E tutto si copre di neve

Eravamo in tram ieri, lungo la linea che costeggia il Palace Royal, di ritorno dalla burocrazia intricata della villa comunale per l'ennesimo appuntamento per ottenere l'identificazione come immigrato residente in Belgio, quando d'improvviso tutti a fissare fuori piccoli e leggeri fiocchi di neve scendere danzando, fluttuando nell'aria gelida come in un liquido denso e calmo, e sciogliersi al contatto con il mondo. Dopo poche ore Bruxelles si era già coperta di un manto bianco e soffice, quando la neve ha aumentato intensità e dimensioni ed ha iniziato ad abbracciare qualsiasi oggetto. Sui marciapiedi ecco comparire le impronte dei passanti intrecciarsi e perdersi sull'asfalto, ma non come le tracce di gabbiani sulla spiaggia, non leggere e guidate dall'istinto, non romantiche e gradevoli alla vista: le impronte impresse erano di fretta e stress, ognuno ad inseguire il proprio destino, dalla stazione al taxi, dall'ufficio al pranzo, dall'appuntamento al bacio, trascinando una valigia, sistemando meglio la sciarpa, lasciando un messaggio in segreteria alla chiamata necessaria.
E tutto si copre di neve. Dei tetti delle case si perde il colore, di bianco rimane il panorama per distanze e direzioni, di bianco risplende il prato quando un bambino saltella allegro per la novità inattesa mentre cala il caos su Bruxelles per il clima non previsto e la metro ritarda, i taxi non rispondono alle prenotazioni, il bus va a rilento lungo strade improvvisamente sconosciute. Ma come una magia, ieri la notte non sembrava voler oscurare gli orizzonti ne' brillare delle mille luci delle finestre prima di dormire: tutto sembrava riflettere il bianco nevicato e come una luce soffusa, debole ma omogenea, tutto acquistava un giallognolo notturno, di silenzio e quiete. Non importa se dalla finestra aperta entrasse gelo e neve in camera, osservare quella fiaba naturale, una Bruxelles diversa ed ammaliante, poteva rubare ore ed ore lasciando che il tempo si mescolasse ai pensieri mentre lo sguardo si smarriva, beato.

Non volevo quasi preparare la valigia dopo la giornata di ieri, dopo la neve e la sorpresa, e vivere la città dei suoi nuovi colori e paesaggi. Ma oggi parto verso sud, per il solito viaggio natalizio che vacanza non e', ma immersione di abbracci e ricordi, amarezze ed incomprensioni, sorrisi e pensieri. Poi si riparte di nuovo, ancora un po' più a sud, prima di tornare in questa Bruxelles che ti conquista con il tempo. Ma intanto buone feste, buon sorriso a tutti, io ritorno il nuovo anno.

Yann Tiersen @ Bruxelles

E cosi' a pochi metri di distanza e tanti brividi lungo la pelle, mi son ritrovato due sere fa ad assistere alle performance live di Yann Tiersen a Le Botanique qui a Bruxelles, dopo anni di cuffie ed occhi chiusi, camere ombrose e melodie nell'aria, finalmente ascoltare il suo talento dal vivo, in una sala non affollatissima, quasi per pochi intimi, in silenzioso rispetto a trattenere il fiato, esplodere in un applauso, lasciare che quelle note s'impadroniscano dell'essere per un lasso di tempo breve ma intenso, a dimenticare la scrivania dell'ufficio, il freddo della strada, le mille cose da fare e rifare in cicli casalinghi forse infiniti.
Lui tra il timido e l'indifferente, un saluto sommesso all'inizio ed uno veloce alla fine e poi susseguirsi di brani quasi inattesi, di musica dai suoni elettronici che ha colto molti di sorpresa, alcuni addirittura a tapparsi le orecchie quando le sue mani saltavano da una parte all'altra del piano come a guerreggiare contro un impulso improvviso di distruzione. Ma poi tutti zitti ad incantarsi, quando con il violino non c'è rivale che tenga, quando non si produce melodie ma magia, come in questo piccolo video che son riuscito a fare a due metri dal palco:


Mentre il gelo si fa avanti

Recentemente quando la mattina esco di casa imbalsamato tra sciarpa e guanti, il prato del giardinetto di fronte e' a chiazze bianche e verdi, ricoperto di un sottile manto di ghiaccio formatosi durante la notte cosi' come sui tetti delle case, basse non più di quattro piani e caratterizzate dai loro tagli netti in verticale, una sul fianco dell'altra, come in fila stretta e ammucchiata, come agli attenti davanti ad una strada sempre poco trafficata. E se le temperature son scese sotto lo zero da diversi giorni, le strade invece si riscaldano di addobbi natalizi, quasi in ogni piccola piazzola spuntano pini a festa o colori e luci sugli alberi già presenti da decenni, testimoni di evoluzioni della capitale di un'Europa in cerca di identità, mentre dalla facciata est della commissione europea, il palazzo Berlaymont, si stende il telone enorme degli auguri di buone feste in tutte le lingue del continente.
Le vetrine repentine cambiano attore nel giro di pochi giorni, da San Nicolaus si passa al più commerciale e globalizzato Babbo Natale, dalla santità dedicata per lo più ai piccoli si passa al padre comune rosso di coca cola. Cosi' i bambini belgi faran scorta di regali, i più fortunati e speranzosi che avran inviato una lettera a St Nicolaus riceveranno dalle poste belghe una scatola di cioccolatini: anche qui come in tanti altri paesi le letterine ai protagonisti del Natale non vengono cestinate ma raccolte con cura e alla prime migliaia si inviano anche delle praline, in fondo siamo nella patria del cioccolato:)
Durante i fine settimana e' praticamente impossibile passeggiare per la Grand Place ed alcune vie del centro, tra la folla di turisti immancabili e la marea di acquisti da fare, regali da inventare, soldi da spendere per la sola soddisfazione di un sorriso magari stimolabile con molto meno. Meglio un bicchiere di vino caldo, in uno dei mercatini allestiti, e lasciare che il fiato incontri il gelo a disegnare la solita nuvoletta di vapore e pensieri, mentre orecchie e naso si fan rossi per il freddo senza sosta e la mano cerca altra mano, per compagnia, per calore, per benessere, ah eccola, ora sto già meglio.

Da quel letto d'ospedale

Da quel letto d'ospedale magari penserà agli ultimi sei mesi, con un po' di riposo, la calma ed il silenzio di un vecchietto colpito, magari ricorderà gli ultimi avvenimenti come un'onda continua di eventi da prima pagina, faranno male le ferite ed il colpo recente d'un odio ingiustificabile, saranno ancora freschi i segni di una notte che non si può cancellare ma che non diventi nuova arma nelle mani della propaganda, che non diventi buono spunto per vittimismo e richiesta di consensi: son sbagliati i ma di Di Pietro come il terrorismo di Bossi e non ha senso diffondere odio inutile a causa d'un inutile odio.
Da quel letto d'ospedale magari penserà a tutti i comizi ed i discorsi dagli ultimi convegni, ai continui attacchi ai giornali ed alla magistratura ed a come anche quelle sue parole ripetute, anche quel tormento incessante avrebbero potuto influenzare qualcun altro ad un altro inutile odio magari contro un giornalista, magari contro un magistrato; per i toni e le maniere, per le urla e la foga con cui senza sosta si e' cercato di persuadere il popolo ad acconsentire a leggi personali e sfascio del paese, richiamare consensi nei momenti più duri e fomentare sentimenti sicuramente non politici dalle conseguenze poi senza senso.
E magari da quel letto d'ospedale penserà ad abbandonare alcuni temi ricorrenti, forse smettere di violentare una democrazia per i propri interessi personali, per salvarsi da una corte ed un giudizio che gli fan paura ma son doverosi; che non sia un altro visconte dimezzato di Calvino che dopo il colpo si sdoppia ed a tornare e' solo l'odio ne' un altro Mussolini che dopo gli attentati sapeva ben manipolare gli eventi per approdare a nuove leggi, che non torni all'attacco a dimostrare o meglio a tentare d'essere un super uomo che a 73 non c'è più, che non accumuli rabbia in quel letto d'ospedale, non stringa troppo forte i pugni.
Da quel letto d'ospedale, mentre la luce del nuovo giorno penetra timida e silenziosa nella camera e fuori alla porta si accalcano voci, sorveglianze e lavoro, magari un umore nuovo, magari un po' più di rispetto, senza magie ne' rivoluzioni, ma solo la consapevolezza di certi limiti.

Augusto Fede o Emilio Minzolini?

E il dubbio sorge davvero spontaneo, perché non si capisce da quale verso stia nascendo la metamorfosi, il risultato pero' non e' certo di bella apparenza, perché il nuovo Emilio Fede dalla testa lucida e le movenze un po' più delicate, oramai non perde occasione per schierarsi dalla parte del governo che manovra la televisione pubblica, questa volta accusando chi aveva portato ai primi titoli le dichiarazioni di Spatuzza. Semplice ma brillante la domanda di Gilioli: ma se le parole di un sicario son tutte bugie, perché mai quelle del mandante dovrebbero essere tutta realtà? Questo ovviamente non interessa a Minzolini, che trovato l'evento su cui far leva per schierarsi verso il padrone, si lancia immediatamente in uno dei suoi editoriali da minzolinismo.


