi ponete pedos. Toh, la Carrà, se me la fate diventare spagnola giuro che caccio il mafioso che è in me e faccio una strage faccio. No, no, si diceva per scherzare tio. Ballo poco, lo so, ho come un gonfiore qui, sarà il pallone da basket della finale olimpica di cui parlavi prima. Come? Ah, anche tu informatico. Ah, vorresti mandarmi il cv e vedere se trovi lavoro a Bruxelles perché qui non sei contento? Tranquillo però, che non mi aspetto il cv più bello del mondo. Ma ne parliamo tra un attimo, vale? Perché ho il cucchiaio di Sergio Ramos che mi si è incastrato nel dessert e non riesco a mangiarlo, il dolce più buono del mondo, s'intende.

Sul conflitto dell'emigrante

Ne è nata una bella e vivace discussione dopo un video che ultimamente gira un po' in rete, conflitto che si accentua sempre più dopo i ritorni, si sa, e la sintesi perfetta che non potevo non segnalare è quella di rafeli:
La risposta e’ meno male che lo provo, questo dolore, perché vuol dire che ho delle radici salde. Ma pure: meno male che non mi uccide, perché mi permette di continuare le mie vite che altrimenti non sarebbero mai state.

Cose che poi non ci si crede

38 gradi raggiunti, sì, in Belgio, lì, a nord. Bruxelles invivibile con certe temperature.
Per fortuna c'è la costa. Foto scattata qui, approssimativamente.

L'emigrante politicamente corretto

All'estero si muove osservando e ascoltando opinioni e pensieri altrui
digerisce un po' di tutto e poi cerca motivazioni anche nei casi più bui,
quando un connazionale cade in un lamento che lo divora in gran spirale
lui cerca di capire e con calma gli ricorda e gli spiega lo shock culturale,
se poi c'è chi non smette di bestemmiare contro l'abbandonato belpaese
lui cerca di ascoltare, calmare e infine decifrare tutte le delusioni sospese:
ce ne sono sempre, rimangono lì strette in gola fin dai tempi della valigia
e scompaiono, ritornano, ciclicamente, sotto il cielo di una città più grigia.
Quando ci si scaglia contro il paese che ci sta gentilmente ospitando
lui ricorda le tante vittorie, i vantaggi, le migliorie che lì si stanno avendo,
e quando ci si scaglia contro il paese che si è appena lasciato alle spalle
lui ricorda che non è facile, si sa, che in patria si hanno gioie e battaglie
e che alla fine sono soltanto scelte, tutto si riassume in compromessi,
non ci son vigliacchi, eroi o falliti, né tantomeno paragoni tra successi,
lo racconta sempre in giro, spesso sembrando il conciliatore perfetto:
lo guardano in modo un po' strano, è l'emigrante politicamente corretto.

S'interessa dei ragazzi scappati fuori, legge sempre il blog di Servegnini,
anche se su Italians, tra lettere e commenti, spesso son cose da bambini,
ma hanno pur sempre il loro valore, son testimonianze di cervelli in fuga
solo che quando si accumulano, si ripetono, generano sì più di una ruga
perché l'italiano all'estero porta spesso con sé questo eterno conflitto
tra la patria e l'altrove, da risolvere, un giorno, durante il proprio tragitto
che lo porterà ad una soluzione, si spera, di ritorno o di permanenza
l'importante è trovare un equilibrio, un sorriso, questa dev'esser l'essenza.

Ma ecco che d'estate sulle città del nord Europa si scaglia il temporale
e pronti son lamenti e bestemmie e i pianti per il tempo ahimè fatale!
Poi si ritorna a casa e si mangia, si balla, sotto un sole però amaro
perché non basta a scaldare tutto se c'è di mezzo il famoso dio danaro
e non solo quello, purtroppo, se c'è il problema di un'antica mentalità
che bisognerebbe lottare, a poco a poco, anche a costo della felicità.
L'emigrante politicamente corretto deve scontrarsi anche con i più cari,
gli amici rimasti in Italia che interpretano commenti come fossero spari,
si chiudono a riccio, provano a difendersi nell'orgoglio di una nazione
non capendo che non c'è paradiso in terra e partire era solo un'opzione,
non capendo che son compromessi, basta con la cultura del sospetto!
Ma non è mai facile, nemmeno per l'emigrante politicamente corretto.

