D'italiani all'estero che poi espellono

Cara Silvia Guerra di cui ho letto la storia sicuramente non comune o almeno non comune se associata alla nazionalità italiana o almeno fa più rumore in questi casi, nella nostra sfera sociale di segnalazioni e stupori, perché chissà quante storie simili accadono ad altre comunità ogni giorno a Bruxelles e la vita va avanti, indifferentemente, ma non sto qui a far moralismi da letterine di natale, nonostante il periodo e le scene cinematografiche che fanno tanto calore familiare e propaganda corale di pace, certo avrei voluto approfondire la tua storia, ma di venti articoli in giro si riportano sempre le stesse quattro righe per partire poi con l'insalata spesso insensata di polemica e conclusioni sull'Europa, sull'importanza dell'Italia, il rispetto e l'onore, lo vedi?, è un popolo inguaribilmente mafioso anche nelle conclusioni, perché - dicono, scrivono, commentano - all'Italia non si devono fare certi dispetti, l'ennesimo schiaffo, se la prendono con il primo ministro belga, di origini italiane e addirittura d'emigranti, come se poi contasse qualcosa, questa connessione sanguigna e d'empatia, ma non sto qui a far moralismi da sermoni di Gramellini, ecco vedi? Internet è un grande bar, sei già piena di punti esclamativi sulla pagina dei grillini, ci riempiamo poi troppo spesso la bocca d'Europa Europa Europa, solo quando è il nostro paese ad essere chiamato in causa, solo quando pretendiamo Europa, più Europa, e invece l'Europa, quella che vogliamo (o quella che ci piacerebbe fosse, ma che lo facciano gli altri), è ancora un progetto lontano, nel mondo alla fine dell'anno 2013. Ecco, cara Silvia Guerra di cui ho pure assistito ad uno spettacolo in un venerdì uggioso alla Piola Libri qui a Bruxelles, ti auguro di risolvere la questione, nel rispetto delle regole del gioco ovviamente, che siano belghe o europee, e non te lo auguro perché è quasi natale né perché sei italiana, ma semplicemente perché a Bruxelles avevi iniziato una nuova vita e d'improvviso l'hai quasi persa, quella rinascita, te l'hanno espulsa. Ecco, comunque vada, non lasciare che espellano anche la tua voglia di ricominciare.

Cose linguisticamente infantili

Tra tutte le espressioni inglesi che hai imparato e continui ad imparare vivendo all'estero ce n'è una bellissima che accomuna sintesi e poesia - a modo suo - e la vorresti usare spesso, sempre più spesso, per situazioni e opportunità, ma poi finisce che purtroppo non usi, per contesti e tempestività; ne hai imparate tante in questi anni, di espressioni inglesi raccolte dalle varie varianti, quello americano, quello irlandese, quello anglosassone, assorbendole da colleghi e conoscenti, per abitudini e quotidianità, o spesso senza neanche conoscerne le origini e utilizzandole così, in quell'insalata globalizzata dell'inglese degli altri, il globlish, che farà sicuramente venir i brividi a qualche puritano della regina madre, ma s'indossa oramai con disinvoltura se pur dagli accenti altalenanti nei salotti del mondo alla fine dell'anno 2013; e lo sai che una parola in slang non è condizione necessaria né sufficiente per poter vantar un inglese perfetto, e infatti tutte queste espressioni che hai imparato e continui ad imparare non le usi per sfoggiare competenze linguistiche da regina madre, ma semplicemente perché son belle, alcune bellissime, altrimenti non lo diresti con un sorriso, holy canoli, o non faresti l'occhiolino al collega quando sai che puoi sussurrare quella del cut the cheese, eppoi sei affezionatissimo al fair play to you irlandese, inevitabilmente; ma di tutte queste espressioni inglesi che hai imparato e continui ad imparare, che però non puoi usare quando c'è un I'm agree nel gruppo né quando potresti essere frainteso o perché in vesti troppo formali, ce n'è una che davvero vorresti usare più spesso, e ce ne sono d'occasioni per poterla usare, è bellissima, o è solo il volerla pronunciare che ti fa felice, come quando i bambini ripetono cacca cacca cacca e sarà per il suono o per la reazione intorno, difficilmente per l'idea ad essa associata, ecco, tra tutte le espressioni inglesi che hai imparato e continui ad imparare, quella del brain fart non ha rivali.

