Muffa

Il freddo che decide d'attaccare l'epidermide scoperta non perde certo tempo a tagliuzzare ed arrossare, dalle orecchie al naso, cercando di vincere la battaglia e imporre la ritirata in un bar, un negozio o casa di qualcuno, ovunque non risponda nebbia ad ogni respiro ed il collo possa lasciare la pressione sulle spalle e tornare a guadagnare centimetri d'altezza. Ovunque è casa sua, questa volta, lui che non si decide a lasciar le lenzuola e vi costringe ad una visita improvvisa quando però c'è tempo e voglia anche per queste cose. In fondo, son vacanze. C'è puzza di muffa qui - esclama uno del gruppo - quando forse sussurrare sarebbe stato più opportuno. Delicati, voi, non lo siete stati mai. C'è puzza di muffa qui e gli si arricciano le narici, s'inarca un sopracciglio e lo sguardo diventa quasi intelligente, ma solo per un attimo. Certi attimi, a vederli, non è facile. Ci hai provato pure tu, ad annusare per qualche istante ma niente, niente muffa per te.

Il calore che decide d'abbracciare tutti intorno al tavolo, finalmente nell'angolo di un bar, non perde certo tempo a trasmettere benessere e rilassare i muscoli del viso, quasi fosse una grossa carezza, quasi risvegliasse sorrisi intimiditi, che loro, i sorrisi, son come luci contagiose. Quando son sinceri, però. E sinceramente ti perdi un po', quando si parla soltanto dei tacchi delle ragazze, che van di moda quest'anno, altissimi, sembra, e di come da un tacco si possa supporre l'intera persona con aggettivi in dialetti stonati. Tu, con i tacchi, mai andato d'accordo. E ti perdi anche quando c'è chi insiste che lui, un figlio omosessuale, lo sparerebbe nella culla. Solo, nella culla, non è facile. Ma non hai il tempo d'approfondire, che c'è chi ha quasi un bisogno vitale nel riservare un tavolo in una discoteca di tendenza, quasi rappresentasse sangue blue nelle vene. Un tavolo, addirittura riservato, manco a casa ce l'hai. E all'improvviso ti si arricciano le narici, ti s'inarca un sopracciglio e lo sguardo diventa quasi intelligente, ma solo per un attimo. Sì, proprio lei. Puzza di muffa. Doveva essere l'alito di chi vantava il costosissimo regalo di natale alla ragazza. Puzza di muffa. O chi attaccava il pippone che le cose che aveva mangiato lui, qui, a sud, a natale, te le sognavi a Bruxelles. Tu, se per avere quelle cose a tavola, a Bruxelles, devi portarti mamma con te, no grazie.

Quando rientri con la testa gobba, inchinata al freddo vincitore, metti una mano davanti la bocca e t'aliti tra le dita, preoccupato. Arricci le narici. Inarchi un sopracciglio. Lo sguardo, non lo so, se diventa quasi intelligente. E per un attimo quasi tentenni, se ce l'hai pure tu, la puzza, la muffa. Un po', è probabile. Corri a domandare a Google, preoccupato: segno di decomposizione... scarsa ventilazione d'aria... si manifesta prima con piccoli puntini, poi si espande... spesso uccisa dalla luce diretta del sole. E tanto altro.
Che si espande, lo avevi capito. Che mancava l'aria, pure. Che dove c'è tanto sole non dovrebbe esserci, strano. Mi sa che t'ha distrutto la metafora, il sole, lì, a sud. Peccato. Niente muffa, forse. La puzza, però, c'era.

toh, c'è uno straniero in casa

è natale, da qualche minuto, che hai aspettato la mezzanotte per lo scambio di regali e passata la mezzanotte è natale, non ci sono dubbi, i tuoi russano da 30 minuti, tuo fratello non c'è, è a casa della moglie, tu dici sempre ragazza perché moglie non lo riesci a dire, ma non perché non vuoi, è che proprio non ti esce. Tu, secondo me, hai qualche problema con le mogli. O con i matrimoni, in generale. E mentre i tuoi dormono, cioé russano, tua sorella si sta preparndo per uscire, che tu hai impiegato meno tempo ad addobbanare l'albero di natale, ma lei sul suo viso vuole decorazione, vuole, anche se poi tu non vedi quasi la differenza, sul suo viso. Tu, secondo me, hai qualche problema con le decorazioni. O con le sorelle, in generale. E mentre tua sorella si prepara per poi dare il regalo a quello con cui esce al momento, tu stai sul divano sotto una coperta, perché cazzo se fa freddo qui, poi dicono Bruxelles, poi dicono il nord Europa, che c'hanno il sole qui, a sud, che c'hanno la qualità di vita, che fa freddo dicevo, e leggevi un libro, che tu ami i libri, ti sei divorato durante il viaggio Fahrenheit 451 e adesso leggi Bassotuba non c'è, due libri due regali del compleanno, che non hai avuto il tempo di leggere da settembre perché il lavoro, gli esami di certificazione, il corso di francese e le combinazioni astrali, però a te, se ti regalano un libro, ti fan felice, che quando poi hai tempo te li divori, i libri, e ne stai leggendo uno qui, dicevo, questo di Paolo Nori, e tua sorella ti chiama un attimo, ma tanto non è mai un attimo, ti chiama un attimo per un consiglio e tu già lo sai. Sono le scarpe. Ma tu odi ste cose, che mentre stai leggendo ti chiamano e devi bloccare tutto, i pesonaggi del libro che nel frattempo hai posizionato in una scena, lì, da qualche parte nel cervello, e si muovono, parlano, interagiscano, secondo cosa dice il libro ma soprattutto secondo la tua interpretazione. Però tua sorella deve capire se le scarpe vanno bene, tu non vuoi lasciare quei personaggi lì, che ieri hai tenuto bloccato Montag, il protagonista di Fahrenheit, mezzora in mezzo ad uno stradone mentre la polizia lo stava inseguendo, solo perché tua madre ti chiamava dalla cucina e poi ti han chiamato anche al telefono e poi qualcosa ancora e Montag fermo lì, ad aspettare, con la polizia che lo stava inseguendo e tu dovevi affrettarti, coi sensi di colpa. E adesso le scarpe, che tanto tua sorella ignorerà il tuo parere, non le serve, ha già deciso infatti, ma deve romperti le balle ed è natale, i tuoi russano, tuo fratello non c'è e intanto hai lasciato Learco, il protagonista di Bassotuba non c'è, a stantuffare con Agata e tua sorella non lo sa. Che poi non le piaceva neanche, Agata a Leandro, e non sai se fino al tuo ritorno continueranno a stantuffare, lì, in qualche parte del tuo cervello, o saranno come congelati nel tempo, fino a che tu non riprenda la lettura. Non so cosa sia meglio, in verità, tra stantuffare 20 minuti e rimanere fermi immobili lì, con Agata. E non lo sa neanche tua sorella, che infatti ignora il tuo parere ma intanto ha rotto quella scena di complicità. Sarà anche per questo che poi lui la manda a casa senza troppi giri di parole, Leandro ad Agata, non tua sorella. Tu, secondo me, hai problemi con tua sorella. O con le scarpe da donna, in generale.

E insomma, stai lì sotto le coperte, che fa freddo qui, a sud, anche se vieni dal nord Europa e ti dicono che dovresti essere abituato ormai, che fa freddo lì, a Bruxelles, stai sotto le coperte invece, qui a sud, mentre di là russano, tuo fratello non c'è e tua sorella si è messa anche le scarpe, non quelle che avevi detto tu, ovviamente, e pensi Ma che cazzo è il natale se quei due lì russano, quello non c'è e questa scende adesso a scopazzare, dicono il natale, la magia, beh la magia con sottofondo di russate mica incanta tanto, primo, e poi ti domandi che ci fai lì, non lo so, sembra un film già visto, già vissuto, che si ripete, e non ti piace, sto film. Solo che i regali, gli acquisti, che volevi darli, i regali, e scambiarli e anche riciclarli, come al solito, hanno quella magia quando tutto inizia, quella dell'attesa, come il sabato del villaggio insomma, e invece poi arriva natale e loro russano, l'altro non c'è e tua sorella esce. Con le scarpe, le altre, ovviamente. Per fortuna poi ci sono gli amici, che a breve ti passano a prendere e ti portano in giro, per gli auguri di natale, che anche se quel film lo hai già vissuto uguale, non t'importa, è diverso con gli amici. Sarà che non russano, gli amici, e non portano scarpe femminili. Tu, secondo me, hai qualche problema con la famiglia. O con i film di natale, in generale.

