Vabbé però poi non diciamo che son gli altri

Sacchetto di una vendita temporanea in Gare du Midi, la stazione più grande di Bruxelles,
di specialità siciliane. Che poi non è più bella la triscele? Meno conosciuta? E ma prima o
poi la si dovrebbe diffondere per associazione, no? Foto scattata qui.

Due mondi quasi sfiorati

Mentre tenti di schivare la pioggia senza renderti conto dell'assurdità dell'impresa ed un autobus vomita di corsa una fiumana di gente da scansare, come se la pioggia non fosse abbastanza, lì sullo stretto marciapiedi di Porte de Namur, ti infili di corsa nel supermercato dove finalmente sembri trovar pace e la frenesia della strada s'allontana di colpo, come se all'ingresso si fosse chiuso un sipario e non la porta automatica alle tue spalle, come se là fuori fosse un altro mondo tra voci, traffico, ombrelli e passi veloci. Per qualche minuto alle tue spalle. Già sai che prendere e non perdi tempo a trovare qualcosa, da mangiare poi durante la pausa del corso serale di francese, quando la prof lascia la classe per un po' e gli alfabeti di colpo si svegliano e si mescolano se ci son connazionali in giro, quando non si può (o non si ha voglia) di sentirsi imprigionati in quel sottoinsieme conosciuto di parole francesi, altrimenti è la lingua franca, l'inglese dagli accenti più svariati, a prendere il sopravvento e dominare le conversazioni, almeno fin quando la prof non sarà di ritorno. E Bruxelles è tutta lì, tra quattro mura.

E proprio mentre, al supermercato, aspetti in fila il tuo turno per pagare ecco che di fronte ti ritrovi due mondi quasi sfiorarsi: alla cassa a sinistra c'è una donna dai lineamenti arabi, indossa il velo islamico, un hiijab o qualche sua variante, mentre alla cassa a destra, proprio di fronte a te, c'è una suora dai lineamenti occidentali, indossa anche lei un velo, quello del suo ordine (qualsiasi esso sia), ma un velo che copre quasi quanto il primo. Un'immagine insolita che ti cattura in un instante. Vedere le due donne lì, di spalle l'una all'altra, ognuna con il capo coperto da un velo, ognuna nella sua religione o ad ogni modo nei suoi simboli di riconoscimento, del gruppo d'appartenenza, per riconoscersi e identificarsi, per mostrare agli altri la comunità di provenienza e non soltanto prigionia, obbligazioni casalinghe o estremismi irrisolti, luoghi comuni, credenze o facili generalizzazioni associate spesso a bandiere di propaganda e significati che a volte perdono il significante d'origine.

Mentre la cassiera calcola passivamente il prezzo da pagare, poi, pensi a quanta gente ci sia, oggi, che alla seconda avrebbe affidato il proprio bambino anche per qualche ora, nell'immagine della suora altruista e beata dal velo azzurrino, color di cieli e purezza, mentre alla prima, dal velo nero d'oscurità e male, non lo avrebbe lasciato neanche per qualche minuto, quasi fosse da bruciare viva come le streghe nel medioevo. E invece la strega stava lì, a pochi centimetri dalla beata, senza fiamme né angeli canterini, solo la vita, che continua per fortuna, portandosi dietro i suoi significanti e dimenticando, ignorando, contraddicendo tanti significati.