Ed eccolo il conflitto di chi si ritrova tra le mura di casa come straniero,
diventa un fantasma, ha perso un pezzo d'identità, no, non è più sincero
quando chiedono di continuo quanto torni, quando riparti e come stai
si ripetono cose, si recita anche, s'inghiotte, un po' si sorride, casomai.
Poi si ritorna alla propria scrivania con l'umore strano di chi ha lasciato
la famiglia, gli amici, oddio la patria, e tutto quel patrimonio rinomato,
ma basta un'email, dopo aver lavorato un'ora in più, di ringraziamenti
per far capire cosa ci aspetta davvero ogni giorno, e si ritorna contenti.
Ecco il segreto: bisogna prender atto delle scelte e delle conseguenze
e convivere con esse, con quanto di buono ma anche con le mancanze.
Non è facile capirlo e spesso gli verrebbe quasi da dire ma vaffanculo
ché spesso è vero, si perde l'acqua e il sapone a lavare la testa al mulo!
Se lo ripete continuamente, è la giusta e amara legge del compromesso
ci ripensa, si chiude in una smorfia, la sera da solo, seduto sul cesso.

L'ottimismo paga

Ma anche la fortuna, diciamolo. Però vedere le stelle cadenti, e quante, in Belgio va contro tutte le
bestemmie per il tempo ed i lamenti per la pioggia. Qui ci credono da più di 10 anni, bravi.
Foto scattata qui, venerdì sera. E che cielo.

Esperti brussellesi

A Bruxelles si possono trovare anche specialisti di importanza vitale, in formaggi svizzeri,
passeggiando per stradine sconosciute. Foto scattata qui.

Ne hanno fatto un altro


E ne continueranno a fare, perché ne continueranno a partire, si spera senza troppi drammi. Sarò breve: attenti agli elenchi, perché c'è sempre qualcosa di discutibile, senza però voler sempre cercare il pelo nell'uovo; attenti a lasciarsi trascinare dalle sensazioni delle "prime settimane", perché sono fasi, poi passano, forse; attenti ad accuse, a fallimenti, a lamenti, esaltazioni, a generalizzare in un sentimento di tutti; non sottovalutare le schegge. Ah, attenti ai copyright musicali.

Della bellezza maledetta

Poi ti ritrovi in vacanza a sud e d'improvviso ti dimentichi di tutto quando, a guardare con gli occhi che spingono aria nei polmoni se all'orizzonte c'è natura che richiama memorie agli incontri, il panorama che avevi lasciato, che avevi dimenticato, che avevi raccontato, che avevi immaginato, ritorna ad incantare grazie alla magia delle origini, per qualche istante, prima di grattare le unghie sulla realtà dei compromessi già digeriti dell'espatriato. Già ripetuti, già combattuti, già accettati, già difesi. Già dimenticati, appena la brezza marina invita all'oblio, per un po'. Durerà poco.

Ci dev'essere una qualche legge divina, maledizione antica, su queste terre - pensi - per cui a tanta bellezza, a tanta magia di paesaggi, dettagli e tradizioni, a tanto sole, cibo, canti, debba corrispondere, per un dannato equilibrio, altrettanta perdizione, corruzione, omertà, egoismo e quant'altro di malefico si possa elencare, si voglia sottolineare, si debba ammettere, ci abbia spinto a partire. E spostandosi a nord, emigrando verso società supposte migliori, è come se si lasci un po' di quella malvagità alle spalle ma si debba, per ragion di cose, per quest'equilibrio invisibile ma sofisticatissimo, perdere anche bellezza, rinunciare a incanti e legami, perché non si può avere il paradiso in terra, perché si deve scendere sempre a compromessi e lasciar da parte propagande di terre natie. Stai soltanto provando a giustificare - pensi - stai cercando ragioni che non esistono, inventando scomuniche surreali e condanne che gravano su persone e non sulla natura. Maledetto sud. Eppoi sei in vacanza e la tua percezione delle cose è già diversa, perché la consapevolezza di tornare ai tuoi compromessi, ai tuoi equilibri raggiunti, lascia scivolare quel po' di male che inevitabilmente incontri per strada, nel paesaggio, tra le parole di quei complici. Eppoi sei in vacanza e proprio grazie alle vacanze puoi approfittare di quei panorami altrimenti ignorati, altrimenti abituali, vicini ma rimandati a domani, ne basta sapere l'esistenza, la vicinanza, ma non ne apprezzeresti la bellezza in quel mondo, perché chi vive lì non ha il tempo, non ha la voglia o forse nemmeno le risorse: e allora è meglio vivere altrove e tornarci solo in vacanza - ti ripeti - per assaporare quello che c'è di bello e schivare abilmente il resto, come solo chi ci ha vissuto saprebbe fare, come un turista non saprebbe interpretare. Comodo, egoisticamente vantaggioso, ma coerente con le tue scelte di lasciar l'animo quieto e non ricadere nei soliti interrogativi o in dibattiti ricorrenti sulla qualità di vita, sui compromessi personali, sull'amor di patria, le fughe vigliacche, le lotte quotidiane, le soluzioni e le utopie.