Io sono quello che non ce la faccio, scrive Paolo Nori. Secondo me, volevi scrivere lo stesso adesso, però ti sei dilungato giusto un po'. Buon natale allora, anche se l'avete già vissuto e l'anno prossimo arriva uguale.

Sta arrivando


Ma non giudicatelo dal numero di pigiama che riceverete nelle prossime ore.
Buon natale, insomma.

Vieni più vicino

Ma no, lascia stare il tempo, non pensare al ritardo né alla fretta di cui si ciba, portami in giro, in macchina, per le stradine di questo paese, voglio ricordare tutte le volte che mi son passate veloci davanti, le facce degli altri attraverso il finestrino, le ricorderò come una sola volta, un impasto di memorie per il collage di un solo paesaggio. E lascia stare pure l'italiano, parlami come sei, lascia pure che il dialetto colori le tue parole e insapori queste eco d'intercalari e dittonghi saraceni, voglio rivedere quelle facce che ho sempre visto in giro e distinguerle da quelle nuove, sconosciute, di generazioni che vengono a prendersi il proprio posto nella piazzetta sempre all'ultima tendenza, voglio rivedere il barista che non cambia se non nelle rughe che disegnano anni accumulati e smorfie d'abitudini, voglio rivederli tutti, quelli che riportano il tempo indietro come se qui, a sud, anche il tempo andasse a rilento, anche il tempo cambiasse marcia e ritmi eppoi - come cantava quella vecchia canzone - vulesse arrubbà' senza me fà' vedè' tutt'e facce d'a ggente.

E dimentica ti prego che vengo da Bruxelles, c'è questa parte qui, guarda, dietro gli occhi e quel batuffolo di ricci cerebrali, che non s'è mossa, è rimasta qui, uguale, come immagine di questo intorno, me la porto dietro, in segreto, quando m'occorre un palcoscenico dove piazzare gli amici nel mezzo di una nostalgia o quando ricevo una tua email e devo pur immaginarti su uno sfondo che non sia nero di caratteri e il bianco della pagina monotona. Ma ecco, non mi hai capito, cerca d'ignorarla Bruxelles, no, non è un altro mondo lì, non pensare a perfettissime strutture e umanoidi incorruttibili, non pescare una frase fatta dal tuo repertorio di frasi fatte (sono già fatte e son fatte male), prova ad abbandonare stereotipi di fughe, di mondi migliori e valigie mutanti. Io adesso non sono Bruxelles né tutti gli italiani all'estero in rappresentanza istituzionale, io adesso non sono in comizio a venderti il mondo che c'è fuori, tanto meno a puntar il dito contro il tutto che non funziona qui. Sono un altro con la faccia di qualcuno che conosci, ecco, prova a conoscermi, togliti questi occhiali di giudizi e sapienza, lasciami fare, qui, te li poggio qui, dopo li riprenderai, tranquillo, ne avrai bisogno perché odi la miopia eppure basterebbe avvicinarsi un po' di più, per vederle meglio, le cose. Vicino, vieni più vicino, è così semplice a volte, hai visto? C'è un sorriso. Ché per quanto possa dire che non son vacanze queste qui o ripetermi che il rientro dell'emigrante è un'altalena amara che poi lascia bile nera, non è vero niente, no. C'è un sorriso, hai visto? Me lo tolgo subito però, che altrimenti sembro scemo.

Poesia di natale

E se domani cade la neve
non rinchiuderti in casa,
non coprirti con i guanti,
ma prova a toccarla, la neve,
non fosse altro che per capire
se lo sei oppure no, ecco,
un fantasma.

E se stanotte cade la neve,
ma ne cade tanta, di neve,
non ti faranno volare domani,
italiano all'estero nel nord Europa,
come l'anno scorso qui a Bruxelles,
ma non bestemmiarla, la neve,
che se insisti puoi volare, con la neve,
ma poi rischi di diventarlo anche tu,
ecco, un fantasma.

Ah, le vacanze

Ecco, pensavo al volo della prossima settimana e alla fine ne è uscita fuori questa
vignetta, che più che una vignetta è una sfera di cristallo.

C'è chi si perde

C'è chi si perde a Bruxelles tra il freddo dell'inverno che lento più del solito decide d'abbracciare edifici e sciarpe, mentre tra le casette di legno del mercato natalizio paga un vino caldo che riscalderà la gola rauca ma chissà i pensieri, appena il fiato fa nuvole nell'aria perché sì fa freddo, appunto, ed i pensieri son fugaci, s'intravedono nella condensa e poi van via, veloci, quando scompaiono perché caldi ma non abbastanza. Son più caldi in compagnia, quando c'è chi si perde tra salti e sorrisi in un concerto degli Shantel all'Ancienne Belgique, dimenticando giornate di lavoro ed impegni voraci, voraci di tempo ed energie, che non son mai troppe se nel girar lo zucchero al caffè c'è il sonno che bussa all'epifisi perché - dice - c'è quel sogno da terminare e un bisogno bulimico da accontentare, sicuramente non adesso, adesso che sei lì ballando allegro e c'è un tizio a lato che si accende una sigaretta dove non si può. Non si può, hey, hai visto il cartello? mi dispiace ma bisogna spegnerla - gli fai notare - e lui lo fa, ti stringe la mano e continua a ballare, con te, che gli avresti dovuto offrir una birra per il gesto, che non è da tutti, lo sai, come sabato sera all'Antitapas qui a Bruxelles, serata organizzata anche da italiani, dove ad un certo punto fumavano tutti ovunque, dove non si può. Non si può, mi dispiace, hai detto all'organizzatore, italiano, che fumava anche lui e rispondeva spallucce, perché non basta andar all'estero, non c'è filtro allo sportello Ryanair, non c'è mica un'Italia migliore fuori dai confini, c'è la stessa miscela nel campionario statistico, gli stessi talenti e gli stessi idioti, solo che si perdono, anche loro, tra accenti stranieri e un salario migliore, tra la speranza di trovare soddisfazioni represse e la convinzione di poter far legge propria solo perché altrove, e son proprio quelli poi che ti fan sentire come chi normalmente deridi: italiani all'estero che odiano altri italiani all'estero. Ma sarà lo stress, sarà che c'è chi si perde in qualunquismi dannati ed opinioni affrettate, mentre una chouffe scende veloce in gola ed il ragazzo tedesco ti racconta storie di gente che t'immagini, distrattamente, e ti perdi anche tu, tra facce sconosciute e fantasie stereotipate, mentre l'ultima birra raccoglie i pensieri già più allegri e l'orologio ricorda che domani ci son mostri da affrontare, ti perderai anche tu, nuovamente, appena la metro striderà la chiusura delle porte e sarai arrivato, mentre altri, intorno, si perderanno a loro volta, ognuno coi propri mostri da piegare.

Povera Italia


Video sulla fuga dei talenti, anche se io son sempre contrario a gridare
alla fuga, che per me dovremmo andar in giro anche se l'Italia fosse
il paese con il tasso d'occupazione più alto del mondo, non fosse altro
che per scoprire quello che c'è fuori e scoprire in modo diverso anche il posto
da cui si viene, da fuori, e anche se stessi, attraverso gli altri. Però il video
non è male, anche se più che a Bruxelles è girato nel micromondo
degli eurocrats, ma va beh, ve lo condivido.