Benigni e quei 200 grammi di superlativi assoluti

Me lo sono rivisto due volte, l'intervento di Benigni al festival di Sanremo, prima di avventarmi su qualche osservazione frettolosa e magari ingenua, ma non riesco ad illuminarmi come leggo in rete o come quando ne parlano altri italiani incontrati in questi giorni in giro per Bruxelles, nel senso che a vedere certe scene non ho le lacrime agli occhi né mi si gonfia esageratamente il petto di uno spirito italico da riaffermare a voce alta e fiera (va bene, un po' mi si è gonfiato, ma infastidito). Certo, chiamato a verseggiare l'inno nazionale durante una celebrazione per l'anniversario della nascita di una nazione, non è facile amministrare le parole quando - come Benigni cita - basta poco per passare da patriottismo a nazionalismo e ancor più difficile, se non impossibile, è prevedere le reazioni della gente, a chi appunto ribolle il sangue nelle vene e la mano sovrasta il cuore e a chi si sente parte del paese più bello, il più mirabile, maestoso, il migliore della storia dell'umanità, del sistema solare, dell'universo.
Bellissima la scena finale del cantar l'inno alla luce soffusa e simpatica più d'una battuta, ma a bloccare la mia illuminazione - credo - saranno stati quei 200 grammi di superlativi assoluti sparsi qua e là, come sale in una minestra saporita e speciale, immancabili altrimenti non si pizzica il palato e il risultato rischierebbe d'essere qualcosa d'insipido, eppure proprio certi sapori, certe prelibatezze naturali bisognerebbe gustarle senza aggiungere aromi, con un po' più di semplicità, perché le spezie poi son sempre un terno al lotto, c'è sempre qualche ospite che non le gradisce, qualcuno che strilla per l'immancabile allergia o altri che si sentono estasiati proprio per quei 200 grammi in più che vanno dritti al palato, direttamente al senso del gusto più profondo e ne vengono conquistati e poi non si sa se abbiano apprezzato il piatto per le spezie o per gli ingredienti principali, proprio quelli che si volevano celebrare.

Ecco perché quei 200 grammi di superlativi assoluti, senza voler spaccare il capello in quattro o voler sempre trovare il pelo nell'uovo, io li avrei omessi, magari evitando quei "la casa reale più antica e gloriosa d'Europa", "tutto il mondo aveva gli occhi sull'Italia", "si tassavano per finanziare questa cosa di grandezza, di bellezza immensa, eroica, epica, erano diventati un mito, tutti gli italiani, dappertutto", "L'Italia è l'unico paese al mondo dove è nata prima la cultura e poi la nazione, non esiste nessun altro luogo al mondo, è una cosa impressionante, ha tenuto insieme la lingua, la cultura, immensa", "L'Italia era il corpo più bello del mondo, questo lo posso dire, proprio per quello era saccheggiato", "in tutti i musei del mondo ci sono km di opere d'arte italiane.. e fa una gioia entrare dentro e camminare e dire ma io appartengo a questa grandezza, io sono uno che vengo da lì", "noi siamo un popolo solenne, memorabile, allegro... l'allegria ci appartiene solo a noi", "Annibale il più grande generale del mondo, una battaglia vinta dagli italiani", "Ogni impero che c'è nel mondo è una pallida, pallidissima, imitazione dell'impero romano", "nessun altro luogo al mondo ha avuto un'avventura impressionante, scandalosamente bella come la città di Roma, nessuno, nessun al mondo, non c'è un'avventura così straordinaria", "tutti a venire a prendere le cose più belle del mondo", "trovatemi un altro popolo che c'ha i colori del poeta più grande del mondo".
Ecco, adesso mi direte che la pasta senza sale non si può mangiare, che un po' ce ne vuole sempre altrimenti diviene immangiabile. Giusto, ma troppo poi fa male al cuore, lo sapete anche voi.

F.A.Q. sulla crisi politica belga

Ma davvero il Belgio è detentore del record del mondo di paese da più tempo senza un governo?
In effetti l'Iraq, il precedente detentore, è riuscito a resistere 289 giorni senza governo ma dopo 248 avevano già l'accordo sulla formazione del governo. In Belgio il re Alberto II ha appena confermato la missione di mediatore fino ai primi di marzo al ministro dell'economia del precedente governo, non esiste nessun accordo al momento e la crisi non è state risolta dopo 249 giorni dalla sua apertura: è record del mondo. Complimenti.

Come mai non si riesce a risolvere la crisi politica in Belgio?
I diversi partiti francofoni e nederlandofoni, rappresentanti le due spaccature linguistiche e culturali del paese, non riescono ad accordarsi su alcuni punti cruciali sulla riforma federale, i finanziamenti alla regione di Bruxelles e la famosa questione dei comuni nei dintorni di Bruxelles (problemi di diritti linguistici). Alle ultime elezioni gli indipendentisti fiamminghi hanno vinto al nord mentre i socialisti francofoni hanno vinto al sud: due lingue e tanti interessi economici in ballo.