Questa terra ha ossigeno pesante che passa nei polmoni lentamente ma nel riciclo d'aria lascia tracce di pensieri e graffi dubbiosi. Non c'è pioggia, no, non come al nord, eppure per te questo sole abbronza sì la pelle ma brucia sorrisi sottili, prolunga silenzi affollati. Ci sono terre bellissime, lì, a sud, che però non avresti ogni giorno alla finestra, non potresti contemplare - ti ricordi - perché tornare non significherebbe vivere lì, ingenuamente, e allora, di nuovo, meglio in vacanza, meglio saltare su questi scogli del porto come altri non saprebbero fare, correrci con una scioltezza che il turista non potrebbe avere, saper dove mangiare, parlarne il dialetto, ridere di un proverbio, scoprire cose nuove ma attraverso connessioni che un turista faticherebbe a creare, ma in vacanza. Eppoi andare via, ripartire, con quel nodo in gola che ogni anno diminuisce, però poi ritorna, lottando contro risposte ben affilate e certezze oramai consolidate, pronte a difendere equilibri costruiti altrove. Eppoi andare via, mentre il finestrino dell'aereo t'allontana da questa terra dannata e quella maledizione è anche in te, ne porti dentro la bellezza e l'orrore, che danzano scomposte, riaffiorano, improvvisamente, a volte la bellezza, a volte l'orrore.
Foto scattata qui, approssimativamente, qualche giorno fa.

Dei sapori del sud

Caro ragazzo con l'accento milanese che, mentre eri seduto proprio lì, al tavolo affianco, ad un bar ristorante a pochi metri dalla spiaggia, a Positano, hai chiesto della maionese e mi hai quasi fatto smettere di mangiare il pesce all'acquapazza che avevo ordinato, incuriosito e con un sospetto disarmante, quando come fosse la cosa più normale del mondo hai aperto il panino con mozzarella di bufala, prosciutto crudo e pomodori che stavi mangiando e l'hai spremuta con scioltezza, lì, la maionese sulla mozzarella, di bufala, invece di metterci dell'olio di oliva, che sarebbe stata proprio la morte sua, qualora il panino fosse stato troppo secco, pugnalandomi silenziosamente al petto e commettendo uno di quei delitti che possono rovinar l'umore e l'appetito, ecco, ascolta un consiglio dal profondo del cuore: la prossima estate, per le vacanze, vattene in Francia.

Messaggio all'Eurozona

Ah, la saggezza popolare. Tornato ieri sera da una settimana in Italia, Google Reader dice 198 items da leggere. Sti cazzi. Foto scattata qui, qualche giorno fa.

Lo sbarco a Mechelen (e l'addio)

Prendere il treno per Mechelen che però passa per l'aeroporto principale di Bruxelles non è probabilmente la scelta migliore, però è comodo come orari, è nuovo, ha due piani, c'è sempre posto e fa solo due fermate: all'aeroporto e a Mechelen. Perfetto, pensavi. Poi però ti ritrovi ogni mattina in mezzo a chi sta per partire, mentre tu vai a lavorare. Soprattutto a luglio, partono per le vacanze, gli altri, mentre tu vai a lavorare. Va beh, pensavi. Intanto che valigie salgono, si moltiplicano, cozzano tra loro in conversazioni inconcludenti non fosse altro che per l'incompatibilità delle loro destinazioni, o forse dei padroni, disattenti, prendi posto tra chi ha già gli occhiali da sole pronti in viso e non per difendersi da un sole che, a quell'ora eppoi a Bruxelles, non potrebbe mai infastidire, né per nascondere un sonno ancora despota di movimenti e congetture, gli occhiali son già lì ma son per gli altri, un messaggio agli osservatori che si va in vacanza, al mare, gli occhiali son lì per te, che vai a lavorare. Bravo, pensavi. Poi c'è chi, tra il sorriso euforico di progetti indottrinati, non lascia la valigia per un attimo, con una mano, tra le gambe, mentre fissa qualche punto ignoto nel finestrino opaco e con la testa è già a destinazione mentre c'è chi arriva in gruppo, in quattro, già in festa, a far baldoria nel treno, come se l'imminente partenza desse loro il diritto innegabile a coinvolgere gli altri nell'euforia incontenibile, a coinvolgere anche te, che vai a lavorare, che volevi leggere un libro e invece no. Che bello non andar in vacanza con loro, pensavi.