O forse sei solo più simpatica

Ma aspetta un attimo Bruxelles che così finisci per confondermi, se quando arrivo alla fermata della metro tra il sonno che ancora oscilla sulle sopracciglia ed il rumore della ferraglia affollata che arriva da lontano, tu diffondi tra i corridoi sporchi della stazione quella canzone che lì non m'aspettavo, un Ancora Tu di Battisti che a tanti chilometri di casa quasi non riconoscevo e invece era lei, ancora lei, e come stai? domanda inutile, appunto; e non contenta il giorno dopo, alla solita fermata, ecco che la testa quasi inizia a ballare in quella piacevole sveglia mattutina che sembrava quasi irreale, tu Bruxelles che fai? Metti Mille bolle blu di Mina, lì, che volano e volano e volano, che qualcuno direbbe mal s'adattano a quell'intorno sotterraneo, al vagone intasato, gli odori viziati, e invece no, porta allegria improvvisa quando il riflesso del finestrino opaco ti regala un sorriso sincero. Di tutte le facce che nei tuoi vicoli germogli, sei anche italiana, Bruxelles, che non me l'aspettavo quasi 3 anni fa né potevo mai dedurre dalle parole del ragazzo americano, di tutte le città del nord Bruxelles è quella più a sud, diceva, anche se magari lui, il ragazzo americano, avrà visitato soltanto te, Bruxelles, e poco importa se c'è sempre chi arriva euforico e si aspetta d'incontrare la capitale d'Europa, poi finisce che lo sorprendi, magari un mattino nella metro, in una colonna sonora di un film di cui non ricordi il titolo perché forse non l'aveva, o c'è chi ti vorrebbe efficiente, ti vorrebbe efficace, ti vorrebbero perfetta e non vorrebbero te, sappilo, perché tu non sei. Ma poi ci penso meglio, Bruxelles, quando arrivo felice in ufficio e lancio in una smorfia che abbiamo un governo! il collega belga, quello del nord, mi spegne come una candela dove c'è già la luce elettrica, ma tu non sei belga, non dovresti dire "abbiamo", mi dice, forse irritato, è solo che dopo quasi tre anni qui con te, Bruxelles, non mi sento belga, no, ma se ti vivo e pago le tasse, se continuo e pago pure un mutuo, allora permettimi d'esser felice d'un governo, che sarà mai, anche se non l'ho votato, anche se non son belga e forse mai lo sarò, se solo sapessi cosa significhi, essere belga, se solo qualcuno me lo potesse spiegare e invece tu no, mi sussurri Battisti e Mina nella metro del sonno e le lancette frettolose, a ricordarmi radici che a volte ho pure bestemmiato, come si bestemmia il nome di un dio che non ha mantenuto le promesse sussurrate, come si odia un fratello maggiore dopo una sfuriata di schiaffi e grida. Solo che poi le ascolto, quelle canzoni inattese, chiudo gli occhi e per un attimo sto anche meglio, Bruxelles, tutto il resto scompare, stai come me e ci scappa da ridere, diceva lui.

Ma tanto tu vivi all'estero, che ti frega?

Le lacrime della Fornero hanno lasciato uno sconcerto disarmante, immediato, profondo, quell'immagine, quelle lacrime, per quanto non si voglia attribuire loro metafore o demagogia, rappresentano un passaggio preciso, esattamente alla parola sacrifici, un'introduzione che probabilmente meglio non si poteva esprimere per trasmettere il futuro prossimo, seguite da quel sorriso cinese e le parole robotiche di Monti, come bollettino di guerra, dettato del prof da ingurgitare stando attenti a non lasciarci le penne. Il primo che oggi magari distrattamente, magari soltanto in una battuta senza peso, mi dirà quella frase tipo "ma tanto tu sei all'estero, che ti frega?" si becca un gran bel vaffa, netto, sincero, con piacere. Perché ci son sempre quelli lì, quelli che credono che andando all'estero si passi per un ponte di dimenticanza ed alterigia, come se parlare un'altra lingua o vivere sotto un altro cielo possa ricoprire pelle e pori di un'armatura, e ci son anche quelli che non hanno bisogno di sentirselo dire, lo credono, ne vanno fieri, son felici di star da un'altra parte e quasi si gustano con soddisfazione le notizie di questi giorni riassumendo in un "che mi frega, io son altrove", magari provando un orgasmo d'orgoglio nel commentarle. E se anche non fosse che oramai nel mondo globalizzato tutto è connesso e più che per un volo di farfalla in una foresta amazzonica, l'uragano si scatena per un vecchietto che non riceve la pensione in un paesino dell'entroterra meridionale, c'è dell'altro meno lontano dei grafici dei mercati e più semplice delle teorie economiche moderne: c'è la sfera personale, c'è la famiglia lì, amici e parenti, quelli che la crisi non la leggeranno soltanto sui giornali seduti al loro ufficio la mattina, ma la vivranno probabilmente sulla propria pelle: è per quelli lì che il mio vaffa uscirà netto, sincero, con piacere, è per quelli lì che c'ho come un nodo in gola adesso, perché prima di essere italiano all'estero, prima ancora d'essere qualcuno in un paese straniero, sono un figlio, sono un fratello, un amico, un conoscente.

Chicchi di mais

Poi leggi ed in mente hai la scena esatta, davanti agli occhi. E finisce che la disegni.

Un governo in Belgio, F.A.Q.

Dove eravamo rimasti?
Praticamente dal 13 giugno 2010 (ultime elezioni in Belgio) la formazione del nuovo governo ha preso più tempo del previsto, tanto da assegnare il record assoluto di paese senza governo per il maggior lasso di tempo, anche se c'è bisogno di chiarire una cosa: la notizia "il Belgio non ha un governo da un anno e mezzo" non è propriamente corretta, perché un governo nel frattempo c'è stato, quello temporaneo guidato dal primo ministro uscente. La notizia corretta dovrebbe essere "in Belgio la formazione di un nuovo governo sta impiegando più di un anno e mezzo", altrimenti c'è chi pensa che qui possa regnare l'anarchia, cosa praticamente impossibile vista la tela di comunità e decentralizzazione di alcuni poteri.

Perché tutto questo tempo?
Perché il Belgio è il paese del surrealismo, ma anche perché si era chiesto di creare un governo alle due parti vittoriose dopo le elezioni, rispettivamente di destra a nord (nelle Fiandre) e di sinistra a sud (in Vallonia), insieme, cosa alquanto impossibile. La differenza profonda di vedute e di interessi, la divisione culturale tra olandofoni e francofoni e la delicata questione degli interessi linguistici ed economici intorno alla regione di Bruxelles hanno creato diversi momenti di stallo e sconforto per il re che ha dovuto cambiare più di una volta nomine di formatori, ispettori, mediatori, informatori per il nuovo governo. I cittadini hanno manifestato il proprio disappunto, senza però influenzare in modo decisivo la situazione.

Cosa è successo di recente?
Finalmente il punto chiave della rottura è stato risolto lo scorso 11 ottobre 2011, quando dalle trattative è stato escluso il partito che aveva vinto le elezioni al nord e si è giunti ad un accordo sulla questione dei diritti giudiziari ed elettorali della famosa BHV, un insieme di comuni in cui una maggioranza linguistica non aveva alcuni diritti altrove evidenti, ma il Belgio si sa è un paese abbastanza complesso.

Eppoi cosa è cambiato?
Il nodo cruciale è stato sciolto eppure una nuova situazione di stallo si è creata sull'approvazione della nuova finanziaria. Il formatore ed acclamato eroe fino a quel momento, Elio Di Rupo, ha consegnato le proprie dimissioni al re, deluso ed incapace di andare avanti con i partiti coinvolti fino a quel momento. In un oramai famoso editoriale de Le Soir, il maggiore giornale francofono belga, si legge addirittura che s'impone a questo punto la separazione del paese. Per molti invece le dimissioni son state soltanto un modo di far pressione sui partiti in modo da accelerare le trattative, viste anche le pressioni dei mercati.

Infatti, i mercati come commentavano la situazione in Belgio?
La lentezza della formazione del nuovo governo ha suscitato più volte l'interesse dei mercati, visto anche il grande debito pubblico del paese, etichettando il Belgio come il prossimo paese, dopo l'Italia, prossimo ad una crisi economica. Il governo temporaneo non poteva approvare la finanziaria, avendo poteri limitati, eppure il primo ministro uscente, Laterme, è riuscito in un quasi miracolo, chiedendo al popolo belga di acquistare quanti più titoli di stato e così è stato: record storico, 4.5 miliardi di euro son stati incassati dallo stato, prestati dal proprio popolo. Questo ovviamente non tampona il debito ma rassicura sicuramente da eventuali pressioni dei mercati, almeno per il momento.

Torniamo alle dimissioni. Cosa è successo poi?
Come previsto da molti, la strategia delle pressioni ha funzionato ed ecco che il 26 novembre è sbocciato l'accordo sulla nuova finanziaria, Di Rupo ha ritirato le proprie dimissioni (sospese dal re con riserva) e si appresta ad essere il primo premier vallone da più di 30 anni in Belgio. La crisi, salvo eventuali catastrofi dell'ultima ora, è terminata: per il 5 dicembre è previsto un nuovo governo in Belgio.

Finalmente! Beh, tutto bene quel che finisce bene, no?
Vedremo. La prima sfida di questo governo sarà sicuramente durante tanto quanto ci ha messo per formarsi. E non è poco. Inoltre, sono già scoppiate le polemiche sui problemi linguistici di Di Rupo: in Belgio il primo ministro dovrebbe essere linguisticamente neutro, parlando bene sia il francese che l'olandese, mentre il futuro designato ha carenze palesi con l'olandese (e anche con l'inglese), addirittura peggio della donna delle pulizie nigeriana di De Wever - secondo lui - da appena due anni in Belgio. Sarà sicuramente un'eccezione su cui molti passeranno, visto il periodo di crisi, ma che sarà una forza in più dell'opposizione, guidata inoltre proprio da colui che le elezioni le aveva vinte in giugno, De Wever. Quindi non si preannuncia per nulla un clima politico di serenità. Ad ogni modo, sì, finalmente!