Faccio sogni assurdi

Da quando sono a Bruxelles faccio sogni assurdi e non ne conosco per nulla il motivo, sarà stato il cambiamento, sarà soltanto una coincidenza, un periodo, ma molti dei sogni son complessi e lasciano sempre un po' perplessi al risveglio la mattina, quando mi ritrovo con ricordi confusi, immagini sovrapposte. Nel lettone immenso che abbiam comprato all'Ikea e' ogni notte una immersione completa in un mondo che non c'è, in un pozzo profondo e buio nelle memorie celebrali miste agli stimoli della giornata e qualsiasi altra connessione possibile tra un pensiero e una paura, una voce ed un racconto.

E cosi' se una volta son stato una spia in un complotto mondiale per sovvertire non ricordo quale impero nascente, in un altro episodio vestivo la maglia dell'Inter mentre perdevamo 5 - 2 a Manchester, contro lo United, diretti dal Mancio, a 20 minuti dalla fine decide di farmi finalmente entrare, io gli chiedo di far entrare anche Roberto Baggio, Baggio non vuole, gli faccio un massaggio al quadricipite e alla fine lo convinco. Dopo 2 minuti faccio un assist a Milito che la butta dentro, incredibilmente faccio un goal su un corner e a 2 minuti dalla fine Roberto Baggio sigilla con una punizione da manuale del calcio il pareggio impossibile: tutti ad abbracciarci per il 5 - 5. Fischio finale. Abbiamo pareggiato! Rissa in campo, quelli dello United non accettano il verdetto, tafferugli ovunque e nel caos totale iniziano ad inseguirmi Rooney e Vidic, io corro con tutto me stesso, il campo scompare, siamo sugli scogli del porto di Agropoli, dove vivo in Italia, loro cadono in qualche buco negli scogli e muoiono. La mattina dopo mi chiama Capello nero di rabbia perché con quel Rooney avrebbe vinto la coppa del mondo con l'Inghilterra. Poi mi sveglio, decisamente confuso.

Nel sogno dell'altro notte ero con la mia ragazza ad Agropoli, a casa coi miei ma erano i miei di 10 anni fa e tutto era trasportato indietro nel tempo: la casa, la cittadina, le persone. Da un giorno all'altro abbiamo un bambino, ma il bambino nasce già di 3 anni, per noi e' una cosa normale e nessuno si chiede come mai quel bambino non fosse nato come gli altri ma già di 3 anni. In più il bambino nasce già con un nome. Si chiama Davide. Davide già parla spagnolo ed italiano ma a me non va che non parli inglese perché a 3 anni ancora non parlava inglese e non riuscivo a convincermi di questo, come mai un bambino a tre anni non parlasse già inglese. Davide cresce e dopo un mese inizia ad assomigliare ad un mio amico morto qualche mese fa. Ad un certo punto mi chiama Silvio: gli dico di non chiamarmi più con il nome di un mafioso. Un giorno mentre mio padre discuteva con mio zio, ascolto che parlano di un bambino smistato, che stavano trafficando bambini e che quello che avevo non lo aveva avuto dalla mia ragazza ma mio padre lo aveva portato facendoci credere che fosse il nostro. A quel punto esplodo, inizio a lanciare sedie in aria, ad urlare che un bambino non e' un prodotto. Me ne vado davanti ad una casa, e' notte, dalla porta esce George Bush in accappatoio che prende il giornale lasciato sul tappetino e parliamo dell'accaduto. Mi dice che anche sua figlia non era sua figlia e che poi lo ha scoperto ed e' successo un casino, ma almeno lei già parlava inglese. Cala il silenzio e insieme attendiamo l'alba. Poi mi sveglio, ovviamente turbato.

Come dovrebbe essere ovunque

- Ho bisogno di un medico ma non ho un permesso regolare di soggiorno. E' un problema?
- No, se hai bisogno di cure mediche il resto e' secondario. Accomodati pure.

Ecco, sarebbe davvero bello se fosse ovunque cosi'.

p.s. poi pero' il sito internet e' soltanto in francese e nederlandese..

No Berlusconi Day, Bruxelles

Si e' concluso qualche ora fa il No Berlusconi Day di Bruxelles e manca la voce, brucia la gola, le mani ancora rosse del freddo e della pioggia, ma non importa, ne e' sicuramente valsa la pena, l'impegno, la voglia di manifestare, di essere presenti, di urlare il dissenso e condividerlo con gli altri. La gente che uscendo dagli uffici per la pausa pranzo ci guardava un po' confusa proprio nei pressi del Parlamento Europeo, chi si affacciava curioso dalle finestre ad ascoltare quel nome ripetuto, urlato, gli operai distratti dai tanti cantieri intenti a far spazio a nuove scrivanie e burocrazia, i taxisti forse nervosi e chi nella solita fretta in macchina ad attendere la fine del nostro passaggio, i passanti di fronte al palazzo Berlaymont di nuovo a sentire quel nome in coro, in ritornelli, sempre accompagnato da un grande no, di continuo contrapposto alla parola onestà, e tutti coloro che quest'oggi han assistito al nostro corteo, magari avran soltanto scosso la testa, magari già sapevano e avran sorriso alla nostra voglia di cambiare, forse avuto più di un dubbio, ma sicuramente avran visto un trecento persone gridare il nome di Berlusconi, gridare al processo, alla legge, alla democrazia civile. Non e' poco. Non e' stato inutile.



 
Quando siamo partiti da piazza Meeûs un po' confusi, un po' infreddoliti, si e' subito trovata la carica e la voglia, la voce ed il calore di tutti. Arrivando alla rotonda di Schuman, di fronte al Berlaymont, eravamo tutti un unico coro e quel nome ripetuto, urlato, canzonato, caricava ogni gola, ad ogni data, ad ogni processo, ad ogni prescrizione, ad ogni legge ad personam, si alzavan le grida di più di una generazione, quasi volessero arrivare alla patria lontana, quasi volessero giungere ai palazzi di Roma, alle orecchie di chi sicuramente volterà le spalle e risolverà tutto in una battuta dalla simpatia discutibile, consapevole pero' che li' fuori qualcosa sta cambiando.




Ho gridato tra la folla, mi han dato il megafono ed ho addirittura guidato il corteo creando motti e rime, attirando l'attenzione della gente, diffondendo le motivazioni della manifestazione, ma tutta quella foga, tutto quell'entusiasmo, si son come quietati, in silenzioso rispetto, quando negli ultimi momenti prima della chiusura, una signora ha portato dal suo ufficio due foto, due persone, con una pacatezza ed un sorriso unico, due presenze che non dovremmo mai dimenticare, come monito, come esempio, come qualcosa che sicuramente oggi manca e tanto.

Sciacallaggio mediatico

Sarebbe bello se davanti a queste immagini La Repubblica chiedesse scusa, il Corriere chiedesse scusa, addirittura Saviano chiedesse scusa, il Giornale chiedesse scusa, cosi' come tutti coloro che come avvoltoi si son lanciati ad accusare e criticare il popolo napoletano per una indifferenza che in realtà non c'è stata, per una assuefazione a fatti di cronaca cosi' sconcertante che in realtà scompare nella versione integrale del filmato ma che di fatto si ha voluto diffondere, gridare, in tutto il mondo. Non e' soltanto un caso di cattiva informazione, tutto ciò e' stato puro sciacallaggio ("la parola sciacallaggio, si riferisce a chi depreda la proprietà altrui in occasione di catastrofi o altri eventi eccezionali") di dignità, rispetto ed amor proprio per chi vive in realtà sicuramente non facili, per chi probabilmente non e' senza peccato, ma non può essere dipinto alla stregua di animali, non può, non merita.


Figlio mio, lascia questo Paese

Cosi' s'intitola la lettera del direttore generale della Luiss verso suo figlio, lettera che trasuda amarezza, rimorsi, impotenza. In poche righe la sofferenza di un padre nel raccontare il mondo che aspetta un neolaureato, lo scenario di un'Italia che vorrebbe diversa, che vorrebbe matura, ma che sembra deludere quando meritocrazia ("di carriere feroci fatte su meriti inesistenti"), corruzione ("Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni") e mentalità ("Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali") vengono ai commenti, come ricordi o soltanto conoscenze della vita di un padre e le speranze verso quella di un figlio. Come se lo sforzo di un genitore divenisse il fallimento di una generazione ("Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito"), come se andare via fosse l'unica soluzione possibile ("Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero"), come se intorno fosse davvero una giungla, una lotta, una guerra impari ("trovarti emarginato senza capire perché").

Leggere una lettera del genere dopo due anni all'estero e' un susseguirsi di ricordi, pensieri, osservazioni, e' un groviglio mentale di consensi e negazioni e probabilmente non potrebbe essere altrimenti, perché andare all'estero e' cosi': sarai altrove con il corpo ma creando un fantasma dove il corpo non sarà. Cosi' vivere un'esperienza diversa, conoscere nuovi mondi, ridere e gioire per orizzonti mai immaginati, avere più soldi in tasca, imparare nuove lingue e culture sconosciute, trascinerà sempre con se' i ricordi e gli interrogativi, della vita che si e' voluto cambiare, della vita che non si e' provato a sfidare, dei sorrisi degli amici che come in una foto son rimasti ancora li', degli abbracci familiari che come in un sogno son sempre caldi ma lontani, della propria terra che in un respiro si vorrebbe sentire di nuovo nel corpo. E poi e' vero ("Probabilmente non sarà tutto oro, questo no"), andare altrove non significa altro pianeta, ma soltanto cambiare degli schemi, lasciare compromessi mal sopportati e indossarne altri inattesi: perché va cosi', libertà non e' fare tutto ciò che si vuole, ma far ciò che si vuole nel rispetto degli altri e allora ci saranno sempre schemi e compromessi che per quanto elastici possano essere, saran sempre compromessi. Poi li si prende, li si somma, li si misura sulla propria pelle, li si  pesa sulla propria bilancia, e li' i compromessi sposteranno la lancetta del sorriso, magari sarai finalmente felice, magari no.