Poi all'aeroporto, il vuoto. Il portellone del vagone vomita via chili di valigie e rumore mentre sinfonie di richiami, fischi e freni sbuffanti spingono lentamente il treno a riprendere la marcia, alleggerita non solo di persone ma anche d'altalene. E d'occhiali da sole. Ah, pensavi. I sedili del vagone sono lo scheletro che rimane quando la carne vien strappata via in pochi istanti: rimangono brandelli di sporcizia e tracce di un passaggio frettoloso, coperti da un silenzio alienante, perché insolito. D'improvviso riesci quasi a sentire anche il tuo respiro, mentre il treno sfreccia indisturbato verso Mechelen e i binari, meschini, cambiano rotta e dimensione, tagliando un paesaggio d'improvviso verde, di campagne belghe e orizzonti nuvolosi. Poi inizia il decollo affannato e la terra, laggiù, si fa piccola, sempre più piccola, fino a confondersi in mezzo a milioni d'asterischi, troppo lontani. Non c'è più ritorno, pensi. Quando la navicella spaziale atterra a Mechelen, dal vuoto della cabina si diffonde una tensione crescente mentre dall'oblò s'intravedono costruzioni aliene e agglomerati di materiali ferrosi. Sei solo, pensi. Il portellone che si apre automaticamente, premendo appena il pulsante luccicante, sfoggia fieramente il progresso umano raggiunto in un spiuuuffffhh un po' goffo ed ecco che due gradini meccanici fuoriescono imperiosi e si posizionano perfettamente in attesa del tuo primo passo mentre le due porte, imperiose anche loro, scompaiono magicamente ai lati, tra ingranaggi sofisticatissimi degni di quest'odissea nello spazio. Ci siamo, pensi. Piove, perché nonostante le mille teorie azzardate durante birre serali e concerti di parole sterili, anche a Mechelen c'è atmosfera e la pioggia, dunque, semina sui tuoi passi messaggi indecifrabili di attacchi alieni, mentre dagli altoparlanti si diffondono notizie di bombardamenti stellari tra accenti iracondi e dittonghi graffiati e la stazione aerospaziale è tutto un fremito di creature indescrivibili però frettolose, con cui non potrai comunicare per via di quel linguaggio extraterrestre ancora da studiare. Prima o poi, pensi. Poi, ripensi. Appena entri nella navetta spaziale che ti porterà a destinazione ti accorgi di quanto insensate siano stati tutti quei racconti fantascientifici sulle tecnologie aliene se ti trovi d'improvviso in quel pianeta lontanissimo ma in effetti, infine e dunque, sei in un autobus. E l'autista adatta la sua lingua, in una che capisci, e ti sorride perché ti riconosce, dopo un mese di viaggi interplanetari. Domani partirai per le vacanze, anche tu, ma senza occhiali da sole, e al ritorno non dovrai più arrivare ogni mattina su quel pianeta recondito però familiare, che ti ha dato una certezza in più: gli alieni sono buoni.
L'interno della navicella spaziale, quando gli occhiali da sole scappano via per le vacanze e resta il vuoto. Poi, le stelle.

Piove, ma che importa

Cose che solo a Bruxelles, direbbe qualcuno. Piove, anche se dalla foto non si direbbe, ma si continua a bere e chiacchierare con gli amici, aprendo l'ombrello, all'aperto. Piove, ma che importa. Che tristezza, direbbe qualcuno. Che bello, che ottimismo, direbbe qualcun altro: a breve smetterà di piovere. Foto scattata qui, qualche ora fa.

