Sono tutte coincidenze

Se al corso serale del livello 2 di fiammingo c'è la ragazza tedesca, sposata con uno spagnolo, che parla 6 lingue e la senti già meno tedesca a parlarle, meno stereotipata in verità, e c'è la ragazza russa, sposata con un britannico, che però parla anche italiano, imparato in Irlanda, pensa te, e c'è anche la ragazza svedese, che però è nera, figlia d'una società emergente e già in contraddizione con quell'idea secolare di Svezia bionda e fredda, e c'è pure la ragazza belga, sposata però con un brasiliano, come se anche i belgi dovessero adeguarsi, come se anche loro non potessero esser lì altrimenti, se fossero belgi di origini belghe, belgi sposati con belgi, belgi semplicemente, e poi ah già ci sei pure tu, italiano nato in Germania che vive con una ragazza spagnola conosciuta però a Dublino, lì a litigare con la quinta lingua, è solo una coincidenza, se nessuno sembra normale lì, se si potesse definire una qualche concezione di normalità, poter dire di qualcuno ecco lui è normale, per esempio, puntando il dito e trasformandolo in giudizio, associarla alle persone in fondo, una certa normalità, che altro non sarebbe che una maggioranza divoratrice, quella che amalgama e confonde, e si trasforma, soprattutto a Bruxelles, se come dicono le ultime statistiche c'è il 30% di stranieri in più negli ultimi 10 anni, con un aumento del 43% rispetto a quel 7% in più di belgi, che magari a loro non farà tanto piacere, se la città quasi esplode ma si arricchisce anche di diversità, se ognuno ha sempre una storia da raccontare e te le ritrovi lì, le storie, tra intrecci di coppie e tappe intermedie, crocevia di vite mai banali, - te lo ripeti -, devono essere tutte coincidenze, perché non c'è nessun controllo particolare all'aeroporto, nessuno a dire con fare sorpreso ah quindi lei non ha nessuna fiaba personale da dichiarare? ma come? E si presenta così, per andare a Bruxelles?, eppure te li ritrovi lì, nella pausa del corso di fiammingo così come la sera in un pub della città o in un vagone affollato della metro, soltanto ad ascoltare le lingue altrui, come fossero la canzone di viaggi lontani che poi all'improvviso si ritrovarono a Bruxelles, per coincidenza, e tu non sapresti spiegarlo, quando qualcuno poi ti chiede cosa ti piace del vivere qui, cosa ti piace del vivere all'estero, potresti elencarne tante di cose, ognuna con il proprio compromesso abbinato, ma basterebbe questa, magari per altri innocua, forse per alcuni insignificante, e sicuramente i tuoi amici lì, a sud, non capirebbero, se poi tu rispondessi, con sincerità spontanea, che ti piace anche e soprattutto perché ci son tante coincidenze, coincidenze che altrove non coincidono.

Cose nuovissime

Non so con quale frequenza vengano prodotti documentari del genere, ma ad un certo punto inizi ad avere quella sensazioni di noia, di ripetizione, di stanchezza, che magari non cade (ancora) nella banalità ma non aggiunge nulla di nuovo a quanto già detto e documentato finora, nonostante lo sforzo e la sincerità delle testimonianze. Ne hanno fatti altri e ne faranno ancora, sicuramente, e prima o poi inizieremo anche ad ignorarli, perché è un fenomeno globale, il brain drain, perché non succede solo in Italia, l'emigrazione, perché accade praticamente da sempre, perché non basta andar fuori per diventar speciali, perché chi spesso va fuori muove il corpo e non la mente, perché abbiamo creato un altro stereotipo, quello dell'italiano all'estero, e perché nessuno ancora è riuscito ad avere la sintesi e l'autenticità di un maestro.