Non so cosa dirò a mio figlio un giorno, caro direttore generale della Luiss, non so dove sarò e quanti altri errori avrò commesso per averne esperienze di guadagno e saggezza di riflesso. Chiudere una valigia non e' come buttare qualcosa nel cestino: si butta qualcosa di superfluo, qualcosa di cui non si ha bisogno o qualcosa che si può trovare nuovamente, che si può comprare o costruire col tempo. Chiudere una valigia non significa cancellare, dimenticare. E allora cosa fare? In quella sua conclusione ("Preparati comunque a soffrire"), caro direttore generale, in quel suo "comunque" finale c'è tutto ciò, il suo affetto paterno misto d'amarezza suggerisce altrove, altrove son andato anch'io ma non dirò mai "vai via perché e' meglio", non farei mai del mio meglio il meglio di tutti, perché nella mia bilancia ho equilibri sottili e ora son felice ma non posso non rispettare il sorriso di chi rimane. Ecco, caro direttore generale, la devo ringraziare, ho capito che il mio meglio e' come un egoismo ipotetico, me lo tengo per me, e' mio, ma cosi' facendo capisco meglio quello degli altri e imparo a rispettare tutte le scelte, soprattutto quelle opposte.

Bruxelles natalizia

Come ogni capitale dell'era del consumismo, anche Bruxelles decora le sue vetrine di colori accesi e addobbi natalizi con un bel po' di anticipo sulla festività, illuminazioni e fogliame intrecciato ad archi abbelliscono le strade principali ad accompagnare i consumatori nelle loro corse ai regali, ai sorrisi effimeri nello spendere per il gran giro dell'economia, ai turisti come sempre numerosi che aggiungono all'atmosfera i mille flash dei ricordi per ogni foto scattata. Ma Bruxelles e' città decisamente viva e Natale sembra non significare soltanto consumismo d'assalto, per fortuna.
Cosi' come nei mesi estivi gli eventi organizzati si susseguivano con frequenza altissima ed ogni fine settimana si poteva assistere ad un concerto d'ogni genere rendendo l'estate brussellese un gran bel movimento, anche adesso per la santa natività non si smentisce con il Winter Wonders 2009. E cosi' una marea di chioschi spunta un po' dovunque al centro della città, intorno a Bourse, in place Sainte-Catherine, dove sorge all'improvviso una pista di pattinaggio sul ghiaccio al posto della grande fontana e tanta gente a bere un bicchiere di vino caldo girando tra i 240 chalet, cercando di evitare ragazzini che corrono a zig zag, fermandosi ad ogni chiosco come affacciarsi da una finestra sempre diversa.



E non importa se piove quasi ininterrottamente da una settimana (sigh!), un manto di ombrelli in movimento copre le stradine dai sampietrini bagnati, chi con un cono di frites in mano, chi con una cioccolata calda, chi cercando di mordere il waffle enorme, arrivando in Grand Place e trovando il gigantesco albero di natale e la villa comunale trasformata in un teatro fiabesco di luci e colori.


E proprio li' a sorpresa sabato sera abbiamo assistito al light show organizzato: la clip vale più di mille parole, ma tra vento, ombrello e freddo, non e' decisamente un granché. Lo spettacolo pero' merita sicuramente d'esser rivisto, per l'atmosfera generata, per il buon umore trasmesso, per un sorriso in più condiviso, passeggiando per questa Bruxelles dal manto natalizio.

Duemilatrecento pantofole

Lui, in ufficio a bassa voce verso la cornetta, con la mano un po' a nascondere come se le dita fossero un filtro efficace "allora? hai visto la ricevuta del mio ultimo acquisto? L'ho lasciata lì in cucina, sul tavolo!"
Lei, voce dolce (appena svegliata) di quelle che solo a sentirle ti rilassi come quando ascolti quelle canzoni speciali (quelle lì che piacciono tanto a te) o ad occhi chiusi aspetti che il cioccolato ti si sciolga in bocca "Sì.. ma.. non ho capito bene, c'è scritto che hai comprato delle pantofole da internet o sbaglio?"
Lui, senza muovere le dita con gli occhi lancia uno sguardo intorno come una sentinella che non vuol divulgare l'importantissimo segreto "sì, esatto, proprio quella. Allora? Hai visto quante ne ho comprate?"
Lei, crucciata un po' nel sopracciglio destro mentre l'altro si domanda se assecondarlo "No, non ci ho fatto caso, perché? Aspetta.. No.. non ci credo.. cioè, tu.. ahahaha qui dice duemila.. duemilatrecento pantofole!?"
Lui, finalmente con un sorriso dietro quelle dita un po' impacciate "Sì, e' giusto!"
Lei, dalle sopracciglia ora in discesa ed il viso come una bambina "Ahahaha hai comprato duemilatrecento pantofole? Ahahaha non riesco a crederci.. e.. e perché?"
Lui, come a dire la cosa più ovvia e semplice del mondo "Ecco, proprio per questo, volevo soltanto farti ridere, niente più, poi quando le pantofole arrivano.. le butto".

E poi mi son svegliato. Basta, la tequila non la tocco più quando si esce con gli amici francesi.

Un'Europa di Mohammed

Leggendo il metro questa mattina tra il sonno che gocciolava negli occhi e la testa ancor un po' pesante delle coccole del cuscino, in un angolino si riportava la notizia dei nomi più comuni in Belgio relativi alle nuove nascite: nella regione di Bruxelles il nome Mohamed spadroneggia senza rivali. Passeggiando per il centro, utilizzando i mezzi pubblici, vivendo insomma la città, la percezione tende a confermare questa statistica, della presenza massiccia di immigrati intorno, senza pero' cadere nelle facili paure dell'avvento di un'Eurabia. Ma Bruxelles non e' certo una eccezione in Europa. A quanto pare negli UK il nome Mohammed e' secondo soltanto a Jack nella classifica dei più popolari (pur se in tantissime varianti da Mohammed a Muhammad, da Mohammad a Muhammed e cosi' via). In Francia, Mohammed ha surclassato ben cinque volte il tradizionale nome François. In Olanda, tra Amsterdam e Rotterdam al nome Mohamed potreste contare chi non si volta tra quelli che riconoscono il proprio nome. A Valencia, in Spagna, lo stesso. A Varese, qualche anno fa, già batteva i Giuseppe.

Ma non e' prettamente una conseguenza dell'alto numero di immigrati in Europa: mentre la nostra scelta di nomi spesso e' addirittura imbarazzante e relativa a tradizioni regionali (ci sono più Pasquale al sud che al nord, viceversa per gli Alessandro in Italia, per esempio), il nome Mohamed per la cultura arabica e' unitamente considerato di alto rilievo, per richiamo alla religione, alla cultura, alla storia, al significato stesso del nome (colui che e' degno di lode). Addirittura e' spesso utilizzato quando non si conosce il vero nome di un individuo (probabilmente un po' come il John Doe americano).
Ovviamente su questa statistiche influisce tantissimo il tasso di natalità, da tempo in discesa nelle famiglie europee.
A Bruxelles la cosa non sembra destare allarmismo e la vita continua senza drammi, perché nel 2009 essere cittadini del mondo e non soltanto di un paese e' oramai una normalità acquisita e se magari 50 anni fa probabilmente il nome più utilizzato in alcune cittadine belghe era un Antonio o un Giovanni (a causa dei tanti immigrati italiani a lavorare nelle miniere di carbone), oggi e' un Mohamed, domani chissà. Mi domando pero' cosa succederebbe in Italia, visti gli eccessi provocatori e non che si susseguono a catena dopo la recente questione del crocifisso, alla diffusione di certe statistiche, alla lettura di certi dati, facili scintille di propaganda e paure quando al governo padroneggiano razzisti e xenofobi.