Cosa è stato fatto finora per risolvere la crisi?
In pratica il re Alberto II ha seguito prima la prassi nominando dopo le elezioni un ispettore per un resoconto sui risultati e le richieste dei vincitori, poi un pre-formatore di governo convinto che la cosa sarebbe stata semplice e breve, poi dei mediatori in modo da aprire un dialogo tra le due parti in scontro, poi un chiarificatore per capire a che punto s'era, poi un altro mediatore richiamando tutti i partiti in causa appigliandosi al buon senso ed infine ad un informatore tanto per cambiare nome allo sconfitto di turno. Nel frattempo il tempo passava e hanno battuto il record del mondo.

Ma nel frattempo come fa il paese ad andare avanti senza governo?
In realtà esiste un governo temporaneo retto dal primo ministro uscente a cui son stati conferiti alcuni poteri temporanei ed alcuni compiti delicati in modo da non congelare il paese durante la crisi. La vita continua regolarmente, per molti addirittura sembra non ci sia differenza con o senza governo mentre in realtà il debito pubblico alquanto alto e l'inesistenza di un potere decisionale forte scoraggia molti investitori stranieri esponendo l'economia del paese a rischi sempre maggiori.

E i belgi riescono a tollerare tutto ciò?
I belgi sono un popolo calmo, molto calmo. Alcune delle proteste più gettonate sono state finora: non radersi la barba fino alla formazione di un nuovo governo, non concedersi sessualmente ai politici coinvolti fino ad una risoluzione di una crisi, scatenare una rivoluzione delle patatine fritte cercando di mostrare il proprio sdegno, magari spogliandosi in piazza il giorno del record. Ecco, a parte questi moti irruenti, 35.000 belgi sono scesi in piazza un mesetto fa al fine di manifestare il loro disappunto. Grande affluenza, nessuna violenza, tanto entusiasmo ma nulla è cambiato.

La crisi politica potrebbe sfociare in una spaccatura del paese?
Sebbene questa ipotesi prenda sempre più piede sotto la tipica domanda "ma se parlano due lingue perché non si dividono?", la questione non è semplice a causa del forte debito pubblico e la gestione di Bruxelles, capitale e cuore economico del paese situata nella parte nord dove si parla fiammingo ma città a maggioranza francofona a causa della sua travagliata storia, nonché sede amministrativa di quell'Europa che vorrebbe unire ma forse cade a pezzi.

Cosa si prevede allora?
Una lunga attesa, mentre i politici si riuniscono periodicamente mentendosi a vicenda, guerreggiandosi a colpi di battute sterili e costringendo il re Alberto II ad inventarsi sempre nuovi nomi per l'arbitro di turno. Ottenuto il record, bisogna temporeggiare quanto più possibile, in modo da renderlo davvero imbattibile.

Qualcuno durante la manifestazione Shame aveva già proposto l'arbitro giusto,
ma forse il re Alberto II non c'avrà fatto caso, eppure potrebbe essere proprio
lui il Signor Wolf della situazione. Foto scattata qui.