Quando all'estero sei un tacchino

Ma tu, ragazzo appena sbarcato dalla nave dei dubbi e delle speranze, qui sull'isola della lingua straniera e della cultura differente, con la tua valigia digitale imbottita di radici ed il curriculum in formati tridimensionali che potrebbe bloccarsi in un nodo, della cravatta, al primo colloquio in alfabeti non tuoi, lo sai che potresti facilmente trasformarti in un tacchino? Sebbene l'estero possa sembrarti al principio un po' il paese dei balocchi, in preda alle emozioni del cambiamento, ubriacandoti di novità inattese ed avventure sociali, difficilmente ti trasformerai in asino come pinocchio perché ci sarà tanto da fare per vincere la tua scommessa personale e trovare un equilibrio altrove, riuscire a metter in ordine priorità e compromessi e finalmente arrivare ad un sorriso sereno. Però potresti inavvertitamente trasformati in tacchino, quello di Russell.
Già, perché nei tuoi processi logici quotidiani l'induzione sarà il metodo razionale tra i più naturali, quello di raccogliere esperienze, collezionare conoscenze, eppoi dal particolare all'universale sfornare leggi cosmiche sul nuovo intorno che ti circonda, generalizzando. Se un collega belga mangia broccoli a colazione (non lo fanno, è un esempio) e l'amico belga di un tuo conoscente mangia broccoli a colazione, al telefono la sera dirai a tua madre che sì, i belgi, tutti, mangiano broccoli a colazione. Dal particolare all'universale. Certo, usavi l'induzione magari anche in patria, ma all'estero le possibili generalizzazioni ed errori nascosti potrebbero moltiplicarsi facilmente, perché è qualcosa di nuovo, una cultura che non conosci, una città che ti scappa tra le mani, una nuova lingua da padroneggiare, un lavoro da trovare, l'appartamento, le conoscenze, un te stesso da riscoprire attraverso un'esperienza che no, non capirai mai fino in fondo leggendo pagine di wikipedia, risposte su un forum o commenti su un blog: poi tocca alla vita reale, se ci vuoi provare davvero. E poi corri il rischio di diventare un tacchino, quello di Russell, quello che per tutto l'anno aveva ricevuto il mangime alle 9 di mattina e allora, dal particolare alll'universale, ecco che per tutta la vita avrebbe ricevuto la colazione alle 9 di mattina - pensava - fin quando poi il giorno del ringraziamento viene ucciso, per essere servito a tavola, e la sua legge universale cade, si dimostra falsa.
Introspezioni di un migrante.
Però tranquillo, siamo tutti un po' tacchini, probabilmente, soprattutto quando si sente in giro che i belgi, per esempio, non esistono, soltanto perché per un expat è naturale vivere con altri expat, è naturale conoscere altri emigranti e non persone del luogo, per via di abitudini e bisogni (corsi di lingue, per dirne una, in cui difficilmente trovereste qualcuno del luogo, beh, almeno fuori da Belgio, diciamo), per reti sociali già create (quante persone conoscete di Roma che a Roma escono con stranieri? Nessuna? Vuol mica dire che a Roma non ci vivono stranieri, no?), per facilità d'interazione (da expat ti troverai facilmente nel tuo circolo di gente che parla globish, l'inglese degli stranieri, in cui un locale potrebbe essere escluso o che troverebbe poco interessante). Siamo ancora tacchini quando, sempre dal particolare all'universale, diciamo che i belgi, per esempio, son razzisti, sempre collegandoci alla legge universale precedente, solo perché non escono con noi, non li vediamo, si nascondono, ci evitano, e invece no, hanno semplicemente già la loro vita da risolvere, che esisteva prima del nostro arrivo e continua ad esistere nonostante noi. Siamo ancora tacchini quando dal menu turistico di un ristorante in una stradina di una città, poi pretendiamo di conoscere la cultura culinaria di un paese e confrontarla, denigrarla, perché la nostra è migliore, perché la nostra è più salutare, e non perché alla nostra siamo abituati, fin da piccoli, tutto qui.

Probabilmente aveva ragione Popper, quando diceva che l'induzione dovrebbe essere usata per distruggere e non per creare, per trovare controesempi e non per generare l'ennesimo stereotipo personale, anche perché nell'induzione c'è già inconsciamente la sovrapposizione dei nostri schemi mentali alla realtà osservata, ma è difficile evitare d'indurre, ad ogni osservazione, soprattutto all'estero, soprattutto all'inizio, soprattutto in preda allo shock culturale. E allora? E allora tu, ragazzo appena sbarcato con la voglia matta di scoprire il mondo e la generalizzazione facile lì sempre sulla punta della lingua, puoi provare a frenare un po' la fretta del giudizio, magari ingoiando un po' di politicamente corretto o semplicemente raccontare il particolare: l'altro, l'universale, proviamo a lasciarlo agli altri. Poi, quando hai tempo, puoi anche studiarli, gli altri.