Sonno.

T'ho visto nello sguardo puntato al pavimento di chi cercava tra qualche macchia e le scarpe allacciate male l'energia per un risveglio troppo lento, sonno, e t'ho visto di riflesso in chi si fissava apatico nella propria immagine del finestrino opaco, perso in un vuoto in movimento, mentre la metro sfrecciava veloce nei suoi scricchiolii metallici. E tu, sonno, sei lì, imperterrito, ogni mattina, mentre una calca di braccia e gambe entra cercando inerme un appiglio per la mano che non è per la mano, è per appenderci il corpo, aspettando che tu lo abbandoni, nell'attesa d'energie mattutine che verranno, repentine come frustate quando la fermata sarà quella della destinazione e l'ultimo sorso avrà terminato il bicchiere e la dose mattutina di caffeina, in attesa che aumenti il flusso di sangue ai muscoli ed il fegato rilasci glucosio; sei lì, quando uno sbadiglio intona i tuoi ritmi blandi ed il colore violaceo sotto gli occhi manifesta ore strappate alle lenzuola, riportate alla realtà da una sveglia insensibile che scocca l'ultimo secondo prima d'azionarsi quasi nel piacere di rompere quel legame con la notte, che sia di sogni beati o d'un buio fatto di nulla non importa: t'avrebbe annientato se abbastanza e invece non è mai abbastanza, perché poi sei lì, maledetto, sonno.
C'è chi nella metro tenta di distrarti cercando il senso di un articolo tra le pagine stropicciate di un giornale e chi prova a stordirti con cuffie e musiche convinto che il risveglio passi per il fracasso dei timpani. Anche di quelli altrui. T'ho visto anche nel nodo imperfetto della cravatta a strisce e nell'abbinamento, della cravatta a strisce sulla camicia a strisce. Poi t'ho visto come spazzato via, avrai avuto quasi paura o non avrai nemmeno avuto il tempo di avvilupparti a qualche altro ricciolo di connessioni neurali, quando il bambino dal passeggino ha sorriso, lì in mezzo al vagone, d'improvviso, in quel suo verso stridulo ma inconfondibile, e come raggi di luce diffusa ha richiamato l'attenzione e le smorfie del riflesso nel vetro, del corpo appoggiato ad una barra e anche della testa bombardata da urla rock, di colpo ha conquistato la scena, quel pezzo di carne avvolto in un plaid, e t'ha sconfitto, l'ho visto, t'ho visto, sei morto nel sorriso contagiato.

In giro con un mouse

Sebbene sian state pronte lì, in attesa, qualche anno, le immagini di Google Street View in Belgio sono disponibili soltanto da una settimana, causa vincoli di privacy vigenti nel paese che ne impedivano la pubblicazione e nonostante la lunga attesa non son mancate le polemiche. Ieri sera me ne son andato in giro per Bruxelles, dal divano di casa.
Il famosissimo Atomium, qui.
Lo spiazzale di Mont de Arts, qui.
La vecchia borsa, in pieno centro, qui.
Terrazze e bar in St. Gery, qui.
La bellissima Grand Place, qui.
L'enorme palazzo di giustizia, in eterna manutenzione, qui.
Il bruttissimo palazzone della Commissione Europea, qui.
A passeggio per il Parco del Cinquantenario, qui.
L'arco del parco, qui.
Il nuovo quartiere nei pressi della Gare du Nord, qui.
Il quartiere a luci rosse, con le ragazze in vetrina, un po' come ad Amsterdam,
solo che a Bruxelles è decisamente più squallido. qui.

Efficienze europee

Un uomo in una mongolfiera sorvolando una campagna belga si rese conto d'essersi perduto. Riducendo l'altitudine intravide una donna più giù. Discendendo ancora un po', gridò "Scusate, potete aiutarmi? Avevo promesso ad un amico d'incontrarlo un'ora fa, ma adesso non so dove mi trovi". La donna rispose "siete in una mongolfiera, a circa 30 piedi da terra, tra 40/41 gradi di latitudine, a nord, e 59/60 gradi di longitudine a ovest".

"Dovete essere un ufficiale della Commissione di medio livello!" disse il mongolfiere. "Lo sono", rispose la donna, "Sono del livello A*8. Come fate a saperlo?", "Beh", rispose il mongolfiere, "tutto quello che mi avete detto è tecnicamente corretto, ma non ho idea di cosa fare con questi dati ed il fatto è che sono ancora smarrito. Sinceramente, non mi siete stata per nulla utile. Anzi, avete anche ritardato il mio viaggio".

La donna da giù rispose "Dovete essere un alto funzionario della Commissione!", "Lo sono", rispose il mongolfiere, "Ma come lo sapevate?". "Beh", rispose la donna, "Lei non sa dove sia o dove stia andando. Siete salito sin dove siete adesso grazie ad una grande quantità d'aria calda. Avete fatto una promessa che non sapete mantenere e pretendete che gli altri risolvino il vostro problema. Il fatto è che siete esattamente nella stessa posizione in cui eravate prima di incontrarmi, ma ora, in qualche modo, è colpa mia".

Preso e tradotto da qui.

M'illumino d'accenti

Quando l'ho detto ai tasti degli accenti, che per usarne uno c'è chi ha avuto problemi, che "devi fare tre mosse con la mano molto poco pratiche", o che addirittura poi, anche dopo le tre mosse molto poco pratiche, succede che ci son "refusi di stampa dovuti ai programmi dei computer che tutti coloro che li usano regolarmente sanno che correggono automaticamente gli scritti", non m'hanno capito, per via delle mosse, per via dei programmi o per via dell'italiano, che quasi volevan andarli a conoscere, gli altri, i tasti della Biancofiore, ma ho detto loro che son tasti virtuali, roba nuova, d'iPad, e che poi bisogna lasciarla stare, la Biancofiore, che è un onorevole, appellativo che sottolinea la fiducia a lei assegnata da parte del popolo elettore (pensa te) e che altrimenti lei chiama la mamma "che è stata insegnante e ha seguito il mio percorso scolastico, oggi gravemente malata e che non ha bisogno di altri dispiaceri". E loro, i tasti degli accenti, non vogliano darne, di altri dispiaceri, solo che per calmarli poi ho dovuto accarezzarli un po', continuando come in una ninna nanna, a ripetere incapacità, immaturità, comicità, vanità, democraticità, bidè.

Breaking news

Vi ricordate la storia della matematica, delle scimmie e del Belgio? Ecco, ci rinuncio. La nuova teoria è che una scimmia all'infinito battendo tasti a caso su una tastiera potrebbe anche scrivere tutta la Divina Commedia e tutte le opere letterarie di questo mondo, grazie alla potenza e al fascino del caos, e allo stesso modo scegliendo a caso parti politiche e programmi potrebbe anche formare il governo migliore in qualsiasi paese del mondo, ovunque, ma non in Belgio, mi dispiace prof, ma qui in Belgio salta anche la legge dei grandi numeri, se insegnaste ancora, caro prof, vi toccherebbe darla quella mezzora in più al compito di matematica, adesso, che agli studenti queste cose non sfuggono mai, son furbi quelli lì, che nei bagni della scuola finirebbero per scrivere addirittura W il Belgio!, forse pure con due g, mentre quello, il Belgio, continuerebbe a star così, in cerca di una propria identità.