Qualcosa d'equilibrato

Cosa non facile, quando si trattano certi argomenti. (Lo so, potremmo trovarne anche in questo, di punti su cui discutere, ma accontentiamoci per una volta). Auguri.

He's ordinary

La calca che in pochi instanti riempie ogni spazio respirabile del tram già ben imbottito, soprattutto in un sabato d'acquisti natalizi per le vie del centro, potrebbe essere metafora di tante considerazioni già ripetute, riscaldate e apostrofate di consumismo e società moderne, ma non ci pensi, probabilmente perché ne fai parte o soltanto perché le hai ripetute anche tu, così tante volte, che alla fine son noiose anche per le tue connessioni neurali in cerca d'altri stimoli, nuovi o più semplicemente soltanto diversi. Diverse son le facce della gente che ti circonda per necessità e non per scelta, mentre il tram le sballotta leggere in percorsi di trachee sotterranee ad intasarne la congestione urbana già ammalata, mentre c'è un tizio che non trova pace e si muove sempre più vicino, talmente vicino da potergli annusare il respiro. Non ci son rose, in quel respiro, e quasi pensi - lo pensi davvero, non sai perché, saranno richiami che risalgono da radici supposte assopite - di dirgli "cos'è, vuoi baciarmi?" a mò di provocazione, quando all'apertura delle porte per l'ennesima fermata lo vedi chiaro e limpido mettere le mani nella borsa della ragazza al tuo fianco e poi veloce uscir dal tram. Non esce dal tram perché d'istinto lo afferri per il braccio urlando in francese "gli hai messo le mani nella borsa", mentre tutti si risvegliano dai propri mondi isolati e qualcun altro che lo aveva visto inizia ad urlare "al ladro, al ladro", la ragazza s'accorge d'aver la borsa aperta, lasciata leggera dietro le spalle, che furba. Furbo non sei stato, secondo alcuni, a fermarlo e smascherarlo, perché poteva andare peggio e invece è semplicemente scomparso nella folla, quando le porte si son richiuse sotto il suono stridulo del tram e la ragazza che appena ti ringrazia, non parla francese né inglese, bionda dagli occhi dell'est, ti fa capire però che non è scomparso nulla, gli fai capire che nel tram la borsa è meglio tenerla chiusa, e magari non dietro le spalle. Ti gira le spalle poi e torna alla sua vita e tu alla tua, inevitabilmente, non ti senti eroe quello di Bon Jovi, di just for one day, né quello di Dave Grohl, di he's ordinary, anche se il secondo sarebbe il tuo preferito, almeno nelle cuffie. Porti però a casa un sorriso, anzi forse due, e non è poco.

Piccola guida ai mini furti brussellesi

Succede a chi si trova a Bruxelles per un fine settimana di vacanza e porterà con sè il souvenir poco gradevole per coltivare poi stereotipi e racconti di città malfamate; succede a chi si trova di passaggio durante un viaggio di lavoro a lottare anche con imprevisti mai listati in agende già ben impegnate; succede anche a chi ci vive, a Bruxelles, e la vive quotidianamente, in tutti i suoi aspetti, tanti, diversi, controversi. Succede che qualcuno ti ruba qualcosa, via la borsa, il cellulare o il portatile, ed allora ecco qui una lista di tecniche provenienti da storie vere, di amici e conoscenti, accadute a Bruxelles, ancora e ancora.