Qui, sulle mie spalle

Quando li porto tutti in giro, quei 700 e più ad ogni corsa, me li sento quasi addosso, a volte, come se dovessi esser io a portarli, sulle spalle, come se dipendesse davvero da queste braccia, queste qui - io poi non son mica tanto forte, eh - e non dal motore di questo ferro che ogni tanto si ferma senza fiato e lì poi c'è solo da aspettare; certo, son pesanti in 700, tu vois, non ho detto mica cento o trecento, set-te-cen-to, dico, me li porto in giro per Bruxelles e io almeno ho la fortuna d'usare il boa, così lo chiamano, il serpente di ferro, c'est vrais, un serpente, appunto, il boa. Ho tanti amici che fanno lo stesso lavoro, ma loro girano soltanto sulla linea 2 e 6 e lì no, il boa non può passarci, mica perché fanno discriminazione ai piani alti, mais non, non perché il boa è solo per Schuman e per quelli in giacca e cravatta e bla bla bla, macché, c'est pas comme ça, è che il boa non ci può passare per la 2 e la 6, chi pensa male è mal informato, mon ami. Gli amici miei poi, passano tutto il giorno a sbuffare, non gli piace portarli in giro, quei 700 e più, in giro per Bruxelles, dicono che - je te jure - dicono che non se lo meritano, che li guardano male, si sentono sporchi, giudicati, usati. Mais c'est pas vrais! Eppoi dimenticano che, sul boa, per esempio, ci sale anche mia madre - pensa un po' -, lei mi fa uno squillo quando sale, ogni volta, succede ogni giorno, io così so che lei potrebbe esser lì - magari non c'è, eh, magari è uno altro a portarla con sé - e mi sento già meno solo, anche se solo non lo son mai, con quei 700 e più, jamais seul.
Eppoi penso sempre che, ogni giorno in giro per la città, ma ville, mi porto dietro gente stanca e pieni di problemi, folle frettolose che s'ignorano e s'accalcano, nervosi quand même, ma dietro, su queste spalle, porto in giro anche un sacco di risate e appuntamenti importanti e la soddisfazioni di chi, al fischio della chiusura delle porte, riesce sempre a entrare, all'ultimo secondo, li fisso dallo specchietto, scommetto questo non ce la fa e infatti zut poi non ce la fa, e io scompaio nei sotterranei di Bruxelles, ma belle, invece poi dico ecco guarda questo ce la fa, il va reussir le mec, e zack, me lo porto almeno fino alla prossima fermata, e fa differenza, uno in più, uno in meno, c'est pas une blague, me lo sento qui, sulle spalle, quelle del boa, quando accelero, poi freno, poi mi fermo ed apro gli sportelloni, duecento escon fuori in qualche secondo, altri trecento entran dentro a farmi compagnia e io lì, dallo specchietto, a fissarli e immaginarmi in mezzo a loro, tutta la vita che porto con me, alcuni mi sembra già di conoscerli, giorno dopo giorno, riesco a riconoscerne la faccia, agli stessi orari, qualcosa di loro la conosco, c'est vrais, certo non saprò mai i loro nomi e molti di loro non vorrebbero mai saper il mio, j'en suis sûr. Ah, Mohamed è il mio, di nome, je m'appelle Mohamed, e son un conduttore della metro.

Bruxelles partecipativa

Un articolo un po' datato (di un anno fa) ma ancora attualissimo, descrive una possibile giornata partecipativa di Céline a Bruxelles, grazie ai vari servizi disponibili nella città, esagerando magari un po' per la concentrazione di tutto in una giornata, ma rendendo bene l'idea delle varie possibilità, troppo spesso ignorate. Lo traduco di seguito, con alcune semplificazioni e l'aggiunta di altri servizi non menzionati.

Céline russa nel suo appartamento al primo piano di un immobile comprato in gruppo con una coppia d'amici e altre due coppie incontrate su un sito di co-abitazione. Un'avventura che trasforma le riunioni obbligate di comproprietà in buone cene tra amici, dove si può anche discutere delle ultime novità della Lega delle Famiglie, un gruppo che incoraggia le famiglie alla consumazione partecipativa, al mutuo aiuto e quindi al vivere meglio insieme, che si tratti di scuola, svaghi, casa o trasporti, con le migliori soluzioni per condividere, risparmiare, comprare in gruppo.