Nonna, se solo sapessi

Esci dall'ufficio con il sorriso del venerdì pomeriggio e prendi la metro di chi tira una valigia in fretta, chi un pensiero affaticato, chi il riflesso del finestrino opaco. Quando scendi alla tua fermata già non ricordi bene come arrivare allo studio del medico che avevi trovato su internet ma pas de problèmes, ti colleghi un attimo con il cellulare e trovi l'indirizzo lì dove lo avevi segnato, su google calendar, anzi ti ha creato in automatico un link, si apre prima google maps, poi parte il navigatore e voilà, in cinque minuti sei in quella strada dal nome fiammingo quasi impronunciabile, ti ritrovi nella sala d'attesa di chi sospira frugando le crepe del soffitto, chi sfoglia nervoso una rivista di qualche anno addietro e chi cerca qualche pensiero sbadato tra le sporcizie delle unghie. Le persone in attesa nella sala d'attesa di un medico, per quanto possano sembrare diversissime, hanno sempre qualcosa in comune: c'è qualcosa che non va, altrimenti non starebbero lì, tutte insieme. Ma proprio perché c'è qualcosa che non va, bisogna saperlo dire e allora di nuovo mano al cellulare, si apre google translator, ah ecco come si dice bruciore in francese, e stomaco, aspetta fai copia, apri il browser, fai incolla, ecco nei risultati, proprio le espressioni che volevi tu. Arriva il medico, è il tuo turno, sai già cosa dirgli e come, benedetto cellulare, che ti ha portato fin lì e ti ha fornito pure le parole. La prossima volta che tua nonna, emigrante in Germania per quasi 40 anni quando tutto era diverso, al telefono ti dirà quelle frasi tipo "eh, non è facile la vita all'estero, io ti capisco" dovresti rispondere senza troppi sotterfugi che macché nonna, se solo sapessi, a volte è tutto fin troppo facile, oggi. Basta viverlo, il futuro, per quelli che ne hanno accesso, ovviamente, e domani arriverà presto, quando inventeranno il teletrasporto e non ci saranno più emigranti, saremo tutti uguali. Ci pensi, nonna? Cosa dici? No, no, avevo detto google maps, no giusto qua. Va beh, niente.

Cosa nel nome di Dio ti da diritto a dire questo al popolo italiano?



Le polemiche continuano anche nel Parlamento Europeo, dove il solito
Nigel Farage attacca il presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, con
"Tu, uomo non eletto, sei andato in Italia e hai detto "questo non è il momento 
per avere elezioni, è il momento di agire. Cosa in nome di Dio ti da il diritto di dire 
una cosa del genere al popolo italiano?".
É che quando fai parte di un club poi il club può darti pure ordini.

Numeri non a caso

C'è pure chi oggi ha aspettato con ansia lo scoccare dell'undicesimo secondo delle ore 11 e 11 minuti del giorno 11 del mese 11 del 2011, perché non capita spesso o perché la noia è davvero un male anche se fuori c'è sempre tanta vita, basta cercarla. Però se proprio son i numeri ciò che tanto affascina, quasi dimenticavo di dirlo a quelli lì, quelli delle 11 e 11 e 11 dell'11 novembre 2011, ecco vi è sfuggita una cosa, sicuramente. Se son tutti 1 non è certo il caso, che 1 nella smorfia napoletana è l'Italia, nulla di più attuale al momento, tra giornali, mercati e complotti; 2, la somma delle cifre di ogni 11, è la bambina, sempre nella smorfia, che al momento l'Italia è come una bambina, bisogna prenderla per mano, una mano forte, una mano europea o una mano di pochi, di sconosciuti, che tu la mano non gliela stringeresti mai, a quelli lì, perché poi finisce che la violentano, quella bambina. E alle ore 11 e 11 avevamo il 4, come somma delle cifre, che sarebbe il porco, sempre nella smorfia, e il porco lo sapete già chi è, quello che deve lasciare perché alla fine ultimamente più che a pensare a migliorare il paese ha pensato a un'altra cosa, proprio quella delle 11 e 11 e gli 11 secondi, siamo a 6, la fica, appunto. E senza dilagare troppo, se le sommiamo tutte, quelle cifre, arriviamo a 12, il soldato, quello inviato dai generali a guidare il paese (con che esercito poi), quello che più che lottare per la patria lotterà per la vittoria, quella dei generali però, mica la nostra, che noi se non stiamo attenti facciamo la fine dell'11, i topi.

Adozioni irresponsabili

Dicono sul Corriere di adottare una parola e lo pensavi oggi nella metro, affastellando pensieri tra le pareti cerebrali quasi fossero corpi estranei, mentre finisci sempre col delibare di pensieri altrui, che loro, i pensieri degli altri, non ti trascinano in diatribe irrisolvibili né però ti lasciano emaciato, sono invece da scoprire, con leziosità, tra il cruccio di un sopracciglio ed il sorriso regalato ad un finestrino, propinando personaggi che non appartengono che a quell'intorno, la metro spesso uggiosa, mentre con perseveranza ti perdi in fronzoli calligrafici d'espressioni di passaggio, presagendo umori scomposti nella fuggevolezza di quell'equilibrio, lì, tra una fermata e l'altra, fra la fandonia di chi dirime uno sguardo incrociato e l'improntitudine di chi lo cerca, per un interesse sconclusionato, nella superbia narcisistica di carpirne dettagli magari stantii ma che poi lusingano, inevitabilmente, nei pensieri degli altri, senza lasciare mai contriti all'ultimo passo, quello della tua fermata ed il ritorno ai pensieri di partenza, i tuoi.

Cose che quando parli italiano

Capita spesso vedere che, per un motivo o per un altro, due connazionali parlino tra loro in una lingua a loro straniera e vedere come lei, la lingua straniera, sia fuori posto in quel momento, quasi fosse il doppiaggio maldestro di voci estranee. Così, per esempio, con il collega italiano può capitare di parlare in inglese in ufficio anche se non ci sia nessun terzo interlocutore, ma soltanto per educazione, se qualcuno fosse lì vicino e magari volesse intervenire, o addirittura a volte per abitudine, per poche parole tecniche d'uso quotidiano. O per distinguersi dai colleghi francesi. Capita anche però che se devi commentare il titolo di una notizia, qualcosa del paese comune o una stupidaggine che agli altri neanche importerebbe, beh a quel punto la si dica in italiano, tra italiani, come in olandese tra belgi del nord, anche se loro, i belgi del nord, sono a casa loro, a Bruxelles, più o meno. Cose naturali, insomma.

Così si crea una certa intimità, di parlare in una lingua che gli altri non possono capire e dire cose anche private senza che gli altri se ne possano rendere conto. Così si crea un certo scudo protettivo linguistico, che protegge i fatti tuoi, appunto, quando racconti qualcosa al collega italiano alla scrivania di fianco, nell'open space. Così capita che il collega prima di andar via l'altro pomeriggio, si avvicini alla tua scrivania e ti racconti di un problema di salute, di una visita dall'urologo e te lo dica in italiano, appunto, che son cose personali eppoi certi dettagli sarebbero anche macchinosi da spiegare in altre lingue, che loro, le altre lingue, si usano per altro, almeno fin tanto che poi non diventino al tua lingua, un giorno chissà. E capita che il collega non lo dica neanche a bassa voce, che tanto gli altri non capiscono, che tanto è abitudine da due anni dire certe cose in italiano, protetti dal super scudo linguistico, nell'intimità d'accenti meridionali. E capita che si inizi a parlare di visite dell'urologo, di esperienze personali, di dita che vanno in certi posti e che non è mai cosa piacevole. Tu per esempio gli racconti di quella volta che l'urologo si mise il guanto di lattice, fatale presagio, e lui, l'urologo, era come il saggio ma non puntava alla luna e tu, paziente turbato, non eri stolto ma continuavi a fissare il dito, pensando a dove sarebbe finito. Così passa una decina di minuti in discorsi d'ampio sfondo scientifico, un po' come il trapana e succhia di Bart ed altri racconti di un certo spessore medico. E capita pure che il collega, sempre prima di andar via, sempre sotto il super scudo, concluda con una battuta, sempre a tema, magari non elegantissima, e poi d'improvviso diventi rosso, rosso che quasi scoppia. Tu non capisci per un attimo, scuoti la testa ma lui niente. Rosso. Poi ti si bloccano gli occhi e vorresti scomparire, puff, di colpo, che proprio a un metro più in là c'è la collega nuova, quella da due giorni in ufficio, quella silenziosa che ancora si deve adattare, quella che quasi ci si dimentica di lei. Quella italiana.

Dammi il potere che ci penso io

Un video che fa storcere il naso probabilmente non solo agli euro-scettici. Un video fatto copiando lo stile ben riuscito dei noti Story of stuff. Un video che parla di trasparenza ma la mostra per meno di un secondo. Un video che parla di trasparenza ma poi disabilita i commenti. Un video che accusa banche e governi e pone il governo europeo come angelo protettore, lui che aveva avvertito ma poi non è stato ascoltato, poverino. Una propaganda, niente più, che termina con "perché tutti noi meritiamo di meglio", lanciando il messaggio di dare più potere a loro, necessario per salvarci dalla crisi. Dammi più potere, dammelo tutto, che poi ci penso io.

Qui una versione rivisitata. Grazie a chicco per la segnalazione.

La testa nelle stelle e

"La testa nelle stelle, i piedi nella merda!". Poesia. Proprio ai piedi del palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea qui a Bruxelles, nei giorni di meeting importanti.
Foto scattata qui.