Il benvenuto alla stazione: siete appena arrivati a Gare Central o a Gare du Midi, con lo zaino sullo spalle e la testa nell'aria a cercare sul tabellone il vostro treno o qualsiasi altra informazione necessaria, e lì, nella tasca dello zaino, appena dentro la sacca, c'è il portatile dalla sagoma in bella vista. E scompare, all'improvviso. Consiglio: nelle stazioni, muovete sempre lo zaino dalle spalle al torso, sotto il vostro controllo.
Il volantino di troia: siete lì ad una terrazza a godervi una birra, la piazzetta popolosa, impegnati in qualche chiacchiera, il cellulare lì poggiato sul tavolo, pensate in bella vista, e invece arriva qualcuno che lascia un volantino, uno dei tanti, volantini sempre da ignorare, lo poggia sul tavolo, anzi sul cellulare, che magicamente poi scompare. Consiglio: attenti al cellulare sul tavolo, soprattutto dopo la terza birra.
L'amore non è cieco: sei lì nel vagone della metro affollata verso la tua prossima destinazione urbana e a fianco c'è questa coppia che si bacia, si bacia tanto, ma proprio tanto, e giustamente ti giri dall'altro lato, per non guardare, perché sarebbe scortese, perché non ti interessa, perché non sei al cinema, e intanto uno dei due ti sta mettendo la mano nella giacca, nella borsa, nei pantaloni, e ciao cellulare. Consiglio: stai lontano dagli ormoni nella metro.
L'odore che colpisce: sei lì di nuovo nella metro sempre affollata e a fianco c'è il barbone puzzone che non si muove, rimane intorno, non c'è spazio per andar altrove, e siccome puzza tanto tu guardi altrove, per respirare, per sopravvivere, per sopportare, mentre magari una mano ti entra nella borsa, nella giacca, nei pantaloni e ciao portafogli. Consiglio: se qualcosa puzza, tappati il naso ma non gli occhi.
La telefonata che non salva la vita: sei lì che passeggi per Avenue Louise, a guardare vetrine inutili, e all'improvviso ti ferma qualcuno anche ben vestito, ti chiede una cortesia, una telefonata, due minuti, ha il cellulare scarico, è importante, non sai che fare, ti senti al sicuro, nulla di male, lo vuoi aiutare, e poi via a razzo, scappa con il tuo cellulare tra le mani. Consiglio: anche il tuo cellulare è sempre scarico, che spiacevole coincidenza.

Quindi Bruxelles è pericolosa? Beh, non più di altre capitali europee, dove la gente non è meno distratta, sfortunata, sovrappensiero della gente di Bruxelles però. Occhi aperti dunque, ma senza paranoie, cercando giusto di non abbandonare troppo la testa tra le nuvole di Magritte.

Lo psicologo e l'emigrante

Entra mesto nello studio l'ennesimo emigrante senza sorriso,
stringe la mano appena per quei calli di valigie trascinate,
lo psicologo l'osserva attento e studia quel suo viso indeciso
e l'aria timorosa dagli occhi pieni di memorie mal masticate.

"Dottore, la prego m'aiuti! Son prigioniero all'estero!" quasi grida
"Ho sì un lavoro, ma ho più conoscenti che amici, il corpo diviso,
son in un limbo, vivo qui ma penso a casa, tutto diventa salita!".
Lo psicologo tace, osserva bene prima di tuonare all'improvviso:

"E sei uno stronzo!" colpisce l'emigrante dalla bocca impietrita
"Non c'è nessuna prigione, son compromessi che ti dan libertà,
adesso puoi scegliere, puoi tornare indietro o restare eremita,
puoi migliorare o modellare in modi nuovi e diversi la tua realtà!"

"Ma.. ma.. " balbetta il viaggiatore masticando quella risposta
"Ma.. se torno indietro lascio un lavoro e una posizione ambita
e non so cosa trovo a parte il cibo, il sole, il mare, la costa,
per questo mi sento prigioniero, manca quella qualità di vita!"