Una giornata tipica di Céline? Alle 7 Céline veste i suoi due bambini con la raccolta del suo ultimo troc papote tra amici: molto meglio che impazzire per i saldi in rue Neuve, ci si può scambiare vestiti e molto ancora grazie al principio del troc papote: ognuno porta la sua collezione di cose inutilizzate su temi scelti (vestiti, gioielli, giocattoli), si raccoglie tutto e ognuno sceglie quello che più gli piace. Una sessione di baratto tra amici. Se la raccolta non è sufficiente, si dirotta su eBay per vendere o comprare, in base ai bisogni. Con un surplus, si può anche pensare ad una donazione.
Alle 7 e 20 Céline si prepara ad una riunione importante. Porta una gonna scovata in uno swishing (scambio di vestiti di marca) in un pub a Londra, con una giacca trovata in un vide dressing postato su Facebook ed una borsa Gucci noleggiata online per la settimana.
Alle 8, Céline lascia i suoi bambini ad un punto di raccolta del pedibus della scuola del quartiere dove altri genitori prendono l'impegno del giorno per portarli a piedi a scuola, una pratica per diminuire il traffico intorno alle scuole e rinfrescarsi i polmoni con una piccola passeggiata conviviale.
Alle 8 e 15 Céline va in macchina al lavoro ma non dimentica di prendere due vicini per lasciarli lungo il cammino, perché ha un accordo di co-auto con loro. Tutti partecipano alle spese e Céline sceglie la stazione della radio. Altri amici prendono un Cambio, auto stazionate ovunque a Bruxelles e disponibili sotto prenotazione, altri ancora una Villo, servizio di biciclette urbane.

Alle 9 Céline, grafica indipendente, presenta il suo ultimo progetto in una sala riunioni riservata per l'occasione in un ufficio che affitta in condivisione con altri liberi professionisti, architetti, stilisti o contabili. Si condividono fotocopie, mobili, macchina del caffè e connessione ad Internet, senza contare le idee e gli umori, buoni o cattivi.
Alle 12 pranza con una quiche alla zucca ed una salsa di mele, cucinata a partire dall'ultima cesta del suo GAC (Gruppo Acquisti in Comune) proveniente da un agricoltore del sud del Belgio. Tutto è bio e locale.

Alle 18, rientrata a casa, Céline naviga su Internet per prenotare le sue prossime vacanze. Esita ancora tra uno scambio di case per partire per la costa est dell'Australia e un soggiorno in Toscana in un B&B domestico.
Alle 19, con i suoi co-proprietari, indossa la sua tuta da lavoro per rinnovare la soffitta dell'immobile con l'aiuto di levigatrici, trapani e altri arnesi noleggiati (anziché comprati) in un negozio di bricolage.
Alle 20 Céline riceve una baby-sitter che ha trovato attraverso il SEL (Servizio di scambio locale) di Bruxelles. La pagherà in buoni che ha guadagnato proponendo lo stesso servizio ai membri del SEL, dei corsi d'inglese e di disegno. Libera per tutta la serata, va ad un cocktail per celebrare la pubblicazione di un nuovo fumetto a cui ha contribuito finanziandolo grazie ad un crowfunding (finanziamento collettivo di progetti o di artisti). L'indomani ha già la serata organizzata, a teatro, con biglietti acquistati al 50% del prezzo originale, non dopo aver cenato al 60%. Non male la giornata di Céline, eh?