Essere italiani all'estero

Li chiamano in tanti diversi modi, con fantasia o disprezzo, con riciclaggio o con orgoglio, ma gli italiani all'estero non son altro che persone normali che vivono altrove. Oppure no.
Essere italiano all'estero è infatti tante cose, alcune speciali, altre banali, che soltanto gli altri italiani, quelli in Italia, possono capire. Oppure no.
Essere italiano all'estero è essere un cervello in fuga e addirittura un danno economico per l'Italia, anche se non tutti sono ricercatori in cerca di fondi e non c'è un filtro al controllo all'aeroporto; la frontiera, se esiste ancora, la attraversano anche quelli che sono in fuga dal proprio cervello e si vede. Essere italiano all'estero è avere i piedi leggeri ma né più né meno dei cugini francesi, spagnoli, tedeschi, irlandesi, polacchi o olandesi, solo che l'italiano all'estero è italiano e allora cambia tutto. Oppure no.
Essere italiano all'estero è lamentarsi in continuazione della situazione politica e sociale italiana ma poi non iscriversi all'AIRE, per esempio, perché è un'istituzione italiana e quindi fatta male, meglio rimanere residenti ufficiali da mamma e papà come foste un fantasma, continuare a non votare dall'estero, anzi dire di non votare dall'estero perché non è giusto votare vivendo altrove ed influenzare attivamente il voto di chi invece lì ci vive ancora,  però continuando a vomitare lamenti, che non si riesce a non pensarci e in fondo è sempre la patria, perché my country, right or wrong. Oppure no.

Essere italiano all'estero è voler essere soltanto qualcuno in un luogo, ma non funziona, perché poi c'è il nome, italiano, e l'aspetto, italiano, e l'accento, italiano, e c'è quella cosa, l'italianità, che è dentro e c'è chi la sfoggia con orgoglio, chi se la porta dietro come un'ombra, chi quasi con vergogna, chi io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Essere italiano all'estero è riconoscere Tiziano Ferro che canta dall'altoparlante della metro di Bruxelles in una serata di solitudine ed avere come un senso di disgusto che sale lento dallo stomaco al collo, dalle dita al sudore sulla fronte, che gli altri x-ani all'estero non possono capire. Oppure no.
Essere italiano all'estero è venir considerato il giudice supremo di ogni lasagna e tiramisù, della pasta super scotta fatta dall'amico tedesco, per esempio, che non avresti mai mangiato neanche con la pistola alla tempia ma che ingoi, anzi lasci sciogliere in bocca, con il sorriso di un'educazione empatica; o essere chiamato ad assaggiare la pizza, quella lì che tutti suggeriscono in città, anche se tu, in Italia, magari la vera pizza non sapevi neanche che sapore avesse, ma tanto chi te lo chiede non lo sa, sa che sei italiano, un italiano all'estero, e allora tu sei l'Italia. Tu. Pensa te.

Essere un italiano all'estero significa conoscere una ragazza colombiana bellissima che poi ti dice di stare con un italiano e d'improvviso sentirsi quasi in colpa a guardarle la scollatura, che se fosse stata con un francese ci avresti provato quasi più gusto ma con un italiano no, che è subito in famiglia e ti dispiace.
Essere italiano all'estero è rappresentare l'Italia tutta in una sola persona, quando in ufficio il collega si avvicina parlandoti dell'ultima battuta internazionale di Berlusconi con gli occhi increduli e con il tatto di chi ti sta annunciando un lutto improvviso, a te che magari la notizia era addirittura sfuggita o che l'assuefazione di abitudini natali sminuiscono notevolmente o a te che invece ti difendi, come a sentirti attaccato da forze straniere, come a vestirti da ultimo fante inviato a lottare contro i barbari invasori. Oppure no.
Essere italiano all'estero è sentirsi responsabili se in ufficio sta per arrivare un nuovo collega, italiano, sentirsi responsabile delle sue capacità, del suo inglese, della sua cultura, perché lì, nel tuo ufficio, italiano come te, rappresenta anche te, rappresenta un'altra finestra sul tuo mondo per gli altri, fatta di stereotipi da confermare o novità da scoprire, rappresenta un te che non puoi controllare perché non sei tu ma che ha conseguenze su di te. Oppure no.
Essere italiano all'estero è confrontarsi costantemente con gli altri italiani all'estero, giudicarli, osservali, godere dei loro errori nella lingua straniera, ridere del loro accento inconfondibile, evitarli quasi fossero la peste o finire col relazionarsi soltanto con loro, perché gli altri, gli altri, gli altri. Ecco, sempre gli altri, ma tu? Essere italiani all'estero significa sentirsi speciali per non si sa quale motivo, sentirsi addirittura migliori rispetto agli italiani in Italia e provare strani orgasmi interiori quando si dice di vivere all'estero, che all'estero è tutto più bello, anche la pioggia. Oppure no. Essere italiani all'estero è vantarsi di vivere in un paese più civile, poi però tornare in Italia e dimostrare di non aver imparato molto da quella ostentata civiltà, ma la colpa poi è sempre dell'intorno, italiano. Oppure no.
Essere italiani all'estero è sentirsi chiamare vigliacchi, fuggiaschi, egoisti, per avvantaggiarsi di un'agevolazione dei tempi moderni e volare altrove con pochi soldi e provarci, senza ancora la consapevolezza di diventare così un italiano all'estero. Ah, perfida trappola!

Essere italiani all'estero è tornare a casa credendo d'essere in vacanza e fare a cazzotti con il proprio passato, venir travolti da valanghe d'emozioni, positive e negative, e riprendere un aereo con il testa battaglie di ricordi e certezze, delusioni e conferme.
Essere italiani all'estero significa decifrare una propria italianietà anche negli altri e attraverso gli altri conoscere la propria, finire con l'imparare qualcosa di più della propria terra vivendo altrove e poi tornare in Italia e sentirsi mezzo straniero, perché magari non tutte le scoperte lasciano il sorriso, non tutti i cambiamenti son compatibili con la vita che si aveva prima, non tutti gli italiani all'estero poi riescono a vivere in mezzo agli italiani in Italia e rimangono come in un limbo amaro di compromessi e nostalgie. Oppure no.
Essere italiani all'estero è tutto questo e tanto altro oppure no, perché ciascuno in fondo ha la propria avventura all'estero, il proprio equilibrio da trovare anche con la propria italianità, la cultura che vuoi o non vuoi hai dentro per educazione e che farà parte del percorso personale nelle culture altrui: l'importante è capirlo, senza drammi né alterigie. Oppure no.

Fai presto a dire pollo

L'antico dilemma è sempre stato se fosse nato prima l'uovo o la gallina e invece poi scopri che oggi il dilemma economico è un altro, che lei, la gallina, è più importante dell'altro possibile contenuto dell'uovo, il gallo, perché lei poi ne fa tante altre, di uova, e le uova poi si vendono. E in più lei si mangia. Lui invece ha la carne dura, non fa le uova e pretende pure di comandare. E finisce col diventare mangime.
Allora il dilemma diventa se è gallina o se è gallo, il pulcino, ma lui, il pulcino, non te lo dice e in più son tutti uguali, galli e galline, fino al primo mese di vita. E un mese, nel commercio, è tanto, è soldi, è spreco. Bisogna fare in fretta, bisogna trovare i polli. Fai presto a dire è un pollo, quando pensi ad un amico, invece non è facile, quando pensi ad un pulcino. A meno che tu non sia giapponese, che loro, i giapponesi, sono tanti in poco spazio e alla fine son costretti a controllare ogni dove: e infatti han trovato la risposta nel culetto dei pulcini. Insomma, loro cercavano di risolvere il dilemma e cercavano in un buco. E ce l'han fatta. Io ho diversi amici che cercano le risposte di una vita in un buco, ma ancora niente, stanno sempre lì, sulla soglia.

Cosa abbiamo imparato? Alcune relazioni non son sempre banali, alcune han tanta fantasia e a volte pure un po' di coraggio, a creare connessioni tra maestri zen, neurologia, misteri del cervello e posteriori dei pulcini E che c'è chi riesce a sessare 1700 pulcini all'ora solo guardandogli il posteriore. E c'è pure chi, sul sesso dei pulcini e sui sessori, c'ha studiato i misteri della memoria umana. E allora, se hai un dubbio, se non trovi la risposta, se non riesci a risolvere un mistero, forse stai semplicemente cercando nel buco sbagliato.