Sul barcone degli alieni

Il mantello di nubi che copriva esteso la notte e l'orizzonte, lasciando pennellate intense di grigio tra l'oscurità intorno, nascondeva anche le stelle, tutte, dai brillii soffusi a quelle di riferimento, dai gruppi che qualcuno associa a disegni animali e mitologie antiche a quelle solitarie che magari son pianeti neanche troppo lontani, forse vicini abbastanza da accogliere una speranza, un desiderio, una preghiera di conforto, non importa di quale religione, che sia di quelle falsamente educate o prassi di una vita, ci son certi momenti, certi attimi di paura o soltanto bisogno di uno spettatore superiore, qualcuno che ti ascolti, lì, che sia di carne e pensieri o soltanto di nubi e notte, a cui lasciare la tua speranza. E invece no, non ce n'erano stelle quella notte e a scrutarlo, quel cielo, era grigio e nero, fino ai limiti dello sforzo visivo, dove si mescolava al mare per aggiungere incertezza ad una destinazione già tanto tremolante come le mani ed i piedi, per il freddo e la fame, su quel barcone pieno come granelli di sabbia in un pugno: difficili da contenere e pronti a disperdersi nell'acqua ad ogni movimento brusco, improvviso, imprevisto.
E lui se ne stava lì, in un angolo tra sporcizia e sudore, con il gomito del compagno di viaggio a lato che gli premeva nel costato, cercando invano d'addormentarsi, non ci riusciva, troppe voci di chi aveva freddo e fame, qualche pianto di chi già sentiva l'alito della morte sul collo e invece era il vento mischiato alla tosse intermittente di altri; voleva dormire per recuperare un po' di forze e magari svegliarsi già sulla terra ferma, ma troppi lamenti intorno di chi stremato dal viaggio estremo e troppi pensieri, dubbi, qualche progetto nella testa: impossibile dormire su quel barcone e poi per cosa? Che sogni poteva mai partorire la mente stremata in quel barcone d'anime invisibili, in balia del mare e delle trame d'Atropo?

E il sonno in fondo era quasi proibito, bisognava stare sempre in allerta, sempre pronti ad uno scatto vitale, anche se lì, in quell'angolo, con quel gomito e quei pensieri, davvero non ce l'avrebbe fatta a fuggire in tempo da un possibile rischio o almeno così pensava. Gli avevano detto che in Italia avrebbe avuto qualche possibilità di guadagnare qualcosa, gli avevano detto che 2.300 dollari era un prezzo onesto per scappare da quella Tunisia in sommossa, anche se per accumulare quei soldi s'era venduto quasi tutto quello che aveva, gli avevano promesso un aiuto, l'amico di un amico, un lavoretto iniziale. Lo avevano anche avvertito che non sarebbe stato facile, che avrebbero potuto rispedirlo a casa o che casa non l'avrebbe mai più rivista, che avrebbero potuto ammazzarlo di botte o più semplicemente che avrebbe trovato insulti e intolleranza e non braccia aperte e sorrisi. Forse era meglio dormire, gli avevano detto tante cose e adesso si mescolavano confuse, ma non riusciva, non riusciva a dormire. Gli avevano anche detto che tanti italiani lasciavano l'Italia per trovare qualcosa di meglio, li chiamavano cervelli in fuga, che a lui quel nome gli fece subito ridere, anche lui aveva un cervello ed era in fuga, in fuga verso una terra da cui altri a loro volta fuggivano e non capiva perché. Poi aveva pensato che forse è una cosa normale, che magari un giorno scapperemo da questo pianeta in cerca di un pianeta migliore e magari ci sarà qualche altro popolo stellare che approderà sulla Terra convinto d'aver trovato un posto migliore del pianeta di partenza e così all'infinito. E questo pensiero lo fece ridere, spontaneamente.

"Che ridi?" Gli domandò un altro che gli stava di fronte, anche lui nel vortice dell'insonnia obbligata.
"Siamo extraterresti e questa è un'astronave!" Rispose come a dire la cosa più naturale e banale del mondo.
E ci fu più di un sorriso per un attimo, soltanto per un attimo, su quel barcone di alieni.