Lo psicologo tace e l'osserva quasi gli stesse per dar ragione:
"E sei uno stronzo!" colpisce di nuovo con l'ennesima batosta
"la qualità di vita è anche nel lavoro che ti dà soddisfazione
o ad avercene, almeno, e sotto quella tua patria scomposta

ecco che lento ti spogli di fronte alla diversità d'altre culture,
t'arricchisci, conosci gli altri e poi la tua personalità nascosta,
c'è qualità nel tuo viaggio, ma non mancano certo scottature!"
Cala il silenzio nello studio per quella visione mal corrisposta,

poi quasi sussurra l'emigrante oramai completamente onesto:
"Ma... ma dottore... capisco perfettamente queste congetture,
ma se non son felice, adesso, son stronzo anche per questo?"
Si scambiano uno sguardo, immobili quasi come due sculture,

poi lo psicologo lento riprende come avesse di tutto le prove:
"No che non sei stronzo! Ma non sei felice in questo contesto
perché ahimè non hai ancora trovato l'equilibrio nell'altrove,
ma se smetti di sentirti in prigione, se operi questo disinnesto

scoprirai un mondo meno grigio e potrai anche pensar al ritorno,
ma con consapevolezza, niente lamenti se non c'è sole e piove,
devi digerire bene quest'emozioni e poi calmo guardarti attorno,
ti scoprirai più libero e padrone, vedrai che qualcosa si smuove!"

L'emigrante finalmente sorride, forse capendo la preziosa lezione,
lo psicologo gli indica la porta con parole certo non di contorno:
"Ecco, son 100 euro. E non mi guardi con quell'aria da coglione!,
sarò stronzo ma questo studio, sa, è una prigione senza ritorno!".

Le Soir, un giornale (online) serissimo

Ti capita spesso, soprattutto dopo aver deciso di non leggere più quotidiani italiani o almeno non con quella frequenza morbosa e quotidiana di un tempo, pur continuandoti a sorprendere della staticità dei contenuti e della situazione, sempre irrisolta tra una destra carnevalesca e criminale e una sinistra disintegrata e anonima, di rimanere interdetto davanti ai criteri di selezione delle notizie che la versione online de Le Soir, tra i principali giornali belgi, riserva ai suoi lettori. Il dilemma è sempre lo stesso, se i contenuti e l'ordine d'importanza siano scelti in base alle aspettative dei belgi o se la politica della redazione tenda ad influenzarle, quelle aspettative, più che seguirle. Certo è che trovare come notizia principale, con il maggior spazio riservato, in alto a sinistra, il punteggio della partita di calcio di due squadre dai palmares quasi vuoti, se non nei confini nazionali, e subito dopo gli ultimi aggiornamenti sulle importantissime nuove funzionalità di un aggeggio Apple, e subito a seguire l'ancora più importante articolo sulla Liga spagnola, per dover poi relegare al quarto articolo le dichiarazioni del ministro degli interni belga sulla situazione in Siria o addirittura scavalcato da quello che succede in Francia, perché la politica francese è quasi più importante di quella nazionale, o l'ennesimo gossip sulla famiglia reale, insomma ti lascia abbastanza l'amaro in bocca, se pensavi di trovarti di fronte ad un giornale serio, a qualcosa di meglio dei tanto martoriati periodici italiani, che quasi inizi a rivalutare, perché mai lascerebbero tanto spazio al calcio o alla tecnologia di tendenza.
In questa schermata, per esercizio, provate a trovare una notizia importante, una.
Né riesci a giustificarlo con una possibile mancanza di notizie, in un paese sì di appena undici milioni di abitanti dove però la politica estera, soprattutto quella europea, qui in Belgio è di casa, ospitandone gli organi decisionali maggiori, che dovrebbero avere sicuramente maggior rilevanza, soprattutto di questi tempi, rispetto agli infortuni di Messi o le applicazioni per iPhone. E invece no.
La vitale diretta sul nuovo iPhone va giustamente in primissima pagina.

Ti domandi allora se sia il giornale o l'aspettativa del lettore, se dipenda dalla crescente euforia per il calcio nell'esplosione di una generazione di fenomeni per il Belgio, dalle vendite altissime di prodotti Apple, dai sostenitori sempre in crescita del calcio spagnolo, dall'influenza linguistica del mondo francese, dalla marea di micro notizie che girano intorno al re e la sua famiglia, ecco, ce ne sarebbero di punti utili per qualche giustificazione, ma non abbastanza se poi trovi Cristiano Ronaldo prima di Obama o Parigi che oscura Bruxelles.
Da notare nessuna squadra belga coinvolta, ma vanno in primissima. Bravi.