Fiori sull'asfalto

Chi si lamenta dell'età troppo avanzata delle forze dell'ordine schierate (in alcuni gruppi non al di sotto dei 47 anni), chi accusa di usare materiale scaduto contro il gruppo dei violenti (lacrimogeni scaduti 5 anni fa), chi si giustifica di non aver mosso un dito colpito dalla Sindrome di Genova, chi ancora grida contro quei tagli del governo di 80 milioni, chi pensa alla madonnina quando a frantumarsi è stata la strategia di contenimento e con essa la politica che l'ha gestita: a vedere le immagini delle distruzioni di Roma di sabato cresce una gran tristezza. E rabbia. Eppure, ad ogni immagine mi si contrappongono inevitabilmente nella mente le bambine del corteo qui a Bruxelles, che in mezzo ai piedi dei manifestanti (spesso senza idee), in mezzo ai cori contro banche, sistema, capitalismo e corruzione, in mezzo a striscioni, megafoni e rumori, disegnavano fiori sull'asfalto.



Indignati a Bruxelles

Son andato e ho scattato un po' di foto. Da notare la presenza di bambini, gli "indignati veneti"
(lo trovate?), le ragazze mezze nude e la polizia a far blocco quando abbiam cambiato percorso
e ci siam diretti verso la Commissione Europea. Per la cronaca: tutto pacifico.





il signore del negozio vicino casa

Non avevo parlato mai troppo con il signore del negozio vicino casa, uno di quei piccoli alimentari che si trovano ad ogni angolo qui a Bruxelles, ad ogni incrocio ne puoi trovare uno aperto, a qualsiasi ora, mai affollati, dove ogni volta che entri pensi come possano mai andare avanti tra crisi globale e colossi della concorrenza e invece sono sempre lì, come funghi ai piedi degli edifici, nonostante i prezzi sicuramente meno vantaggiosi di altri luoghi fatti di scaffali infiniti ed offerte lampeggianti, loro vanno avanti come quelli di un tempo, come quelli dei paesini dove la gente si conosce per nome e si saluta ad ogni incontro. E proprio lui, il signore del negozio vicino casa, mi saluta ogni mattina, ogni volta che scendo per andar a prendere il tram, con il passo frettoloso inseguito da un ritardo abituale e magari il sopracciglio increspato per evitare qualche goccia accidentale; mi saluta sempre con un sorriso sincero, come fosse felice di vedermi, salutarmi: la felicità è fatta anche di questi piccoli momenti, pensi, mentre la corsa mattutina verso il tram si colora già di sfumature più allegre. A volte basta poco.
Non avevo mai parlato troppo con il signore del negozio vicino casa, ci vado ogni tanto per comprare qualche lattina d'acqua tonica, anche se non le tiene mai in frigo, anche se son cosciente di pagarle qualcosa in più, ma almeno lì sei il protagonista, sei il suo cliente, ti guarda, ti segue con gli occhi, ti chiede, ti consiglia, ti aspetta alla cassa con le dita già sulla calcolatrice, che in realtà non stai pagando una lattina: stai riempiendo il suo tempo. Ma stai riempiendo anche il tuo, lo stai vivendo, più delle file impersonali alle casse veloci o della lista della spesa sempre incompleta: lì, a comprare una lattina di cui non avresti neanche bisogno, che al ritorno devi pure metter in frigo ed aspettare prima di berla fresca, riesci a cibarti di dettagli e sentirti libero di parlare. Però poi non parli mai troppo, con il signore del negozio vicino casa. Lui parla francese, ma non è belga, il popolo dei piccoli alimentari, qui a Bruxelles, di solito è asiatico, d'indiani più che cinesi, o magrebini, e invece lui è polacco, o almeno pensavi fosse polacco o comunque dell'est, tra quei capelli bianchi e quelle rughe pronte a riunirsi tra gli occhi ed il sorriso come corde tese di una chitarra gitana, ad ogni saluto, augurandoti buona giornata e l'arrivederci alla prossima lattina. Mai nel frigo però, mi raccomando.

Poi ieri è successo che non avevi capito bene il prezzo, anche se il prezzo è sempre lo stesso, ma stavi lì, con le mani piene di spiccioli, a contare quanto dare, e il signore del negozio vicino casa te lo ripete, ma in spagnolo. E allora capisci ma non smentisci, però chiedi, chiedi di dove fosse e scopri che è greco, il signore del negozio vicino casa, quello delle lattine, quello dei capelli bianchi ed il saluto quando vai al tram: è greco. Io, i greci, a volte penso non esistano, non se ne incontrano quasi mai, sarà che dieci milioni non son tanti o sarà che non si distinguono così bene in mezzo agli altri come fanno altre comunità. E invece, i greci, stanno in mezzo a noi. E siam rimasti lì, nel negozio vicino casa, quasi una mezz'oretta, a parlare di Grecia, di isole presunte bellissime ma dai nomi irripetibili e sconosciuti, di Puglia e dei suoi viaggi in Italia e anche di Spagna. Poi lo dico, che non sono spagnolo, e lui mi mostra felice un formaggio italiano che vende, nel negozio vicino casa. Non me lo compro, voglio solo la lattina, sempre la stessa, calda. Quando esco dal negozio, quello vicino casa, mi ripeto qualcosa tipo hai capito? è greco, come se la scoperta potesse in qualche modo cambiare il giorno. Non lo cambia, però scopro che nonostante la crisi, il default, le proteste ed i tagli, la Grecia compra 400 carri armati usati. Quattrocento. L'economia del signore del negozio vicino casa è sicuramente più semplice e sensata, pensi, mentre il resto ha vie troppo complesse e macchinose, che quasi sembra strano possa funziona. E infatti non funziona. Per fortuna però l'Europa sa già come salvarci.

Cose che solo a Bruxelles

Poi ti ritrovi in un locale notturno brussellese, tale Madame Moustache, tra luci rosse e musiche sintetiche, che loro, le luci, anche se non accese sanno trasmettere ritmi e metriche, mentre una birra ovviamente insieme e poi un'altra con lui e un brindisi con gli altri, che in pista la folla già freme e la birra barcolla tra gesti altrui maldestri, ma poco importa mentre il corpo trasmette il segnale e allora ti dirigi di fretta ai bagni, è sempre lei, la birra fatale, a te il sollievo e a loro i guadagni, pensi, già, perché a Bruxelles si paga per farla anche se hai già pagato l'ingresso, Un euro tutta la serata o 40 centesimi alla volta, dice il tizio che parla, parla e ti chiede il compromesso e per un euro ha già pronto il timbro per tutta la serata, un timbro solo per il bagno, ridi e vai per i 40 con la vescica emozionata. Panta rei con offerta, pensi, se ne fai tanta, cose che solo a Bruxelles, surrealismo in continua scoperta.

Stay hungry, stay foolish


Qui la traduzione in italiano. Mai stato un fan di Apple e degli i-coso,
ma lui infatti non era solo quello.

Ma tutti uguali no

Questo multiculturalismo ha fallito, ti ripete il ragazzo irlandese, irritato, perché proprio qualche minuto prima una spallata per strada di un magrebino lo aveva costretto ad incroci di sguardi infastiditi e qualche pensiero poco immacolato e te lo dice lui, che ha il naso un po' storto, risultato di una rissa qualche anno fa con dei knackers a Dublino, che loro, i knackers, sono un fenomeno sociale della classe bassa dell'isola, ma sono irlandesi come lui e non sono irlandesi come il suo collega egiziano, con cui lui si trova benissimo, perché l'egiziano - dice - si è integrato, o forse perché viene da un altra classe sociale e allora non importa la provenienza, quel nord Africa comune al magrebino della spallata.

Il multiculturalismo ha fallito, lo han detto anche Cameron, la Merkel e Leterme, insomma lo han detto in tanti, perché ponendo la cultura al di sopra dell'individuo e l'importanza di conservare la diversità al di sopra dell'integrazione si è giunti ad alcuni punti critici di convivenza e comprensione ed è tutta colpa sua, della diversità, che fa benissimo, direbbe il biologo, visto che alcuni virus, per esempio, rimangono confusi di fronte a mix inattesi, ché nell'evoluzione la selezione naturale ha favorito proprio le miscele migliori ed il punto è quello: se c'è il mix. Ma chi s'impunta sul fallimento non pensa al mix, la realtà è ben più chiara: li vorrebbe tutti più uguali. Il collega egiziano magari in giacca e cravatta e dall'inglese certificato è più uguale al ragazzo irlandese e allora trasmette maggior armonia dell'altro, quello meno uguale, il magrebino della strada che magari veste la sua tunica bianca o la signora africana che mostra colori inconsueti. Se fossero meno diversi, se fossero più uguali o se lo diventassero in breve tempo, saremmo sicuramente più felici (o almeno lo sarebbe il ragazzo irlandese e la Merkel) e difficilmente parleremmo di fallimento anche perché a quel punto non ci sarebbe da parlare neanche di multiculturalismo. Facile. Facile, ma anche un po' macabro, diventare tutti meno diversi, anche se ha ragione Fontana quando afferma che la diversità è un mezzo e non il fine, ché nella diversità c'è anche quello che non piace (i pedofili son la parte brutta della diversità, per esempio) e allora non è un fine ma un mezzo per migliorare, solo che in mezzo ci siamo noi, ognuno con la propria cultura da difendere (o da mettere in discussione).