Fenomeni moderni a confronto

Recentemente negli Stati Uniti sta spopolando un ragazzino canadese di 15 anni, Justin Bieber, con canzoni pop sul mondo adolescenziale: primi baci, visi arrossati e faccino da angioletto. Ha creato addirittura il panico in un centro commerciale, quando per vederlo dal vivo la folla ha causato diversi feriti e immobilizzato l'impianto. Per guadare alcuni dei suoi video, ci vuole stomaco:

Come al solito pero' il genio napoletano e' anni luce avanti e questi nuovi fenomeni musicali moderni sono solo imitazioni di ragazzini ben più dotati, come il famosissimo Giuseppe Junior :) E forse i tempi non erano maturi, forse il suo stile era troppo futuristico, ma l'Italia aveva gia' il suo Justin Bieber e probabilmente ancora non lo sapeva. A voi la sentenza:

Ma una cravatta cosa fa

C'è chi la stringe forte, spesso troppo forte (quasi a dimostrare d'esser forte), chi la lascia un po' sciolta un po' sportiva (perché con stile, perché alla moda, perché manca l'aria), poi pero' ognuno le da' un colpo, ognuno ritorna al gesto della posa (da modello o da pinguino) quando nei pressi della porta gli sguardi si fan più seri e
tutti a stringere le scartoffie per il meeting. Le cravatte son tutte li', appese al collo e ad un respiro, a diffondere sicurezza ancor prima che eleganza, in primo piano, primo impatto, etichetta imposta a chi vuol sentirsi più importante, a chi deve perché comanda, a chi se lo impone per rispetto (spesso falso specchio di pensieri). C'è chi la ignora e chi ti snobba se la ignori, se non la porti intorno al tavolo e al proiettore, speri sempre ci sia qualcun altro senza, perché esser l'unico poi ti imbarazza o addirittura compromette (per una stupida cravatta). Ma una cravatta cosa fa? Magari troppo stretta, blocca proprio quel rigurgito dannato, del boccone che non volevi, di parole indigeste e stupidaggini arricchite, blocca qualche colpo di tosse alla slide senza senso e talvolta irrigidisce il sorriso al vicino sconosciuto. Ma le cravatte stanno li', mentre bocche parlano meccaniche e colli inghiottono concetti, le cravatte passive assorbono stress e calore e alla sera o già nel bagno dell'ufficio, quando la togli perché non ne puoi più, quando la togli perché non vedevi l'ora, perché ti dicono t'abituerai ma il rigetto e' troppo forte, perché e' un costume che non piace e la indossi solo se obbligato, ti libera in un colpo e giù pesante porta via tutte le scadenze appese al collo e i diagrammi troppi pieni e le analisi mai cosi' lunghe e come un vaffanculo dei più sinceri getta via mezza giornata di sofferenze noiose e desideri d'essere altrove. Un sospiro e niente più.

Non cravatte, ma pinguini danzare

Appena il pinguino imperatore arriva in zona, gli altri pinguini minori si alzano di scatto, si risvegliano dal loro letargo da scrivania e smettono di poltrire, di fingersi operosi, magari chiudono facebook. In uno slancio di due passi si avvicinano al capo branco, con versi monotoni e corali, scambiandosi battute dalla dubbia simpatia e girandogli intorno come in un cerchio protettivo. Alcuni esemplari della specie tendono a chinarsi come segno di rispetto, per un istinto di sopravvivenza lavorativa. Durante questi rituali, il sorriso e il becco lungo dei pinguini del branco sono la chiara manifestazione di predomino del pinguino imperatore. E dopo avergli girato attorno, come in una danza scoordinata di ballerini maldestri ma impegnati, veloci si riuniscono a formare una coda e con pochi versi striduli salutano e scompaiono alle spalle del capo branco, diretto alla sala del meeting.
E cosi' una volta a settimana, non vedo cravatte, ma tanti pinguini danzare.

Consigli sparsi per non parlare italiano in inglese

Che cosa significa parlare italiano in inglese? Significa tradurre letteralmente dall'italiano all'inglese frasi, modi di dire, espressioni del nostro uso comune, ed usarle parlando in inglese. Perché quando non si e' padroni della lingua straniera, si cade facilmente in questi tipi di errori e si parla inconsapevolmente italiano, ma in inglese. E se la cosa può risultare trascurabile quando si e' in vacanza, quando si e' turisti, quando l'importante in fondo e' solo farsi capire (e allora qualsiasi mezzo e' accettabile purché si riesca a comunicare), la questione prende una piega leggermente diversa in altri contesti, quando diventa un'abitudine e si riscontra nel quotidiano, in ambiti lavorativi, in amicizie durature, soprattutto in luoghi, come qui a Bruxelles, dove l'inglese e' la scorciatoia più usata dai residenti all'estero in una nazione pero' non madrelingua inglese e quindi dove tante eccezioni son permesse (ma non corrette).

Senza pretendere di star dietro ad una cattedra ne' improvvisarmi professore di lingua inglese (non ne avrei per nulla le capacita'), condivido in queste righe alcuni dei miei errori iniziali quando balbettante ci provavo a Dublino e tanti altri errori che probabilmente sono comuni tra gli italiani che tentano di parlar inglese senza una conoscenza perfetta della lingua (e ovviamente gli errori si devono fare inizialmente, nessuno impara una lingua in un giorno, ma e' raro che qualcuno madre lingua vi interrompa e vi faccia notare l'errore e allora spesso accade che lo si porta avanti nel quotidiano trasformandolo in una cattiva abitudine linguistica).

Uno degli errori più comuni e' quello di usare la doppia negazione anche in inglese: se in italiano diciamo non ho fatto nulla, e' sbagliato dire poi I havent done nothing, in inglese non c'è la doppia negazione (come in latino) e quindi dovremmo dire I havent done anything e cosi' via correggendo frasi sbagliate tipo I didnt see nobody. Quando poi si e' alle prime armi, e' normale non conoscere tanti vocaboli e allora ci sono due vie: quella di trovare vie trasverse per spiegare la parola o quella di inglesizzare una parola italiana, magari mettendo una e alla fine, pronunciandola in modo inglese e camuffandola: potreste anche indovinare, ma il più delle volte si inventano parole inesistenti o addirittura (con un po' di sfortuna) si può incappare in un falso amico (quelle parole che sono simili nelle due lingue ma che hanno significati totalmente differenti). Il mio consiglio e' sempre tentare la prima, lo dico perché come tanti ho provato la seconda alternativa e spesso ne son usciti davvero i mostri. Un esempio di falso amico e' eventually, che se in italiano richiama molto la parola eventualmente del tipo "e poi eventualmente potremmo andare al cinema", in inglese significa semplicemente "infine", "alla fine". Eventualmente si traduce con "in case". I falsi amici!

L'uso sbagliato di parole poi può portare anche a problemi lavorativi, magari sciocchi, magari più gravi. Ad esempio, in italiano utilizziamo la parola ultimo in diverse situazioni mentre in inglese si usa last e latest. Quando durante i primi mesi di lavoro a Dublino inviai la mail con l'ultima (usando last) versione di un certo protocollo che avevo aggiornato, alcune persone andarono in panico, perché di quel protocollo erano previste altre versioni. Avrei dovuto usare latest, quindi l'ultima nel senso la più recente e non ultima nel senso ultima, definitiva. Capite?

Questo accade sostanzialmente perché non conoscendo la lingua, la cosa più naturale e' tradurre da quella nativa. E quindi se arrivo in tempo direi just in time mentre correttamente sarebbe just on time. Sempre connesso al tempo, mentre in italiano il tempo si perde (ho perso due ore a cercare le chiavi) in inglese si guasta e si spende, quindi parlando italiano in inglese diremmo I lost two hours ma sarebbe I wasted two hours (per uno spreco di tempo) o I spent two hours (trascorrendo due ore). Perché se in italiano si compie un'azione con un certo verbo, si da' per scontato che lo si usi in altre lingue alla stessa maniera, anche quando inconsciamente si hanno già esempi contraddittori. Mi spiego meglio: una delle prime domande che si impara in inglese e' what's your name; quando pero' capita di dover chiedere il nome di un posto, spesso ho sentito dire how is the name of the pub etc.. ? Ritornando all'italiano e ad un come si chiama.. Eh, com'e' il nome di quel pub? E' scritto in inglese! Ecco com'è!:) Sarebbe what's the name of that pub etc.. ?

Altro problema sono tutte quelle sigle, quei marchi, nomi internazionali che in italiano si pronunciano tranquillamente in italiano, ma che poi in inglese (ovviamente) si pronunciano in modo differente. Esempio classico e' Levis che in italiano leggiamo letteralmente levis ma se poi in un negozio chiederete un jeans levis (dicendo proprio levis, come successe a me), non vi capiranno immediatamente. Sarebbe meglio leggerlo in inglese, e quindi tipo livais. Idem per ikea, che suonerebbe tipo aikia. E cosi' via con tanti altri.

Senza scendere troppo nei particolari e nelle eccezioni, nel mio ufficio ho sentito spesso dire da belgi (ma potrebbe capitare anche tra italiani) di dire see you after per ci vediamo dopo, ma sarebbe see you later; oppure all the day per dire tutto il giorno, ma sarebbe all day long; oppure until now per dire fino ad ora ma sarebbe so far, per non parlare del famosissimo I am agree per dire sono d'accordo, ma sarebbe semplicemente I agree.
Potremmo continuare per ore a cercarne di nuove e di curiose ma questo post si sta già allungando un po' troppo e allora se ne avete in mente qualcun'altra o se volete correggere alcuni strafalcioni che ho riportato, nei commenti si potrebbe creare una bella lista di italiano-inglese, come aiuto per chi magari si e' ritrovato in qualche riga, come risata per altri che invece l'inglese lo parlano bene o come semplice curiosità se la lettura vi e' piaciuta:)

Semplicità omesse

L'altra sera durante il corso di francese la prof consegna a ciascuno di noi uno dei soliti pezzetti di carta con su scritto qualche esercizio da fare in gruppo, per imparare nuovi termini o qualche nuova espressione. Questa volta era una lista di cose da fare prima di morire, anzi le dieci cose assolutamente da fare prima di morire. E c'era il solito viaggio intorno al mondo, la doccia sotto una cascata, lo skydiving, partecipare alla maratona di New York e tante altre cose sicuramente fiche, ma io ci son rimasto un po' male, perché in quella lista cosi' entusiasmante non c'era affatto quello che sicuramente voglio fare prima di morire: avere semplicemente un figlio.