Fuggi altrove, sembra migliorare, e invece poi ti accorgi che cambia poco.

Cose che non cambiano

E c'è un demone, quando vivi fuori, che in realtà s'avvinghia alle tue spalle il secondo appena successivo all'aver varcato la soglia di casa, dovunque tu vada a vivere, crescendo proporzionalmente alle distanze, e quindi all'estero più forte, si suppone, ma non necessariamente, e rimane lì, con te, dorme rannicchiato a fianco al cellulare, sussurra qualcosa quando chiami casa e c'è una voce un po' strana o quando chiami casa e non risponde nessuno, erano altrove, son rientrati, un po' di tosse, non è niente, tutto a posto, sempre in ordine, e mentre il demone se la ride magari ti solletica l'ombra di un sospetto, ma lì impotente non puoi cambiare ideologie secolari e attitudini e caratteristiche che lì, a sud, si rafforzano e trasmettono, forse basandosi proprio su quel comune tacito accordo di evitare trasparenza, anche nelle cose che non riguardano legislazioni e comunità, così da coltivare la malizia e il dubbio, a te a chilometri di distanza, ma forse esageri, perché poi ci dormi tranquillo, te ne dimentichi, sorvoli, ci convivi, mentre il demone del "non ti abbiamo detto niente per non farti preoccupare" è sempre lì con te, in ottima salute.

Sabbia

Te le guardi con insistenza, le mani, come se fosse stata davvero sabbia incessante tra le dita, come se all'improvviso potessi addirittura trovarne granelli misti allo sporco delle unghie, nelle pieghe del palmo che una chimera non saprebbe leggere perché troppo differenti gli alfabeti, troppa arena a limare la pelle e cambiarne natura, non son più le stesse, quelle mani, se all'uscita del vagone della metro c'era già chi non aspettava i tuoi passi per entrare, chi ti spintonava per ritrovare aria e traffico, chi già s'allarmava per la ripartenza imminente, chi non si muoveva aspettando altre linee e destinazioni, lì al centro di flussi umani a rincorrere incontri e speranze: tutta sabbia che ti passava tra le dita, come quando nella zona commerciale, nella caotica rue Neuve o appena fuori la fermata di Porte de Namur, non riuscivi a vedere che teste muoversi scoordinate, mescolarsi in cori di voci rincorse, perdersi tra facce sconosciute mentre si diffondeva forte l'odore dello zucchero che qualcuno faceva sciogliere sulla piastra dei waffel, abile richiamo per file di palati già domati, e la folla indifferente si muoveva intorno a te, fulcro di nessuna circolazione speciale se non quella dei tuoi pensieri sotto sforzo per tutto quel carico di occhi, suoni, passi. Come i bambini che sulla spiaggia si lasciano scorrere una volta e un'altra e un'altra ancora sabbia tra le mani, riempirsi un palmo e farla scorrere sull'altro, seguire con gli occhi la sabbia risucchiata dal vuoto tra le dita, scomparire, se non per alcuni granelli, eppoi ricominciare, mai stanchi, ipnotizzati; allo stesso modo lasci che le chiacchiere rumorose dei tavoli della piazzola popolosa del Parvis scivolino veloci, come fosse l'abbraccio sonoro di una città in fermento, son pianeti raggruppati in orbite d'empatie casuali che t'ignoreranno quando passerai come meteora silenziosa, si confonderà la tua scia opaca tra mille movimenti di galassie in evoluzioni. S'evolve così, l'intreccio d'odori che ti arriva dai cento sacchetti di spezie ed aromi, lì sulla bancarella di uno qualsiasi dei cento mercatini di Bruxelles, c'è chi vi affonda la mano con torpore quasi fosse sabbia rovente, ma non c'è duna né deserto tra le signore che attraversano onde poco mosse di scambi urbani e bambini, cani, urla, qualcuno che urla perché i suoi polli arrostiti son i più buoni della città. Come la prima volta che ti sei ritrovato tra le mani una clessidra, girarla, fissare la sabbia risucchiata al centro e obbedire alla gravità sovrana, fino a riposarsi lenta sul fondo con i salti degli ultimi granelli in ritardo, per poi girarla di nuovo, quasi fosse una magia, quasi non fosse uno strumento per misurare il tempo ma per inghiottirlo, insieme alla tua attenzione. Se ne va così, l'attenzione, ogni volta che ti trovi a respirare la città, ogni volta che ti guardi le mani come se pezzi di Bruxelles ti fossero appena passati tra le dita, quasi la senti, tutta quella sabbia, tutta quella diversità di destini e confusione, e quasi fosse uno spettacolo privato giri ancora una volta la clessidra e lasci che continui a scorrere, tutta quell'innarrestabile vita.