Come i bicchieri rotti del bar

Non sono quelle chiacchiere attente quando gli occhi impegnati seguono movimenti veloci delle labbra e smorfie artistiche si adattano all'esclamazione incredula del momento né le risate in coro di chi guadagna il suo attimo di protagonismo grazie ad una battuta ben riuscita mentre intorno al tavolo si riuniscono umori spensierati. Ci sono sguardi, nella confusione inesauribile di un bar, che si perdono nei dettagli insignificanti di una sedia, l'inquadratura furtiva di una finestra, le mani di uno sconosciuto, e ci sono parole che cadono mal comprese, a chi domanderà di ripeterle si risponderà con una menzogna leggera, con altro, velocemente, di meno importante; ci sono gesti, di chi inghiotte memorie nel sorso di una birra amara, e ci son fughe, di chi va incauto in bagno soltanto per riappropriarsi di qualche secondo d'intimità. Ci sono cose, nella confusione incessante di un bar, che fanno parte del sottofondo di rumori, musica ed espressioni, che ne arricchiscono l'immagine anche se superflue, inutili e impercettibili, ma son sempre lì, come i bicchieri rotti del bar, fanno parte dell'ambiente in quest'anarchia di dettagli preziosi però fugaci, però veraci e, quando te ne accorgi, quando sei prigioniero di uno di loro, però rapaci. Bisognerebbe diffidare di quei bar in cui non si ascolti mai, tra il mormorio continuo della gente, lo scontrino inzuppato sul bancone e la prossima comanda con il dito alzato, quel suono acuto però abituale di bicchieri rotti subito ignorati, di domande frantumate prontamente rimpiazzate da nuove colme di interrogativi, e di frammenti, quelli nostri, seminati involontariamente, magari raccattati da qualche cacciatore di particolari che li farà suoi, nel tempo di una metafora, per poi spargerne di altri e lasciarli all'atmosfera della serata, cui appartengono, come i bicchieri rotti del bar.

Second skin

Ci sono due città, a Bruxelles. In realtà sono più di due. Mi domando quanto si conoscano.
Foto scatta qui, se ricordo bene.

Alla ricerca dell'italianeità perduta

Ma quanto ci vuole per fare un fumetto che sembra qualcosa di accettabile? Questa volta
prima a matita, poi ricalcato e infine digitale, troppo tempo. Anyway, godetevi il bidet :)

Ti voglio bene, nonna

Quando al telefono ti dico che ci vedremo tra qualche settimana ma che sarà soltanto per una settimana e che no, non starò lì, a sud, ad agosto, quasi ti prende un colpo, nonna, se per un attimo il tuo acuto è riuscito ad attraversare anche il più impensabile tunnel gelminiano dal Cilento a Bruxelles, e perforare rapace i timpani innocenti del vicino di casa, soltanto perché per te, nonna, non è normale che io lavori ad agosto, tutto il mese d'agosto, come se poi fosse ancora la normalità, prendersi addirittura un mese di ferie e non lavorare ad agosto, come se in questi tempi di crisi irrisolvibile e disoccupazione rampante fosse ancora uno degli ambiti traguardi, un mese di ferie ad agosto, come se poi quella sorta di tradizione italiana si dovesse applicare inderogabilmente anche a me che vivo fuori, dove agosto non è lo stesso agosto, per fortuna, e non devi immaginarmi qui ad immolarmi eroicamente in un ufficio deserto soltanto perché, ad agosto, sarei di colpo stacanovista ammirevole, immigrato sofferente, ma poco importa perché tutto il mondo è il tuo orticello, sintetizzato e semplificato, nonna, e in applicazioni banali d'equazioni elementari tutto il mondo si dovrebbe fermare, ad agosto, non perché faccia troppo caldo o perché secondo teorie dubbiose non varrebbe neanche la pena lavorare, se tutti gli altri vanno in ferie, ad agosto, ma semplicemente perché è agosto ed agosto, nonna, nei tuoi schemi fa rima con vacanza, degli altri, nelle tue abitudini non si colora di lavoro e come pilastri biblici è una verità per fedeli devoti che non si discute nemmeno nel tuo orticello, figuriamoci per telefono.
In realtà non c'è logica nella leggerezza delle tue affermazioni memorizzate, nonna, quasi fossero intercalari che parlano di tradizioni e passato, impregnati di ricordi quasi centenari e legislazioni di luoghi comuni, come frasi aggiunte a condire un copione già recitato, ma bello da ripetere, come ritornelli a riempire silenzi altrimenti stonati. E sbaglio, a farmela poi tornare in mente, quella domanda leggera sul mese d'agosto, con un sorriso sottile che nasconde una tua immagine nella smorfia accennata, sbaglio perché era una domanda che non cercava nemmeno risposta, era un pezzo di sud, era un pezzo di te, nonna, che un giorno racconterò a chi spero tu possa vedere, era una di quelle frasi che, se poi non me l'avessi detta, ci sarei forse rimasto male. E ti voglio bene anche per questo, nonna.