In quelle giornate un po' così

Poi esci dall'ufficio in una di quelle giornate un po' così in cui gli occhi sentono come non mai il peso delle palpebre ed il collo quello della testa che penzola all'ingiù come se tutti i pensieri accumulati si fossero squilibrati verso la fronte, abbandonati inevitabilmente alla gravità vorace. Prendi la metro senza opporre troppa resistenza agli urti di chi corre entrando appena prima dello squillo stridulo che annuncia la chiusura automatica del portellone e butti il corpo in un angolo nella speranza d'esser solo anche se gli altri poi son lì, a qualche centimetro di distanza, nel vagone che sembra un treno di deportati.
Ad una delle fermate intermedie entra il solito musicista pronto a diffondere qualche nota nella speranza di spiccioli, lo riconosci subito, è uno degli abitudinari, chissà quante volte gli avrai già dato qualcosa, ma in quelle giornate un po' così non doveva, no, non doveva proprio iniziare quella melodia, la riconosci subito, è il tema del Padrino, che magari in altre giornate non ti avrebbe fatto nessun effetto ma in quelle giornate un po' così sembra proprio la colonna sonora perfetta del tuo umore un po' così e non è giusto, le musiche hanno certi effetti nascosti e probabilmente ieri ne saresti stato immune ma oggi no, non in quelle giornate un po' così. E allora ti butta ancor più giù quel suono triste e ripetitivo e ti risuona nella testa anche quando esci dalla metro ed ecco che Bruxelles ti piove addosso proprio quando sei uscito senza ombrello. Ingenuo. Dopo tre giorni di sole non avresti dovuto credergli, saresti dovuto uscire con l'ombrello come al solito e invece no, proprio in quelle giornate un po' così capita sempre d'averlo lasciato a casa e allora ogni goccia cade sulla testa passiva che però non vorresti bagnare mentre devi far in fretta, devi quasi correre che son già le 17:40, il negozio dove hai lasciato dei pantaloni da far accorciare chiude alle 18:00, e mentre corri fissi l'orologio in modo ossessivo e già sai che quella corsa ti farà sudare ed odi dover sudare, soprattutto in quelle giornate un po' così, perché il sudore è bastardo, lascia traccie un po' ovunque, soprattutto sul colletto della camicia e non c'è modo, non c'è soluzione, per quanto tu possa strofinarlo prima di metterlo in lavatrice non esce mai bianco come prima, mai come quando lo strofinava la mamma, le mamme sanno come fare, le mamme hanno poteri magici, li hanno acquisiti con gli anni, con gli sforzi, con il loro sudore hanno compreso come sconfiggere il sudore del colletto della camicia e tu invece no, non ancora, ne dovrai strofinare ancora tanti di colletti prima di riuscire a raggiungere certi livelli.

E mentre un occhio all'orologio, un pensiero alla mamma, un altro alla camicia e l'altro ai pantaloni, ecco che di sfuggita alla tua destra vedi una signora, vai avanti, ti fermi, l'hai riconosciuta, è lei, la signora del negozio, ma sono le 17:50, avrà chiuso prima e tu hai fatto troppo tardi e allora non hai scelta, in quelle giornate un po' così devi trovare la forza di fermarla e allora le urli "Madame!". Lei si ferma, si volta, non ti riconosce, ovviamente (perché avrebbe mai dovuto?), ti guarda con degli occhi stanchi in attesa di qualcosa e allora con il tuo francese da inizio quarto livello di scuola serale le spieghi che avevi lasciato dei pantaloni una settimana fa, da accorciare, tre, sarebbe mica un problema tornare indietro, riaprire il negozio, soltanto un attimo?
La signora non ti guarda neanche, si volta automaticamente con un "Va bene, non è grave" rispondendo alle tue scuse per il disturbo, ripetute, quasi fastidiose. Quando entrate nel negozio ti accorgi di quanto sporco sia, di quanta polvere e grigio ci sia intorno, di quanto vecchia sia la struttura e le cose intorno. Non ci avevi fatto caso una settimana prima, quando andavi di fretta, mentre adesso che sei lì, in attesa che la signora torni dall'altra camera con i tuoi pantaloni, tre, da accorciare, ti guardi intorno, in quelle giornate un po' così e ti accorgi di altri dettagli, in quel negozietto di una immigrata di quelle invisibili, di quelle che mandano avanti l'economia ma non meritano premi, di quelle che avran fatto sicuramente tanti sacrifici per aprire e mantenere un'attività che adesso ti sembra polverosa, vecchia, triste eppure sarà tutto quel che ha e tu invece, tu emigrato a Bruxelles con la carta di credito nel portafogli e la laurea sul curriculum, tu che sei andato in quel negozietto perché non troppo lontano da casa ma anche perché gli altri, più centrali, più nuovi e lussuosi, son sicuramente anche più cari, tu che fino a pochi minuti prima ti saresti lamentato per la musica suonata al momento sbagliato, per una pioggia che in fondo era sottile e trascurabile, per un sudore che alla fine devi strofinare, ci vuole, è scuola di vita, altrimenti le tue mani non diventano mani di mamma, mani di fatica, e non iniziano a funzionare davvero, ecco tu ti senti quasi in colpa d'esserti sentito in una di quelle giornate un po' così.

