Dietro a un tricolore

Poi ti ritrovi nel sud della Germania durante il fine settimana, in una terra natia che però non ha che confuse memorie nella mappa delle associazioni d'appartenenza, a tavola in un ristorante italiano di proprietario cilentano, ti ci ha portato tuo zio, convinto di farti piacere, come se ti potessi riconoscere nel menu di parole tedesche e decorazioni stereotipate, come se avessi bisogno di un cameriere dai lineamenti turchi per sentirti meno straniero nella città natale, a riepilogare durante il pranzo nomi di parenti e stati di salute ma anche, e con curiosità, episodi passati d'emigrazioni difficoltose, quelle sì, della valigia di cartone, dei viaggi interminabili in treno all'impiedi, dei letti sempre caldi e l'immancabile desiderio di ritorno. Non c'è mai odio, nelle parole d'emigranti invecchiati, come se il tempo addolcisse anche la rabbia più radicata o trasformasse in rughe le delusioni più ricorrenti, fino a confonderle con le pieghe di un sorriso.

Quando entri con fare sospetto nella camera di tuo cugino, nato e cresciuto lì, in quella che per lui sì è terra natia ma che probabilmente non sente sua, a giudicare dal tricolore appeso al muro, protagonista nella stanza, ti accorgi subito che c'è un pezzo di patria incompleta. No, non ti emozionare, tu nazionalista da bar felice di quei colori né tu millantatore di paesi più belli del mondo inebriato dalle sviolinate di Benigni, perché quel tricolore è sì la bandiera dell'Italia ma non è, lì, l'Italia. Mentre tuo cugino lacera senza sosta il suono di parole con accenti sbagliati e non smette di bastonare la lingua italiana ad ogni imperfetto - per non parlare dei periodi ipotetici - lo sguardo ti ricade sul tricolore alla parete, che lì no, non è l'Italia del 2013 ma quella idealizzata dai genitori emigranti, quella immaginata da racconti paterni di memorie lontane o ricostruita in vacanze annuali ripetute come le ricette di piatti tramandati, sempre ottimi al palato però immuni a cambiamenti, esperimenti, evoluzioni. E tuo cugino lotterebbe a sangue per quel tricolore, probabilmente, anche se non potrebbe parlarne senza cadere in luoghi comuni e mancanze banali, non saprebbe descrivere l'Italia di oggi né elencare più di due nomi di chi l'ha fatta grande nel passato o piccola nel presente. Sai benissimo che, se i suoi genitori fossero stati greci, per esempio, quella bandiera avrebbe colori distinti ma immutato amore, perché, appunto, quel tricolore non è l'Italia in quanto tale, ma soltanto il sogno di una patria mancata, trasmessa fin da bambino ad ogni carezza e sviluppatasi in contrasto alla patria degli altri, quella tedesca dei compagni di scuola, quella straniera dei programmi in tv, quella che non riuscirà mai a sentire totalmente sua (ma sarebbe, poi, sua davvero?) perché nel terreno degli affetti e degli orgogli trapiantati ci son sempre state anche radici italiche, a metà strada tra un'integrazione ostacolata e una diversità compiaciuta.

Mentre lasciavi per l'ennesima volta quella terra, nei pressi di Basilea, dove basta alzarsi sulla punta dei piedi per scorgere la Francia, lì a destra, e la Germania, lì alle spalle, e la Svizzera, davanti a te, crocevia d'esperimenti europei, ripensavi a quel tricolore appeso in camera, a quel cordone ombelicale come un pezzo di cultura perpetuato, e alla patria, quella con cui ci vestono da piccoli, quella che invece ci piace indossare, quella che gli altri ti attribuiscono naturalmente e quella che, a volte, si scorge nelle vetrine un po' ammaliati. E no, non sempre è la stessa. Per fortuna.