Due anni all'estero

Due anni fa nella valigia avrei voluto mettere tante cose, dal guardaroba dimezzato ai libri troppo pesanti, dalle mille raccomandazioni dei miei agli abbracci di tutti coloro che la sera prima mi ritrovai intorno al collo, qualche lacrima, sorrisi, sguardi pieni d'affetto, avrei voluto spingere, far spazio, comprimere, imbottire nel tentativo invano di spostare tutta la mia cameretta, di portare tutto il mio mondo con me, più di tutti i pensieri irrisolti che urlavano insonni tra le pareti celebrali, più di tutte le perplessità su un'avventura che andavo ad affrontare da solo. "Vado un anno a Dublino e poi torno" dissi, "Non piangere mamma, non vado mica via per sempre".
In un respiro profondissimo, di quelli che i polmoni non si riempiono soltanto d'ossigeno, di quelli che la bocca non espelle soltanto aria, mi ritrovai sul sedile dell'aereo, il viso appena riflesso nel finestrino opaco e l'Italia che scompariva tra le nuvole lontana. I pugni stretti, nel concentrare tutto il coraggio necessario e la voglia di scoprire nuove realtà, di sfuggire da vecchi fantasmi, di cambiare in una scelta cosi' drastica.

Due anni all'estero e milioni di immagini, ricordi, errori, sorrisi, scoperte, mancanze, sconfitte, impegni e soddisfazioni. Non si può riassumere un'avventura cosi' intensa in poche righe, forse e' per questo che c'è stato il mio blog di Dublino e questo qui a Bruxelles, forse e' per questo che nel tentativo di trovare gli eventi più importanti ecco che se ne presentano a migliaia alle porte delle memoria, per affollare e sentirsi vivi, per riflettersi l'un con l'altro e in un abbraccio rappresentare questi due anni cosi' pieni e rivoluzionari.
Dalle lacrime di sconforto del secondo giorno a Dublino ai primi colloqui dall'inglese balbettante, dal lavoro ottenuto dopo appena nove giorni di sudore fino al corso serale d'inglese per accelerare l'apprendimento in cinque mesi d'immersione, dalle nuove amicizie in terra irlandese con ragazzi provenienti da ogni parte del mondo ai party notturni d'alcool ed allegria quando la mente si perde in un bicchiere e il giorno dopo ti ripeti inutilmente di non voler bere più e tante, tante, tante altre scene pazzescamente belle. Poi dopo un anno e mezzo di profondissime emozioni ecco i nuovi addii, i nuovi abbracci e le promesse, la mia partenza per Bruxelles, sei mesi fa, e la nuova avventura da affrontare. Mi ritrovo dopo due anni ad esser contento di averci provato, aver migliorato l'inglese, imparato lo spagnolo, iniziare ad apprendere il francese, aver avuto un'esperienza lavorativa a Dublino che mi ha formato ed aiutato ad averne una qui a Bruxelles ancora più stimolante ed importante, stretto amicizie con ragazzi di mezza Europa, aver visitato posti meravigliosi e cambiato tanti modi errati di pensare, perché due anni all'estero ti cambiano inevitabilmente, in modo radicale.

E si', lo so, tutto va cosi' in fretta, ma se ogni nostro giorno non si riempisse di noi stessi, poi a guardarci indietro troveremmo tante scene mute, rimpianti sparsi, ricordi sterili e divani vuoti. Antonino una volta mi disse che sarebbe bello se, morti, ci ritrovassimo in una stanza, soli, con un divano ed un televisore, a rivedere da zero tutto il film della nostra vita. Beh, a ripensarci, sarebbe bello se quel film fosse davvero un susseguirsi ininterrotto d'emozioni e se su quel divano, insieme, ci fossero tutte le persone incontrate durante il nostro viaggio. Ecco, sarebbe davvero un gran bel film.

Ho pagato un euro per un sorriso

Questa mattina mentre ero nella metro diretto a Gare du Midi, come al solito perso nel finestrino mentre la mente si svegliava lentamente e i pensieri si affacciavano sbadigliando, un uomo inizia a suonare il violino, con il figlio al fianco a scuotere un tamburello.
La gente e' fredda perché fuori fa freddo, e' novembre e già c'è il gelo, ma la gente e' fredda perché fuori e' altro e ciascuno e' cosi' immerso nella propria vita da non potersi distrarre, non aver tempo per fermarsi un attimo, c'è già lo stress dell'ufficio che si avvicina e bisogna far presto, sedersi alla scrivania, inventarsi qualcosa; la gente e' fredda ed alcuni si voltano altrove, altri guardano in basso mentre un tizio già si alza per accostarsi alla porta, in attesa della prossima fermata. Spesso mi perdo in questo scenario, nell'osservare le reazioni di ognuno, spesso quando la mano si accosta per elemosinare un'offerta mi rifiuto o ne faccio una soltanto se la musica mi piace davvero o se non sono in umor pensoso incurante di ciò che accade attorno. Quando questa mattina il ragazzino si e' avvicinato con la bocca coperta dalla sciarpa, il cappello di qualche taglia più grande che gli copriva la fronte, gli ho dato un euro, sorridendo. E subito il contagio del sorriso, dalla sciarpa e' sbucato come un sole all'orizzonte il suo sorriso naturale. E' durato un attimo. Già la speranza pendente si avvicinava ad altre persone, ma eravamo in pochi nel vagone (come al solito avevo fatto tardi) e non ho sentito il tintinnio di altre monete contro monete.
Tornando dal padre, il ragazzino si e' voltato verso di me, sorridendo di nuovo. Ho ricambiato.
Giungendo alla mia fermata, mi son alzato e diretto verso la porta e lui qualche metro più in là a dirmi ciao con la mano. Ho ricambiato con un occhiolino. La mia giornata e' iniziata decisamente meglio.

Sfogo in croce

Non esiste, non si tocca, e' parte della nostra cultura (di crocifissati?), non e' un simbolo religioso (e allora che si tolga anche dalle chiese), ma il simbolo di un liberatore (pero' chiedetelo alla scienza), di un uomo che ha lottato per la libertà (e allora che in chiesa ci mettano anche la foto del Che, ah no, scusa, in nome del Che si son uccise persone, invece con le Crociate in nome di Dio si uccisero mosche), alla fine l'Europa non può obbligarci a toglierlo (ma se ad una commissione si danno dei poteri, non si possono poi ignorare le decisioni, fate ricorso, va bene, ma anche questa e' l'Europa e con il Trattato di Lisbona avrà ancora più poteri, tante altre cose cambieranno, magari) e anche Berlusconi si e' schierato con gli italiani (ah già, il più grande mafioso della scena politica italiana, nonché puttaniere ufficializzato, va in difesa del crocifisso, bellissima questa), e poi noi abbiamo il Vaticano (eh grande istituzione, uno degli stati più ricchi del mondo che parla di povertà, persone che non hanno consorte o figli ma che parlano di famiglia, che non vivono la società ma poi dicono come la si dovrebbe vivere e che soprattutto vietano il preservativo ma io ne indosserei anche uno mentale, per rimanere immune da certi dogmi medioevali), e poi anche Travaglio e Servegnini lo hanno difeso (i soliti divismi, arrampicate sugli specchi per nascondere un fanatismo religioso e un paese intollerante, riprendendo parole di Ginzburg di cui oggi il nome si ripete ma che fino a ieri nessuno conosceva) e poi son 50 anni che sta li' e nessuno si e' mai offeso (e allora rimaniamo altri 50 anni immutati, mentre il mondo fuori cambia, velocissimo) e poi se io andassi in Arabia e mi sentissi offeso per qualcosa non cambierebbe nulla (occhio per occhio, dente per dente, mi pare sia uno dei dieci comandamenti cristiani, vero?). Poi non so, tra luoghi comuni, frasi gettate alla rinfusa nella difesa delle tradizioni, episodi e riferimenti vari, non so se ho mancato qualcosa, ma io quel crocifisso lo toglierei, subito.

Parentesi necessaria

Avevo in mente questa animazione da un po' di tempo ma il tempo si sa e' di quelle risorse di cui non si ha mai abbastanza. Approfittando della settimana di ferie della scuola di francese, ho ritagliato un po' di sessioni serali e alla fine son riuscito a terminare questo piccolo omaggio a Luigi Pirandello.
La ventina di lettori del mio libro sapranno sicuramente quanto mi siano care le parole del brano, spero quindi che la povera animazione non distragga da quella che, in definitiva, e' davvero una parentesi necessaria in qualsiasi istante, continuando ad essere attuale nonostante le stravolgenti evoluzioni sociali avvenute durante il (quasi) secolo che ci separa dalla nascita di queste parole. Buona visione:)