Paghi i 24 euro e la signora ti ringrazia, ti regala un sorriso da quel volto quasi apatico e ti ringrazia perché per quel disturbo, quei 10 minuti in più di lavoro, ha guadagnato qualcosa in più e non c'è bisogno di scusarti ancora, lo ripeto, sembri quasi fastidioso, prendi i tuoi pantaloni, tre, da accorciare, accorciati, e lasciala andare.
Appena esci fuori dal negozio non ti senti più in una di quelle giornate un po' così, quasi pensi d'esser stato stronzo a sentirti in una di quelle giornate un po' così e la pioggia, adesso, la guardi con gli occhi e non con la testa, alzi il collo perché la fronte non pesa più e apri bene gli occhi perché le palpebre son più leggere ora e fissi il cielo, sono le 18:10, c'è ancora un po' di luce lassù, si chiama sole, c'era anche prima, solo che non lo vedevi, non lo vedevi perché pensavi di sentirti in una di quelle giornate un po' così.

La barzelletta ufficiale sull'Europa

Siccome mi è già stata girata tre volte, sembra che qui a Bruxelles oggi vada di moda questa storiella (e da una ricerca rapida, sembra venga da questo blog). Allora ve ne propongo la traduzione in italiano, anche se il finale sembra deludere ma in fondo scherza (e sintetizza) sull'efficacia e l'efficienza di certi organi decisionali...

Il paradiso europeo:
Sei invitato ad un pranzo ufficiale. Il benvenuto viene dato da un inglese. Il cibo è preparato da un francese ed un italiano si occupa dell'animazione mentre il tutto è organizzato da un tedesco.

L'inferno europeo:
Sei invitato ad un pranzo ufficiale. Il benvenuto viene dato da un francese. Il cibo è preparato da un inglese, un tedesco si occupa dell'animazione, mentre il tutto è organizzato da un italiano.

Questa barzelletta fu presentata da un belga al "La barzelletta ufficiale sull'Europa", la barzelletta che ogni piccolo europeo avrebbe dovuto imparare a scuola. La barzelletta avrebbe migliorato le relazioni tra le nazioni promuovendone la simpatia e la cultura.
Il Consiglio Europeo si riunì per prendere una decisione. La barzelletta doveva essere La barzelletta ufficiale sull'Europa o no?

Il rappresentante inglese annunciò, con viso serio e senza muovere la mascella, che la barzelletta era assolutamente divertente.
Quello francese protestò perché la Francia era dipinta in cattivo modo nella barzelletta, spiegando che una barzelletta non poteva essere divertente se contro la Francia.
Anche la Polonia protestò perché non era menzionata nella barzelletta. Il Lussemburgo voleva sapere chi ne possedesse i copyright. Il rappresentante svedese non disse una parola, guardando però gli altri con strano sorriso. La Danimarca chiese dove fosse l'esplicito riferimento sessuale: se è una barzelletta, dovrebbe essercene una, no?

L'Olanda non capì la barzelletta, mentre il Portogallo non capì cosa fosse una barzelletta. E' un nuovo concetto?
La Spagna spiegò che la barzelletta sarebbe stata divertente soltanto dicendo che il pranzo fosse servito alle 13, normalmente orario della colazione. La Grecia si lamentò di non aver saputo del pranzo, d'aver mancato un'occasione per mangiare gratis, che tutti si dimenticavano sempre di loro. La Romania allora chiese cosa fosse un pranzo.