Ma cosa diavolo...

Cose che ti trovi nella buca della posta di casa, a Bruxelles, e quasi ti prende un colpo. Nella spazzatura e a lavarsi le mani.

Non tornerai dall'estero

Lo guardi, quel cielo dalla finestra dell'ufficio che sembra non avere il colore delle tue soddisfazioni sommate con leggerezza, che non possono essere grige - ti ripeti con ritornelli mal digeriti - e che non vuoi associare a nuvole rigonfie di dubbi e previsioni uggiose, quasi a negare lo sfondo d'altalene emotive ma non meteoropatiche: Non tornerai dall'estero, c'è scritto su una nuvola che fai finta d'ignorare, rimbomba sulla testa quando le gocce di pioggia ritmano sull'ombrello e scivolano, come scivolano le memorie della tua vita altrove, di quelle parallele, possibili, che non si son realizzate, che non accadranno, perché no, non tornerai dall'estero. Non tornerai dall'estero lo pensa il nonno silenzioso, mentre consumi felice il pasto preparato secondo ricette secolari dalle mani della nonna affettuosa, prolungamenti d'attese e speranze per il tuo prossimo rientro, temporaneo, di una vacanza, una visita veloce, l'ennesima e poi via, prima di chiudere il sipario nelle solite frasi ed un abbraccio caloroso, non tornerai, pensa la nonna mentre ti ripete di tornar presto, mentendosi tra consapevolezze già accettate e bisogni naturali di contatti familiari. Non tornerai dall'estero, lo mastica la madre pensierosa quando sfoglia giornali di crisi affannate e conseguenze ben prevedibili, mentre qualcuno in tv riempe goffi palinsesti sfornando statistiche e qualunquismo mal camuffato, non tornerai, lo sa, e lo vuole, non lo vuole, lo preferisce, lo ripudia, perché l'estero è soltanto una parola piena di distanza, ma la distanza ci sarebbe stata anche tra le pareti nazionali, condita però d'altri sacrifici, alleviata forse da consapevolezze educate di una patria supposta unificatrice. Sciocchezze. Uniscono di più gli amici, anche quelli che non vedi da anni, anche quelli nuovi, anche quelli che lo sanno, che non tornerai dall'estero, perché nel tuo sorriso leggono già equilibri consolidati e opportunità arricchite, perché non tornerai dall'estero non è una condanna se estero è parola piena di possibilità e a volte basta soltanto provarci, crederci, volerlo, se per ogni prima o poi ritorno non detto c'è un prima o poi ti raggiungo che fa eco. Echeggia nello specchio un non tornerai dall'estero ad ogni smorfia stentata, sei tu, non sei più tu, sei un altro, perché estero è una parola piena di cambiamenti e lo sai, non lo sapevi, te lo avevano detto, non lo avevi letto, che non sei più tu nemmeno nei rientri a casa, anche a casa sei straniero, anche casa è un po' estero, per questo, anche per questo, non tornerai dall'estero perché l'estero sarà con te, come seconda pelle, come abitudini oramai assorbite, alfabeti estesi, scoperte collezionate, non tornerai dall'estero per non rinnegarti, perché si son confusi, estero e patria, non son mai esistiti, si son persi tra tabelloni d'aeroporti affollati e suoni d'accenti indossati. Non lo confidi a chi sussurra ipotesi, non lo confermi a chi chiede promesse, ma non tornerai dall'estero rimane così sospeso, lì con te. E non disturba.