Halloween con sorpresa

Sebbene Halloween non sia per nulla una celebrazione belga e la festa si riduca al solito commercio e ballate serali, venendo da Dublino e frequentando anche alcune persone irlandesi qui, c'era una certa voglia di ripetere i sorrisi dello scorso anno. Le vetrine delle vie principali di Bruxelles si son subito colorate di zucche arancioni e ragnatele grigiastre ma e' solo decorazione perché pochi sono i negozi che realmente vendono oggettistica e decorazioni per la festività.
Poco male, alla fine un po' di trucco in viso e via tutti all'Havana. Serata allegra e umori alticci. C'è un truccatore che regala cicatrici in viso e sangue dalle labbra a tutti, c'è la ragazza che invita ad loggarsi in feisbuk e sottoscriversi al gruppo dell'Havana per avere un drink gratuito, c'è l'amico francese che in meno di un'ora e' già distrutto.
All'uscita il buttafuori chiede come al solito la mancia, cosi' come in tanti altri locali qui a Bruxelles e onestamente cosa mai vista in nessun altro luogo visitato. Uno dei ragazzi mi spiega che cosi' la prossima volta si ricorderà di noi, conviene dargli qualche spicciolo; io ne dubito seriamente, visto che su cento ragazzi, alle tre notte, tra confusione e addirittura anche truccati per Halloween, sarebbe davvero un gran genio se riuscisse a ricordarsi tutte le associazioni dei volti per la prossima volta e anche in quel caso, se fosse questo gran genio, non credo proprio starebbe li' a fare il buttafuori (con tutto il rispetto per la categoria).
Poi ecco la spiacevole sorpresa: troviamo la macchina di uno dei ragazzi con un finestrino fracassato, proprio di fronte al palazzo di giustizia. Qualche giacca rubata, una borsa con chiavi di casa, frammenti di vetri ovunque sui sedili e qualche bestemmia torinese al cielo. Certo la macchina e' quella aziendale, certo basta andare alla polizia e prendere la denuncia e poi andare al servizio 24ore e farsi sistemare il finestrino anche alle quattro di notte, ma e' ovvio che certe cose sarebbe meglio non accadessero.
L'amico francese mi ricorda che gli e' successo lo stesso un mesetto fa, ma alle tre del pomeriggio, vicino al centro, e che certe cose, qui a Bruxelles, capitano di frequente e che probabilmente capitano in qualsiasi città del mondo (e' successo anche a me anni fa nella tranquillissima Agropoli). Certo e' che dopo l'episodio dello scorso anno, Halloween inizia a portare un po' sfiga, certo e' che finora non mi son per nulla pentito di aver rifiutato la macchina aziendale, certo e' che avrei preferito un episodio differente, cara Bruxelles, per chiudere i primi sei mesi qui con te.

Tonalità d'autunno

Mentre tornavo a casa passeggiando con la testa altrove, mi son ritrovato di fronte la solita casa ricoperta di verde, dove i rampicanti e l'edera fan da padroni sulla facciata che sicuramente non conosce sole da svariati anni, ma il solito manto questa volta si era trasformato meravigliosamente colorandosi di tonalità stagionali da lasciare tutti i passanti a bocca aperta e anche i pensieri, quelli altrove, son tornati (alcuni in tregua) per ammirare il piccolo siparietto in un vicolo anonimo di Bruxelles.

Mancava solo il sole

Tre ore di treno e da Bruxelles si raggiunge Amsterdam, poche ore d'aereo e da Dublino arrivano due amici, e allora basta poco a colorare di simpatia un fine settimana sicuramente da ricordare, non esclusivamente per i soliti motivi che spingono tanti giovani nella capitale della trasgressione, ma essenzialmente per ritrovare sorrisi e condividerli, per riabbracciare ricordi e darne contorni, per scomparire in una battuta o abbandonare la mente in un bicchiere lasciando scivolare il mantello di stress alle spalle più leggere; e allora poco importa se ha piovuto per ore ed ore ed ore, perché il clima diventa secondario quando il resto e' a dir poco ottimale e perder tempo nel lamento per qualcosa che non si può cambiare sarebbe un po' tonto un po' banale.
E poi venti minuti di treno e si arriva a Zaandijk e come attraversando un varco temporale, si ritrova un pezzetto di Olanda d'altri tempi, fatta di pace, mulini e semplicità; si dimenticano le follie e le stranezze della moderna capitale, passati veloci dal finestrino del treno poco affollato, per immergersi in paesaggi da cartolina, entrarci dentro ed esplorare.

Il mio collega cinese

Il mio collega cinese parla sempre poco, si muove di rado dalla scrivania ma e' sempre il primo ad alzarsi per andare a mensa, come un orologio alle 11:45, mentre io ed il collega francese cerchiamo di perder tempo per non andare a mangiare all'ora dei nonni.
Il mio collega cinese non ama le critiche alla Cina e quando un altro collega quasi offese alcuni trattamenti barbari per ragazzi malati di internet, lui si e' irritato un po', improvvisamente, come non si era mai visto, come si fosse svestito della timidezza e di quell'educazione silenziosa, come fosse diventato per un attimo un altro, cercando di far capire che l'immagine che l'Europa ha della sua patria non e' la vera Cina e che nessuno a quel tavolo, tranne lui, sapeva cosa fosse la vera Cina. A quel punto teste basse, occhi nel piatto, mascelle a masticare, di quei momenti tra panico e pentimento, fastidio ed imbarazzo. E la verità chissà dove si perde nelle distanze e le omissioni.
Il mio collega cinese fa poche domande, da' poche risposte e va matto per la senape. A mensa e' possibile prendere una bustina di senape gratuitamente, la seconda pero' si paga. A me la senape non piace tanto, ma un giorno ne ho preso una bustina per poi darla a lui. Aveva gli occhi di un bambino nel ricevere la sorpresa inattesa, l'euforia del nuovo pacco da scartare per la senape aggiuntiva da usare sulle frites e quando ha detto thanks aveva davvero un bel sorriso. Dopo qualche giorno me lo ha chiesto esplicitamente, di prendere la senape per lui, ed a quello sforzo immenso nel superare le barriere di una timidezza probabilmente caratteriale ho risposto con un bel sorriso.
Il mio collega cinese ha il completo elegante nell'armadio dell'ufficio e se c'è un meeting con il cliente, va un attimo in bagno e si cambia e cosi' il vestito e' li' da più di 5 mesi, muto sorvegliante delle scartoffie, dei documenti, di qualche spillatrice. Una notte probabilmente il completo si impiccherà con la cravatta, ucciso dalla solitudine e dal ragno che lascerà la tela per innamorarsi altrove.
Il mio collega cinese e' in Europa da 4 anni ma e' tornato a casa solo due volte, e' figlio unico perché, dice, e' nato nell'anno in cui il governo cinese inizio' a limitare le nascite, ma si può eludere la super tassa sul secondo figlio, mi dice, se il primo non e' sanissimo o se entrambi i genitori sono figli unici.
Il mio collega cinese oggi ha voluto rallegrare tutti, portando un cofanetto con dolcetti tipici della sua regione natale. Tutti noi golosi ci siam avventati su quei pezzettini marroni ricoperti di palline colorate, ma al primo morso le facce più strambe si son incrociate, capite, trattenute, quando masticando quei pezzetti di manzo freddo ricoperto di piccantissime spezie ognuno ha avvertito un urgentissimo bisogno d'acqua. Alla fine tutti a riderci su mentre lui, il mio collega cinese, ne prendeva in mano due, tre pezzetti e a bocca piena e chiusa, rispondeva ai sorrisi con una curva accennata.
Mi sta simpatico, il mio collega cinese, ed e' tutto un mondo da scoprire, che non so, e allora ogni giorno gli domando qualcosa, senza troppo rivoluzionare i suoi silenzi, senza invaderne gli spazi, pagando il pedaggio alla frontiera con una bustina di senape e un sorriso.

Mentre tu stavi lì sospeso

Girando intorno al filo che forzato ti sosteneva senza lasciarti all'inevitabile forza gravitazione, tu te ne stavi lì sospeso, con l'espressione immobile e pensante legata ad associazioni d'immagini e ricordi, tu maestro di mille pensieri, della forma e della vita, dondolavi su tante teste in festa, mentre qualcuno rideva, altri silenziosi ascoltavano il cantante in azione, senza prestar attenzione a te che intanto li' sopra t'agitavi, continuamente.

Cosi' mentre alla libreria Piola tanti connazionali riuniti dal sangue, dalla lingua e la patria lontana, sorseggiavano vino ascoltando qualche discorso sulla presentazione di un libro e della fuga di cervelli (ennesimo manifesto di parole lette, rilette, vomitate ma sempre ahimè attuali), io ti fissavo danzare nell'aria, appeso cosi', a guardarci tutti, poi darci le spalle, poi tornare a guardarci (chissà che mal di testa), chissà quanti giudizi, niente maschere o forse a ciascuno la sua, forse di italiani all'estero a sentirsi diversi perché scappati ma poi riunitisi di nuovo nel ricreare un piccolo pezzetto di Italia a Bruxelles, forse soltanto per un bicchiere di vino, per una chiacchierata amica ad uno sconosciuto pero' connazionale, un incontro veloce, uno scontro col piattino degli stuzzichini a macchiarti la giacca, qualche affronto a lingue straniere adattate.
E mentre alla libreria Piola qui a Bruxelles un menestrello intonava canzoni sui festini del premier, sulle badanti, su Mentana, poi su Vespa, proprio oggi che si annunciava il nuovo brano di Battiato sugli eventi recenti del paese infilzato (ma niente lontanamente paragonabile alle parole del Rino Gaetano mai troppo ricordato), tu preferivi girare intorno a quel filo, intonare la tua danza particolare, ignorarli tutti o guardarli a 360, farmi compagnia mentre mi alienavo come di consueto, tra gli applausi, le risate, il nuovo sorso al vino della casa che scendeva male perché cattivo.
Poi uno strattone, ecco dobbiamo andare: io vado via con il nuovo mantello di pensieri, tu rimani lì sospeso ancora un po', magari torno, forse no, in fondo Piola e' a cinque minuti da casa, sarebbe bello farti vedere il libro che scrissi quando tu eri droga, sarebbe bello star sospeso lì con te per un po', ma forse già lo so e di mal di testa adesso proprio non mi va.