Lituania e Lettonia si lamentarono del fatto che le loro traduzioni fossero invertite e che non era accettabile anche se succedeva praticamente sempre. La Slovenia affermò che la sua traduzione era stata completamente dimenticata ma non importava. La Slovacchia annunciò che, se la barzelletta non parlasse di una paperella ed un idraulico allora ci dovrebbe esser stato un errore nella loro traduzione. Il rappresentante inglese disse che la storia della paperella e dell'indraulico sembrava ugualmente divertente. L'Ungaria non aveva ancora finito di leggere le 120 pagine della loro traduzione.

Allora, il rappresentante belga domandò se il belga che aveva proposto la barzelletta parlasse fiammingo o francese. Perché, nel primo caso, avrebbe sicuramente supportato il compatriota ma, nell'altro caso, l'avrebbe rifiutata, indipendentemente dalla qualità della barzelletta.

Per terminare l'incontro, il rappresentante tedesco annunciò che il dibattito era piacevole ma che era ora di prendere il treno per Strasburgo in modo da prendere una decisione. Domandò anche se qualcuno potesse svegliare l'italiano, in modo da non perdere il treno e tornare a Bruxelles per annunciare la decisione alla stampa prima della fine della giornata.
"Quale decisione?" domandò il rappresentate irlandese.
E tutti furono d'accordo che era ora di prendere un caffè.

Quando magari senza qualche forse

Mappa delle parole più utilizzate su questo blog. Ecco, non so se sia un certo stile,
il troppo politically correct o l'accozzaglia di pensieri mal rimbalzati tra le pareti celebrali,
ma sembra che qui si facciano solo chiacchiere da bar e niente più.
Meglio non leggerli, certi blog. Word could realizzata qui.

ah sì, la patria

Bruxelles. Quando prendete posto al teatro Bozar ieri sera, pronti ad ascoltare un tenore peruviano a te sconosciuto, Juan Diego Florez, subito ti accorgi del numero massiccio di lineamenti sudamericani intorno a voi, sicuramente connazionali o con-dintorni venuti ad applaudire la voce di casa. Ad ogni performance gli applausi piovono copiosi e intensi, qualcuno urla un "bravo" prepotente che subito si perde tra le gradinate affollate. Lo spettacolo continua e lui è proprio bravo, o almeno per quel che tu ne possa intendere. Poi agli ultimi minuti ecco spuntare bandiere bianche e rosse, bandiere del Perù quasi fossimo allo stadio, bandiere e cori "Perù, Perù, Perù" di chi forse non si rende conto di star a teatro, ma non c'è scusa che tenga, bisogna dimostrare l'orgoglio e manifestare la nazionalità, connessione diretta con il protagonista della serata.

Madrid. Durante le vacanze natalizie, ti ritrovi ad una cena con una coppia madrilena.
tu: "Piacere - e ti presenti all'altro ragazzo -, Antonio"
lui: "Jorge. Ah, A-n-t-o-n-i-o, che nome spagnolo che hai!"
tu: "Eh sì.. esiste anche da noi... "
lui: "Però, quanta influenza spagnola in Italia eh!" E via una pacca sulla spalla.
tu: "Eh sì, sicuramente - quasi non vorresti rovinargli la credenza, poi però non resisti - però Antonio era già un nome romano, quando la Spagna neanche esisteva, se non sbaglio... "
lui: "Ah, sì, forse hai ragione... però suona meglio in spagnolo, no?". E scoppia in una risata che condividi allegramente per poi godervi la serata insieme.

Bruxelles. Per il collega francese in ufficio non ha importanza quale sia la competizione, lo sport, l'argomento, l'importante è che la parola Francia sia associata a buoni risultati, allora vale la pena raccontartelo, richiamarti al suo monitor per mostrarti con un sorriso soddisfatto la scoperta per poi magari cercare il nome del tuo paese e a seconda del confronto guardarti con il viso di chi ha appena avuto un orgasmo o licenziare il tutto con qualche battuta sterile; e tu ti mostri interessato o almeno cerchi di non far capire che di tutto ciò non te ne può fregar di meno, sarà per mantenere una certa atmosfera lavorativa, sarà che ti dispiace dire no e raffreddarti di colpo o magari speri in un blocco istantaneo di Windows, la famosa schermata blu, ah che bello se comparisse proprio in certi momenti...