Il punto è che la realtà va in quella direzione da sola e non solo perché lo dice il biologo o la selezione naturale, ma anche perché la realtà è già così, mista e complementare, e lei, la realtà, va avanti anche se non siam d'accordo. Certo, per chi è cresciuto in una famiglia mono-culturale, a scuola in una classe mono-culturale, e gli amici, la televisione e l'intorno mono-culturale, poi è difficile l'approccio col diverso, soprattutto quando quel diverso è anche meno agiato, è ancora più diverso, non solo per cultura ma anche tanto altro, dove la povertà fa da cassa di risonanza e ci fa gridare al fallimento, a noi generazioni di mezzo che vivono l'esplosione di un multiculturalismo che non sarà più un trauma ma la normalità per quelle prossime, le generazioni delle scuole multiculturali, l'università, gli amici e le relazioni sociali. Magari non sarà la perfezione (e lo sa bene mia madre), ma se basta una spallata a farci cadere nel fallimento, beh allora sarà anche peggio.

Mannaggia d'io

Dice lui che io non lascio e mentre lo dice ci son le radici che sembrano quasi materializzarsi per davvero, che loro, le radici, son di lustri e sporche assai, proprio nei giorni in cui muore lei, lei che da radici ed alberi ha creato sorrisi e cambiamento fino al nobel per la pace, assai diverso da quello dato a lui, che non lo sa ma c'è quell'altro che si vanta, che io son stato salutato da Obama eppoi nel video manca una balla di fieno che passi dopo la stretta di mano, ma c'è sempre un nesso se son dalla stessa parte mentre lei quasi si gonfia nell'esclamare io rivolgo il mio plauso e poi spara una storica minchiata, l'ennesima, che quasi verrebbe da dire io non ne posso più e invece lo dice un vescovo a ricordarci del medioevo nazionale certamente non lontano dalle opinioni popolari da bar, che loro, le opinioni a ripetersi son dannose, lo sa bene lui che continuava a dire io ho la fiducia di Moratti e infatti adesso se lo guarda in tv, per fortuna, ma almeno senza dire io son vittima, come rilancia l'altro, sperando che gli dedichino il nuovo stadio lì a Torino o lo facciano santo nel paese degli assurdi, che spesso sembrano tutti ipnotizzati, come ha detto lei, io ero ipnotizzata mentre quello delle radici ingoiava pillole di fertilizzante e loro, le radici, si avviluppavano bene al suolo che intanto sotto franava, come per l'amico che dice io morirò da martire tra il mio popolo, ma quello, il popolo, è il più martire di tutti, in entrambi i casi, che verrebbe da indignarsi, come lui che scrive io sono restato indignato e speriamo che le azioni suonino meglio delle parole, che altrimenti ce le stampiamo sulla maglietta, come ha fatto lei, io senza sono ancora meglio, che non lo mettiamo in dubbio, per carità, però magari senza certe amicizie saresti anche altrove, magari in un altro paese non saremmo neanche costretti a leggere di te, ma tanto siam abituati e l'assuefazione plasma la realtà, mentre lei rilancia io sarò sindaco e a questo punto ci aspettiamo un'altra campagna elettorale come l'ultima e in tv c'è chi deve sorbirsi strane creature gridare io spero la intercettino ridendo con qualche puttana, si vive molto meglio senza tv, sono tutte conferme, mentre le eco degli io io ed io ci riempiono la testa, che noi, a noi, ci vien quasi voglia di bestemmiare, come a liberarsi, soltanto per un momento, in un mannaggia d'io.

Che cos'è un governo economico europeo

"Ora avete ottenuto un governo economico e tutti qui supportano il governo economico europeo, ma che cos'è il governo economico europeo? E' un aereo che atterra all'aeroporto di Atene da cui escono un ufficiale della Commissione, un ufficiale della BCE ed un ufficiale del FMI ed incontrano il governo greco e gli dicono cosa può e cosa non può fare: avete ucciso la democrazia in Grecia, avete tre dittatori stranieri part-time che impongono ai cittadini greci cosa possono e cosa non possono fare."


Nigel Farage colpisce ancora, che sembra quasi una delle classiche barzellette dai 
tre personaggi e invece è un riassunto perfetto di decentralizzazione dei poteri.

Partire è un po' morire, dicono

Te lo diceva lo zio della Germania durante le vacanze estive, lui che vive lì da oramai 30 anni e che quando parla italiano ha un accento un po' strano, da straniero, e lo diceva a te oramai da quasi 4 anni fuori tra Irlanda e Belgio, te lo diceva quasi sottovoce, quasi a nasconderlo da altri parenti nei paraggi e lo diceva con voce ferma e decisa aggiungendo che un giorno ti chiameranno egoista, ti diranno che andar via era facile e comodo e che così si lasciano i problemi agli altri, ma tu non dargli retta, continua per la tua strada, la vita è tua e non puoi frenarti solo per la famiglia e tu gli rispondevi con una smorfia, magari annuendo, forse volendo tracannare una birra, un bicchiere di vino o qualsiasi cosa si possa sorseggiare in quei momenti, dal sapore magari forte, come a spegnere qualche voce interna in un sorso, solo che le mani erano vuote e quella scena non era un film. Poi ti sei voltato, con le parole dello zio in testa, ed hai osservato il nonno seduto qualche metro più in là che con gli occhi ti invitava a restare più a lungo, a tornare più spesso o addirittura a rientrare in patria, che poi non significherebbe rientrare a casa, ma spesso ci si attacca ad un'idea più che alla realtà fatta di distanze e le idee, loro, in famiglia legiferano.

Dicono che partire è un po' morire, e te lo dicono con l'aria saggia, come se a ripetere un detto popolare ci si inietti una dose d'autostima ed infatti il problema è proprio quello: la mancanza di controlli antidoping. Ché se partire è un po' morire, si tornerà indietro solo come zombie, pensi, e invece si torna spesso col sorriso, che pure senza vittorie l'estero è comunque un'esperienza che rimane, per capire meglio te e anche da dove vieni (vedi che ne sa dell'Italia chi conosce solo l'Italia?). Ché se partire è un po' morire, allora tu sei morto, quel giorno lì, mentre l'aereo ti portava lontano dicono ci si senta sempre più leggeri una volta seduti, con le valigie al loro posto e le trafile dell'aeroporto già alle spalle, ma soltanto perché le bilance di Ryanair non pesano anche i pensieri, perché altrimenti avresti dovuto lasciare la testa all'imbarco e negoziare le incertezze alla cassa. E se anche fossi morto, quel giorno lì, allora vuol dire che poi sei rinato, altrove, eccome: alla prima nascita abbiamo tutti pianto appena usciti da quel posto lì materno e al contatto col mondo uno schiaffetto del medico ha controllato subito le nostre lacrime; alla seconda nascita, quella altrove, avrai invece urlato, ma di gioia, per quante emozioni t'hanno preso a schiaffi, di nuovo, non sul culetto ma in pieno viso, nel positivo come nel negativo, per controllare subito se eri vivo.

Poi però leggi le ultime righe di Stefano ed eccolo lì, di nuovo e di nuovo, il problema dell'emigrante, perché Stefano aveva iniziato un progetto con il suo blog, quello di raccogliere le esperienze degli altri informatici all'estero ed aiutare gli altri interessati ad aggiungersi alla cerchia degli informatici migratori eppoi all'improvviso qualcosa è cambiato. Non sta a nessuno giudicare quale sia la scelta migliore, visto che ciascuno ha i propri compromessi personali, la propria bilancia su cui pesare i propri umori e risolvere la propria equazione di felicità, ma se andare all'estero non regala quel benessere che si inseguiva, allora partire è sì un po' morire ma a tornare non sarà certo uno zombie, che uno zombie ride poco, ha memoria corta e non insegue un sogno, noi invece siam flessibili e allora ben venga anche il ritorno se ci aiuta a ritrovare il sorriso. E in bocca al lupo Stefano.