Quando saro' un immigrato in Italia

Quando passeggio per le strade di Bruxelles, vedere ragazze indossare lo chador e' cosa comunissima e trovarsi seduti al loro fianco nella metro, nel tram, nel bus, non influenza e non condiziona le possibili smorfie della giornata. Quando al corso serale di francese chiacchiero con Fadi', ragazzo di Baghdad, troviamo sempre un pretesto per ridere, su qualsiasi cosa, senza malizie, senza paure, come se i chilometri che dividono le proprie origini non esistessero o al meno non fossero cosi' tanti da lasciare che l'orizzonte ne nasconda l'una all'altra. Quando qualche settimana fa siamo andati a cena dal nostro vicino africano, abbiam passato quattro ore ad assaggiare cibi ugandesi, raccontarci impressioni sul Belgio, commentare le sue vacanze in Italia, creando nell'aria fotografie simpatiche e sorridenti, tal volta nostalgiche. E quando i fine settimana vado a bere con i miei amici francesi, la mente spesso si lancia in qualche connessione celebrale, ricordando serate dublinesi con amici spagnoli, australiani, chiacchiere infinite con colleghi polacchi ed irlandesi che continuano ancora oggi in tante piacevoli email fatte di risate ma soprattutto di voler sapere se tutto va bene.
E va tutto bene.
Sarà la naturale ed incosciente solidarietà tra immigrati in un paese straniero, sarà la mancanza di pregiudizi o soltanto la volontà di conoscere gli altri, spogliarsi delle associazioni culturali e delle tante notizie che informano, sconvolgono, allertano, ma al tempo stesso inquinano immagini di mondi spesso sconosciuti, saranno tante cose intrecciate in un equilibrio magari delicato, che si va rafforzando con il tempo, le esperienze, viaggiando e lasciando che gli occhi scoprano gli altri e continuino a conoscersi attraverso gli altri, ma l'assenza d'odio, questo clima di benessere sociale, fan sicuramente bene all'umore e alla condivisione di sorrisi.
Quando pero' vedo scene come queste e ascolto parole cosi' dure e assurde, mi domando se mai un giorno sarò anch'io un immigrato in Italia.

Oktoberfest brussellese

Probabilmente una delle poche volte in cui, arrivando in Place Jourdan, non ho avvertito subito l'odore fortissimo di strutto fritto che di solito si espande inesorabile dal chiosco di frites e padroneggia i sensi della zona, un po' perche' la tenda enorme eretta per l'Oktoberfest brussellese ne rubava la scena, un po' perche' grida ed odori eran di altro tipo o magari soltanto perche' la mente gia' si focalizzava su altre destinazioni (non era affatto serata da frites) e la fila e la calca si muoveva veloce, senza dar troppo tempo di pensare ad altro, dettagli inutili direi.
Oktoberfest brussellese, organizzato per 4 giorni qui a Bruxelles, ed inizialmente accessibile soltanto su prenotazione (specialmente restrittiva la prima serata, giovedi', aria piu' da ristorante che da festa di baldoria e umori alticci, dove ogni tavolo, minima sedia, era gia' prenotata e, senza malizia, eran in maggiornanza per eurocrats).


Questa volta invece avevo capito subito che la serata sarebbe stata d'altro tipo, dalle pozzanghere di vomito intraviste qua e la' intorno al padiglione, dalla camminata zigzagante di qualche ragazzo con gli occhi socchiusi, dalle grida che precedevano la luce quando i bestioni all'entrata scostavano la tenda di ingresso e ci introducevano in un clamore apocalittico. La tipa al banco litiga un po' con fogli e foglietti prima di scusarsi per aver perso la nostra prenotazione, ma poco male se alla fine ci inserisce in un tavolo un po' strettini tra due gruppi gia' belli che andati. Quando la signora bella prosperosa e vestita a festa mi ha passato la prima brezel, mi son tornate in mente scene di infanzia, in Germania, di quelle memorie dai contorni sfumati, di quell'infanzia che pensi di aver vissuto ma non ricordi esattamente, solo magari attraverso qualche parola della mamma o in una foto dai colori invecchiati.


Un gruppo di italiani alla nostra destra inizia ad urlare una delle poche cose che all'estero possiamo ancora gridare con fierezza (ma per altri sette mesi e poi chissa'), e allora giu' con siam campioni del mondo, siam campioni del mondo, non importa se l'orchestra al centro della sala stesse suonando altre melodie, qualcosa di bavarese, qualcosa di lontano. Scambio qualche chiacchiera con loro, ragazzi in erasmus, uno di Napoli, uno di Caserta, insomma gente a cui posso dire il nome del mio paese, Agropoli, senza perdere troppo tempo nel spiegare dove si trova e perche' esista. Quando il ragazzo di Caserta inizia a parlicchiare un po' inglese con la mia ragazza, l'ho visto un attimo in difficolta' nel rispondere al where about in Italy, l'ho visto tentennare un attimo ma poi arrendersi e dire Napoli (avra' fatto uno sforzo, lo so), perche' alla fine la maggior parte dei campani all'estero si deve arrendere alla notorieta' (vuoi cattiva, vuoi buona) di Napoli e chi con vergogna, chi con orgoglio, taglia corto e approssima al capoluogo, soprattutto quando la lingua e' un limite e dire un nome vale piu' di mille spiegazioni e vocaboli mancanti.
Brindando anche alla nostra sinistra, inizio a parlicchiar spagnolo con alcuni ragazzi di Barcellona, lodando la loro bellissima citta' (dove son stato gia' quattro volte), senza mancare qualche accenno ad Ibra proprio quando un sms di mio padre mi avvisa della goleata a Genova. I ragazzi pero' non muovono un muscolo del viso quando l'orchestra intona evviva españa e con la mia ragazza (di Madrid) urliamo e agitiamo il tavolo in festa. Nazionalismi, sciovinismi o stereotipi, tutte cose a cui, in clima di festa, non ha senso dar peso ma che pesano ai sorrisi, come macigni d'umori inviolabili: risolvo in una scrollata di spalle e una smorfia di rinuncia.
Mentre i miei due amici francesi cercano di capire come trasportare fino a dieci boccali di birra in una sola volta (potenza delle cameriere teutoniche), un tizio passa ai tavoli cercando di sfollare la sala, con poco garbo, sintetico ma chiaro, invita tutti a celebrare la fine della festa.


All'uscita un ragazzo si addormenta su una transenna, capitolando sull'asfalto e bloccando il traffico per qualche istante, altri ancora continuano cori in lingue a noi sconosciute, mentre cerchiamo subito di fermare due taxi e raggiungere Le Corbeau. Dividiamo uno dei taxi con una coppia tedesca: il ragazzo butta subito le mani avanti, difendendo il vero Oktoberfest, raccontandoci di aver parlato con uno dei camerieri (tedesco anche lui) e alla domanda ma perche' non fate ballare la gente sui tavoli? perche' sembra piu' un ristorante che una festa? (ma in tedesco, ovvio) gli ha risposto perche' altrimenti la gente spende di meno; e alla domanda ma tu ci sei mai stato al vero Oktoberfest?, un no sincero ha sintentizzato tutto il business della serata. Qui da appena un mese, ci racconta delle sue delusioni, delle sue aspettative sulla capitale d'Europa, dell'abitudine all'ordine tedesco e delle scoperte della disorganizzazione brussellese: ennesima conferma dei pensieri di qualche post fa, anche se io avrei evitato qualche parola un po' forte ed offensiva, soprattutto alle spalle del taxista, soprattutto dopo appena un mese di permanenza, ma le delusioni si sa, vestono spesso d'un po' d'odio, condite con spruzzate di critica amara e forse troppa fretta nei giudizi, quando al de gustibus si contrappone il confronto, inevitabile ma spesso insensato.
Mi son voltato al vetro bagnato del finestrino, mentre le luci della citta' sfilavano veloci e il taxi ci portava verso nuovi sorrisi, altre emozioni, diversi pensieri.

Questione di passioni

Non so se davvero la passione belga per le patatine fritte sia cosi' forte, ma a Bruxelles di questi tempi va in scena una commedia, Faites l'amour avec un Belge!, che la mette a confronto con qualcos'altro.. e il manifesto vale più di mille parole..

Mio fratello e' figlio unico

Avevo già parlato delle caratteristiche linguistiche di Bruxelles, ma quando capitano episodi come quello di stamattina in ufficio, mi vien sempre da pensare.
Dalla sede aziendale centrale, arriva uno dei responsabili con un nuovo impiegato, giusto per una veloce carrellata su cosa stiamo sviluppando per le ferrovie belghe e cosa ci fa bestemmiare ogni giorno:) Il neo assunto e' un ragazzo belga, delle Fiandre. Quando il manager (francese) ha iniziato ad introdurlo al gruppo parlando in inglese, ho pensato fosse una cortesia nei riguardi di chi (come me) ancora non ha un francese di un certo livello. Mi sbagliavo: il ragazzo, belga, non parla francese e parlando con colleghi miei belgi (ma della Vallonia), parlavano tra loro in inglese. Connazionali stranieri.
E mentre tra loro parlavano in inglese, lui raccontava di aver lavorato un anno in Francia ma in inglese e di aver imparato li' un po' di francese (questo e' il colmo). E mentre vedevo due ragazzi della stessa nazione, parlar tra loro con una lingua straniera, pensavo all'Europa, alle identità nazionali. E mentre due ragazzi di uno stato di appena 30mila chilometri quadrati e dieci milioni di abitanti, parlavano tra loro come se uno fosse olandese e l'altro francese, io pensavo ai nostri dialetti, all'italiano, a come dietro una montagna, al di la' di un fiume, già ci si può sentire differenti. E mentre tutto ciò era per i miei colleghi belgi una situazione normale, accettabile, mi son tornate alla mente le parole di Massimo d'Azeglio, "Abbiamo fatto l'Italia. Ora si tratta di fare gli Italiani".