Se mi lasci non voto

- Ma allora tu, che sei all'estero da tanti anni, e dici di non voler andar a votare, lo sai che poi non potrai più lamentarti dell'Italia perché non hai provato in qualche modo a cambiarla, quando ne hai avuto l'occasione attraverso il voto?
- No, fermati un attimo, questo sillogismo fa un po' acqua, se io che mi lamento anche di quello che succede in Spagna o in Mozambico o in Corea del Nord, dove ovviamente non voto, perché poi non potrei continuare a criticare l'Italia? Dovrei ridurmi a criticare soltanto il posto in cui vivo, dove pur non posso ancora votare? Dovrei ridurmi al silenzio allora?
- Ah-ah! Però vedi, se in Spagna o in Mozambico o Corea del Nord, mettiamo per assurdo, avessi la possibilità di votare, ecco mettiamo per assurdo avessi la possibilità di votare in ognuno di questi paesi, ecco, non lo faresti? Non proveresti a cambiare le cose, a dare il tuo contribuito? Ecco perché, almeno per il paese in cui puoi, dovresti farlo! Non pensare soltanto ad un diritto e dovere, pensalo anche come altruismo!
- Altruismo? Influenzare un risultato, se pur per una infinitesima parte, di una situazione che non vivo e che scelgono gli altri, attraverso il proprio voto di massa, non so se si possa definire altruismo. Anzi, diventa quasi egoismo, egoismo di me che vivo qui e voglio influenzare anche quello che vivono gli altri altrove!
- Ma aspetta, lì, in quell'altrove, c'è ancora la tua famiglia, i tuoi amici, tuoi luoghi, ci sono pezzi di te, del passato e chissà, magari anche del futuro, lo faresti per loro, non per te, ecco, è di nuovo altruismo, no?
- No, troveresti giusta la possibilità per loro di votare qui, pur vivendo in Italia, soltanto perché qui ci vivo io, che faccio parte della loro famiglia o dei loro amici? Dai, non avrebbe senso!
- Ma che dici! Loro non hanno mica questa nazionalità! Tu invece sì, sei italiano, vivi altrove, ma continui ad essere italiano, ecco dov'è la differenza, ecco perché dovresti votare!
- Ah, allora non è per altruismo né per diritto di critica, ma per ragioni di patria, vuoi dire, ma la patria, caro mio, altro non è che educazione e cultura, assimilata dalla nascita, e in quanto tale, in quanto educazione e cultura, non è statica, ma va cambiando, va evolvendosi: ciò vuol dire che anche la patria cambia, quella che è in te, mentre vivi fuori, mentre la mescoli ad altre culture, altre educazioni. Ecco perché ha senso votare per chi vive all'estero da appena un anno, ma non ha senso votare per chi vive all'estero da 30 anni, perché a quel punto la patria nativa che era in lui avrà perso quantità ed intensità, avrebbe senso votare ancora a quel punto?
- Mi son perso al fatto dell'educazione.. però che c'entra? Tu non vivi all'estero da 30 anni, sei ancora più vicino all'Italia che all'altrove, insomma, non girarci intorno, pensa a quelli che son morti per avere il diritto di voto! Non puoi tirarti indietro adesso, dai!
- Io, se potessi, regalerei il mio diritto di voto ad uno straniero che vive in Italia da qualche anno e che non può, non può influenzare in qualche modo la propria quotidianità, mentre io, che son qui, che non ho progetti di rientro, posso cambiare la sua, io che spesso son straniero come lui lì e lo sarò sempre di più...
- Sì, ma proprio perché vivi fuori hai una visione diversa di quello che succede, puoi contribuire in modo più distaccato e aiutarci a migliorare la situazione!
- Ah, allora se è per questo, dovrebbero votare per l'Italia anche tedeschi, inglesi, svedesi? Anche loro hanno una visione diversa e distaccata delle cose che succedono, ma ti farebbe piacere se lo potessero fare? Avrebbe senso?
- Ma tu all'improvviso sei diventato inglese, tedesco, svedere? Sei italiano, ancora, che lo voglia oppure no, vedi, stiamo parlando in italiano, conosci la politica italiana meglio di quella del paese che ti ospita e così sarà per molti anni ancora, eticamente è meglio votare in Italia, con un voto cosciente, che altrove, con un voto dubbioso!
- Eh, fosse così cosciente il voto in Italia! Il voto al momento è: voto il meno-meno-meno-peggio che si allea con il meno-meno-peggio che strizza l'occhio al meno-peggio, tutto per non far vincere il peggiore. Bella, la democrazia!
- Sì, ma meglio tapparsi il naso e cercare di cambiare qualcosa, che girare le spalle e lasciare che vadano di male in peggio, no?
- Ma dove sta scritto che, vivendo all'estero e non votando, volterei automaticamente le spalle? Anzi, io le spalle le ho già voltate, quando sono partito!
- Ah, no, questo non lo devi dire, lo sai che non è vero, altrimenti non staresti tutti i giorni, almeno una volta al giorno, sui giornali italiani, sul campionato di calcio italiano, coi tuoi amici in Italia, su Skype con la famiglia e tanto altro ancora, o sbaglio?
- Non sbagli, ma tant'è, siamo esseri metafisici per il momento, con il corpo in un luogo e la testa altrove, spesso... un giorno si concilieranno, e più che la testa saranno solo pochi pensieri ad essere altrove, sempre meno, perché le radici che lì si son staccate vanno invece consolidandosi qui, nell'altrove...