Di belgi italiani

Un articolo pubblicato su De Standaard, giornale fiammingo, riporta una simpatica e chiara testimonianza di quanto gli italiani siamo oramai parte del tessuto sociale belga, soprattutto quello francofono, dall'epoca dei ritals ad oggi. Kroll, genio e vignettista de Le Soir, descrive così l'italianità del Belgio del sud e siccome è una simpatica lettura, ve la traduco qui:

Molti valloni hanno votato la scorsa settimana. Non lo sapete? C'erano le elezioni in Italia e quindi un po' anche in Vallonia!
Gli italiani, in Vallonia, sono come la carne di cavallo nelle lasagne: ce n'è molta e a tutti i livelli. Adesso che Elio Di Rupo è primo ministro è addirittura marcato in grande sulla confezione.
Non vi racconto di nuovo la storia. La conoscete: son quasi tutti figli di minatori a parte i figli dei gelatai che son ancora gelatai.
A parte i meandri delle foreste delle Ardenne, il carbone ha fatto della Vallonia una specie di OGM italo-belga. Ne parlo spesso con il padre del mio figlioccio, Roberto, quando mangiamo al "Veneto" o a "La Cantina". Quando pranzo da Paolo a "La Strada" o a "San Daniele" con Gino, è più triste perché è il padre della piccola Melissa assassinata da Dutroux. Allora ridisegniamo il mondo come vorremmo che fosse bevendo della grappa mentre lui mi parla di calcio. E, come quando telefono a Christophe Berti a Le Soir o a Thierry Fiorilli al Vif-L'Espress, devo scusarmi del non sapere che la Juventus ha vinto domenica.
Il calcio, non m'interessa più. Eppure ne ho prese di sbronze allo Standard nella loggia di Luciano D'Onofrio, il proprietario, per non parlare del padrino, quando suo fratello Domenico, l'allenatore, mi spiegava la partita. Non c'è più la stessa atmosfera con il freddo miliardario di Saint Trond, che ha acquistato il club. A volte son ancora invitato da Francois Fornieri, il boss di Mithra Pharma, manager dell'anno un anno fa. Che guadagni che ha fatto con le sue pillole contraccettive! Più di suo fratello che importa olio di oliva!
Si dice che siano state le donne a far restare gli italiani qui. Le loro che han fatto venire da laggiù o forse le belghe che amavano le loro canzoni napoletane. Devo ricordarmi d'invitare Salvatore Adamo. Son già cinque anni che lo devo invitare. Gli italiani e la canzone in Vallonia sono qualcosa di sorprendente. L'unica volta che il Belgio ha vinto l'Eurovision, è stato con Sandra Kim. In televisione "The Voice", dalla parte francofona, è stato vinto da un italiano, Roberto Bellarosa, davanti ad un.. italiano, Renato! Perché? Perché alla fine è il pubblico che vota in televisione. Quindi, se non avete una famiglia abbastanza grande che viene dalla Puglia o dalla Calabria, beh dimenticatevi di poter vincere.
Tutto ciò fa ridere il mio parrucchiere Bruno, che s'informa sempre delle ultime novità su di me e sulla mia Vespa.
Con la mia discreta notorietà, se un giorno mi facessi eleggere al parlamento vallone, sarebbe giusto per sedermi a lato di Veronica Cremasco, deputata, in modo che mi possa raccontare ancora come suo padre e i suoi cinque zii hanno lavorato nella siderurgia... tutti, tranne Ido, l'ultimo, che divenne giocatore professionista al Fc Seraing! Se volete leggere (o tradurre in fiammingo, chissà?) una di queste storie di famiglia: leggete "Tutto questo silenzio" di Veronica Gallo, un'umorista ma molto toccante.
Beh, devo trovare un modo per concludere questo testo, servendomi un bicchiere di limoncello. Il mio vicino, il professore D'Orio, preside della Facoltà di Medicina a Liegi, se lo fa da solo.
Ho trovato.
Da qui, si dice che le Fiandre vorrebbero essere sempre più fiamminghe. Fate come più vi piaccia. Noi, i Valloni, abbiamo già scelto... saremo più italiani.