Poi e' arrivato il mio turno, e' venuto alla mia scrivania, mi ha chiesto se parlavo francese; gli ho detto no, non ancora. Mi ha risposto: "Beh neanche io, ma non ti preoccupare, non e' un problema, siamo in Belgio". E allora, ho pensato, questo e' davvero un luogo comune per tutti, perché se tra connazionali son stranieri, allora anche lo straniero qui può sentirsi un po' a casa.

Quando la censura non ha confini

Ieri un mio amico a Dublino e' andato ad assistere alla partita Irlanda - Italia con alcuni striscioni ironici. Agli ingressi c'erano quelli della digos che con l'aiuto della Garda (polizia irlandese) hanno bloccato diverse scritte farabutte, comuniste, da complotto, da golpe, insomma scritte cosi' brutte che chiunque in Italia si sarebbe potuto impressionare vedendone qualcuna in tv durante le inquadrature allo stadio gremito di tifosi, rischiando di sputtanare non solo il premier, ma anche lo stato italiano, la democrazia, il popolo, come stanno facendo la stampa ed i media stranieri. Per fortuna hanno bloccato gli striscioni all'ingresso, la Repubblica e' salva.
Sfortunatamente per Silvio, esiste la rete...

Bruxelles, la capitale che non ti aspetti

Probabilmente chi non e' mai stato a Bruxelles e ne' mai se ne e' informato a fondo, a sol sentirla chiamare capitale d'Europa potrebbe immaginarla come l'esempio perfetto dell'applicazione di tutte le norme europee, il modello da seguire; o forse soltanto per la locazione geografica, perché città del nord Europa, perché ai confini con la Germania e l'Olanda, la si potrebbe accostare a immagini di città ordinata, pulita, ben organizzata; o forse perché nelle immagini dei telegiornali se ne inquadrano sempre gli enormi palazzi di vetro della Commissione Europea con l'immancabile bandiera a stelline, la si potrebbe ipotizzare super moderna ed efficiente.

E invece bastano pochi giorni per frantumare molte di queste convinzioni, ipotesi azzardate, perché la realtà vada a contraddire qualche associazione fatta in fretta e disinformata; ovviamente ciò non significa che sia una città da evitare, che sia brutta, anzi; questo post non e' assolutamente una critica, ma solo alcune note legate ad impressioni avute da qualche turista e non solo.

Passeggiando per il centro della città si notano subito strade sporche e trascurate, seminate spesso da escrementi di cani che qui non raccolgono praticamente mai: se siete in giro, occhio a dove mettete i piedi. Proprio al centro, la stazione dei tram Bourse e' il posto frequentato con piacere da senzatetto e tutta la struttura e' un continuo puzzo di piscio cosi' come il perimetro della stazione Midi, puntualmente annaffiato ogni mattina pero' (ma lo sforzo dura poco), cosi' come per la piccola piramide a Place Rogier. In questi tre punti, spesso e' consigliabile respirare poco. (Ma non c'è nessuna relazione con i tre monumenti che fa la pipi').

La Germania e' a meno di due ore di macchina, ma siamo lontani da certi standard. E se avere una stazione dei tram con certi odori non e' sicuramente una cosa carina al centro di una città (beh, non lo sarebbe neanche in periferia), della capitale d'Europa, ancor meno carino e' trovarsi in una enorme piazza lasciata totalmente al degrado (Place du Congrès), proprio a due passi del centro, alle spalle dell'obelisco di Bruxelles, la colonna del Congresso. E se le strade magari non son pulitissime, non son neanche ben attrezzate con piste ciclabili (spesso inesistenti, spesso mozzate all'improvviso), anche se il servizio di bici a noleggio (tipico oramai di molte capitali europee) e' disponibile un po' ovunque al centro, ma siamo lontanissimi da certi standard olandesi, a meno di due ore di macchina, o da quelli delle fiandre, praticamente dietro l'angolo, nel Belgio del nord. Sara' che l'erba del vicino e' sempre più verde o sarà che la cura della propria e' più lenta e pigra.

Ma se vi aspettate l'Europa perché siete nella capitale, magari spesso vi troverete ad essere gli unici europei in un vagone della metro: l'ambiente e' ovviamente internazionale, la Commissione Europea richiama business mondiali, ma non solo. Avvantaggiati dalla lingua francese, connessi anche ad un passato colonialismo, molti degli immigrati provengono da paesi africani, mentre molti altri da quelli arabi. Non scandalizzatevi dunque se magari la vostra ragazza sarà l'unica a non indossare il velo intorno a voi, nel tram. Puo' capitare, non vi aspettavate magari certi scenari, ma cercate di non scivolare in miti come quello dell'Eurabia, il mondo oramai e' misto.

Se poi durante una giornata sarete disturbati più volte da macchine a gran velocità con musiche arabe a tutto volume o se entrando in un pub vi accorgerete che e' permesso fumare (e lo era anche nei ristoranti fino a 2 anni fa) o se in un giorno di pioggia vi trovate alle stazioni Arts Loi o De Brouckère (stazioni del centro e importanti punti di connessione) trovando grossi contenitori a raccogliere acqua che cola dal soffitto, come se foste in un'arretratezza scioccante ma invece siete nella capitale d'Europa, ecco, cercate di non meravigliarvi, le cose non stanno cosi' male, semplicemente erano le vostre aspettative ad essere sbagliate.

La città e' molto particolare, sicuramente affascinante, e ci saranno numerose occasioni per raccontare quanti tesori racchiude, ma un giudizio spesso e' condizionato anche dalle aspettative, che qui magari potrebbero trasformarsi in delusioni o meraviglie, perché latitudine e presenza di organizzazioni non sempre suggeriscono le giuste intuizioni.

Conigli al Parlamento Europeo

In un'aula praticamente vuota (60 deputati su un totale di 736), ieri la questione sulla pluralità di informazione in Italia e' arrivata in Parlamento Europeo portando con se umori un po' accesi, mostrano un bello spaccato di politica nazionale e quanto interesse suscita l'argomento in sede europea.

Dagli interventi pacati ma poco dettagliati degli esponenti dell'opposizione..


..alle invettive storico-personali fino ai conigli di Borghezio (che al termine del video urla "EVVIVA LA PADANIA, TERRA DI LIBERTA'"..)

E l'Italia e' questa qua.

Cose che ti possono capitare a Bruxelles (2)

Dopo la prima esperienza per caso in eventi organizzati da lobby di/per eurocrats, ieri son capitato al concerto per l'apertura della settimana dell'Open days qui a Bruxelles, conferenza organizzata per discutere varie tematiche di sviluppo urbano e regionale a livello europeo, ovviamente (siamo a Bruxelles, ciccio, qui tutto e' Europa, chiedilo ai galli se non mi credi). Concerto gratuito e non riservato esclusivamente ad eurocrats, come si potrebbe maliziosamente pensare, bastava recarsi all'ufficio giusto e ritirare i biglietti prima che terminassero; ovviamente l'evento e la locazione dell'ufficio giusto e' una notizia da eurocrats, quindi o sei eurocrat o hai amici eurocrats o ti capita per caso.
Il concerto e' stato davvero carino, musica classica del calibro di Puccini, Verdi, Bizet con artisti ucraini, polacchi, e sul finale musica piu' allegra con brani jazz, tango, rivisitazioni moderni di brani classici con un quartetto italiano: a giudicare dalla durata degli applausi, son stati quelli che han raccolto maggior gradimento tra il pubblico, vuoi per il tipo di musica, vuoi per la percentuale altissima di italiani tra gli spettatori, vuoi per il carisma e l'approccio agli strumenti. Il pubblico era ovviamente da gran serata (eurocrats, ciccio) e quindi l'eleganza sfilava tra il classico e il raffinato, il semplice e l'elaborato, qualche naso alto, qualche sguardo laterale, nessun cellulare a squillare durante lo spettacolo.
Dopo il concerto, mega buffet organizzato, ovviamente sempre gratuito (ciccio dai, l'Europa e' ricca, lasciali abbuffare e sperperare mentre pochi si dividono il potere): una marea di più di cinquento persone si son riversate su una miriade di tavoli preparati con cibi dalle varietà inaspettate: dalle normali insalate da buffet, al tavolo orientale, al tavolo a base di pesce e quello a base di formaggi, salumi, fin a quello dei golosi dove tanti homer si avventavano come sulle ciambelle; vino a beveroni e tante chiacchiere inutili nelle code per un piatto, tra i labirinti di mani per un crostino, nelle sfide all'ultimo rustico. Nota carina son stati gli artisti che si son uniti a tutti durante il buffet e allora ho fermato il quartetto italiano per due parole, giusto i complimenti più che il solito copione di dove sei, da quanto tempo, che fai, ciao.
Insomma niente male come serata improvvisata, (cose che ti possono capitare a Bruxelles, ciccio, mica altrove) bisogna tenere d'occhio più eurocrats, non tanto per diventare uno di loro, quanto almeno per approfittarne, non farà mica male e poi meglio partecipare ai banchetti che ai meeting, dove si discute degli sviluppi futuri di città e campagna belghe, stimando, ipotizzando, pianificando e bla bla e bla mentre magari gli agricoltori protestano proprio di fronte ai palazzi europei per la crisi corrente del settore, spruzzando latte alla polizia.