Ecco, lo so che la nazionalità è qualcosa di forte perché cultura assimilata fin dalle prime sinapsi e so anche che, essendo mammiferi, essendo animali sociali, l'identificazione nel gruppo di origine (all'estero la patria, in patria la regione, la città, il quartiere, etc.) è importantissima per questioni di orientamento, sicurezza, benessere, però ogni tanto ho come l'impressione che la patria sia un po' come il vino: c'è chi non ne può far a meno e chi ne è astemio, quando se ne è un po' brilli c'è sempre il pericolo di sparare cavolate, in gruppo si fan spesso danni e quando se ne manda giù decisamente troppo, beh ci sono anche i casi di delirio. Certo, berne farà anche bene al cuore, ma con moderazione, si sa, con moderazione.

Prometeo all'italiana

Ed eccolo lì il lunedì mattina il project manager parigino che entra sorridente in ufficio, sempre con la sua mezz'oretta di ritardo (o di puntualità, quando un ritardo diventa un'abitudine, questione di punti di vista) e arrivando alla tua scrivania ecco la solita domanda da qualche settimana (o forse qualche mese o forse da quasi due anni):
lui: "Allora Antoniò - ed il tono dell'Antonio è tutto un crescendo nel suo francese, dal principio forte fino alla finale accentata, totalmente diverso dall'Antonio dublinese, più pacato ma dalle vocali simpatiche - cosa succede con Berlusconi? Va a casa oppure no?"

E tu lì, italiano in ufficio, sembri quasi rappresentare tutta l'Italia in un individuo - pensa un po' che responsabilità involontaria - tutto il mondo di gaffe, di scandali e indignazione che i giornali stranieri diffondono sorpresi e che i colleghi leggono di sfuggita tra un titolone ed una foto, con il sorriso di chi guarda soltanto gossip e la soddisfazione magari di venire da un paese presunto migliore, anche se poi la prediligono come meta di vacanza o come ristorante serale, sei lì e per loro sei italiano, sei l'Italia, sei la fonte di informazioni associate o almeno di risposte a dubbi, curiosità, domande per qualche chiacchiera sterile o un luogo comune da assorbire, da sfatare, da risolvere in una risata. E tu che non vorresti essere un ambasciatore italiano temporaneo né un ufficio stampa pronto a ripetere la stessa eco ogni lunedì mattina, al project manager ritardatario, maldestro organizzatore e sublime ciarliero, vorresti quasi rispondere "No, neanche lui" ma avrebbe poco senso né l'efficacia sperata e allora vai sul vago, come al solito, come d'abitudine.
tu: "Non si sa.. vedremo.. sono mesi, anni che si dice così e poi alla fine.. non cambia nulla.. ".

E a lui va bene così, magari accenna ad un articolo de Le Monde in cui si annunciava la fine, tipo profezia da 2012, e non può essere diverso da così, scuote la testa, per un attimo ti fa capire che gli dispiace e che ha pietà per te, te che in quel momento sei l'Italia tutta nelle sue percezioni e invece sei soltanto un ragazzo andato altrove, senza alcuna connessione con quelle foto di modelle ministeriali e la baraonda politica o forse sì, la mentalità, quella sottile e silenziosa che in fondo porta ogni rappresentante a rappresentare chi giusto ne sia; eviteresti volentieri quelle domande mattutine, se non altro per la noia e l'inerzia delle cose, ma non puoi fare altrimenti, sei come un Prometeo lì alla tua scrivania, ogni mattina a rispondere alle stesse domande, domani torneranno a domandarle nuovamente, prendendo proprio il tuo fegato - potenza delle metafore - che ricrescerà pronto per l'ennesimo pasto, solo che a te non rode, anzi lo offri: ecco, prendetene pure, e quando avrete finito rimettetelo al suo posto s'il-vous-plaît, tanto a breve sarà come nuovo e tutto sarà semper eadem.