- Va beh, allora che fai?
- Io? Voto, perché? Non s'era capito?

Boh

Appena ricevuto il plico per votare. E non se ne salva n-e-s-s-u-n-o, mettere una crocetta su uno di quei simboli significa indirettamente partecipare a porcherie loro o di coalizioni che verranno, non metterla significa lasciarla al vincitore. Eticamente, dopo quasi 6 anni all'estero, sarebbe giusto non votare.
E forse è giunta l'ora. Loro, poi, te lo rendono ancora più facile.

Basterebbe non prendere la metro

Quando poi nella metro c'è chi spinge per trovare una posizione di equilibrio che non lo lanci su chi intanto arriva appena alla barra salvatrice mentre ci son sempre quelli che nonostante l'affollamento cubico pretendono ugualmente d'obliterare il proprio biglietto, come se poi lì, in mezzo a quella giungla di braccia e gambe intrecciate, un controllore possa davvero pretendere di verificare, tra la faccia di chi quasi si stampa nel finestrino e chi già vuole arrivare a un centimetro dalla porta anche se alla fermata mancano diversi minuti e sicuramente ci sarà qualcun altro che insieme a lui scenderà, sciogliendo quel groviglio di persone e prolungamenti umani in pochi secondi di confusione che lo stridulo della chiusura automatica rende sempre più frenetico, ecco, proprio in quell'instante, mentre mezza marea viene vomitata fuori e altra mezza tenta di trovar spazio in vuoti d'aria prontamente riempiti, ti accorgi che non ci son pensieri, non c'è spazio per pensieri e riflessioni quando il rumore e la paura di cadere alla prossima frenata e l'anticipare le mosse di chi deve scendere alla prossima fermata e tanto altro tengono a bada, tutti insieme, pensieri e congetture, quasi a stancarti, come se gli occhi fossero occupati a filtrare voci, odori, spinte, e la mente occupata a predire, evitare, lasciar passare. Esci fuori quasi con sollievo, il sollievo di poter di nuovo abbandonarti alla solitudine spaziosa dei tuoi pensieri in tranquillità.

Poi, quando nella metro trovi dopo ore quasi un deserto esteso che lascia vuoti i tanti posti a sedere e muti i riflessi opachi di chi si cerca in un finestrino macchiato, mentre c'è qualcuno in un angolo rinchiuso nelle sue spalle come infreddolito o a resistere al peso della propria giornata da digerire, e qualcun altro, agli antipodi del vagone, controlla lo smartphone con gesti pigri di chi cerca attenzioni altrui e relazioni sociali nell'icona di una notifica mancata, scrutando appena l'intorno silenzioso, perché no, non c'è musica nei vagoni della metro di Bruxelles, se non il rumore meccanico del ferro che corre verso la propria destinazione mentre fischia rapido tra corridoi sotterranei che lo inghiottono ed espellono - perché adesso puoi riconoscere tutti quei suoni, distintamente -, ecco, ti accorgi che tutto quello spazio altrimenti occupato da braccia e gambe in cerca di bilanciamenti, tutta quella mancanza di moltitudine e frastuono umano, lascia troppo campo a pensieri e riflessioni, quasi a stancarti, come se gli occhi fossero occupati a cibarsi d'umori altrui, sguardi, dettagli, mentre la mente passeggia in un museo che presto chiuderà, alla tua fermata, quando ancora c'era quel quadro da osservare e quell'altro da valutare. Esci fuori quasi con fastidio, il fastidio di dover tornare bruscamente alla solitudine spaziosa dei tuoi pensieri in tranquillità.