La sorpresa

Idea originale e carina, bella la prima parte, la seconda un po' meno con le solite accuse agli altri, stancanti e opinabili, non ci fosse stata molto meglio.

Cose brussellesi

Il nome di un panino americano (hot-dog) tradotto letteralmente in francese, in una versione latina (italiano? spagnolo? portoghese?). Foto scattata qui.

Di una bellezza un po' disarmante

Cose che davvero non t'aspettavi durante un matrimonio civile in Belgio, il tuo, è d'ascoltare dopo il solito discorso in francese d'obblighi e responsabilità, poi frasi in italiano e spagnolo dall'assessore di uno dei comuni di Bruxelles, perché Bruxelles è così con le lingue, ti sorprende sempre e non t'abitui, e ringraziarvi perché portatori d'ulteriore diversità lì dove già più di 140 nazionalità distinte vivono in sufficiente armonia, eccolo l'ombelico del mondo, di romanzi e leggende nessuno avrebbe mai pensato che potesse trovarsi lì nel nord Europa e chiamarsi poi Saint Gilles, tra i comuni più poveri di tutto il Belgio eppure ricco, di culture, di gente, di storie, eppoi lasciarsi andare in considerazioni personali, lui belga ma di moglie spagnola, nella cornice d'un municipio esteticamente bellissimo, ad accogliere la vostra identità, farvi dimenticare d'essere stranieri, a trasmettere serenità e consapevolezze, in espressioni e osservazioni che valgono più di qualsiasi predica religiosa, per te contento di non essere in una chiesa e piegarti a tradizioni di false credenze e obblighi d'aspettative, d'appartenenze, appartieni di più a quel sorriso belga che regala fiori a lei e ti stringe la mano quasi fossi un figlio, uno in più, contribuendo a rendere speciale un evento che porti con te come fosse nuova pelle, trasformando in momento di ispirazione e sorpresa qualcosa che sarebbe dovuto essere soltanto burocrazia ed impegno. Poi ti domandano cosa ti abbia fatto mai innamorare di Bruxelles e si aspettano risposte brevi, di poche parole. Di poche parole sarà questo blog, per il prossimo mese, perché si va via per un po'. Queste pagine virtuali, nel frattempo, si trasformano in fotoblog brussellese, giusto per spezzare l'altrimenti monotona composizione di pixel già digeriti. A presto.
L'ombelico del mondo. Foto scattata qui.

In all my life I ne'er did see

E stavi lì seduta, al secondo piano del PorterHouse di Temple Bar, a Dublino, in quel lontano gennaio del 2008, mentre musiche irlandesi si diffondevano live nella penombra, io che con l'inglese balbettavo e litigato, approdato da appena 2 mesi nell'isola dei leprechaun da solo, senza lavoro e senza conoscere nessuno, forse non sapevo nemmeno cosa fosse, un leprechaun, o ne avevo visti a migliaia, tra souvenir per turisti e riferimenti pubblicitari, ma non sapevo si chiamassero così. Non sapevo nemmeno chi fossi, quella domenica sera al PorterHouse, se non l'amica di un coinquilino che nemmeno sapevo chi fosse, né potevo immaginare che un leprechaun giocasse intanto con la mia Guinness che Guinness non era, t'ho vista e t'ho voluto baciare, da subito, non l'ho fatto, non potevo, mentre qualcuno rideva del mio inglese e tu invece cercavi d'aiutarmi, a pronunciare qualcosa di sensato che non fosse soltanto italiano tradotto. Ho tradotto poi la mia poesia preferita, di Baudelaire, dall'italiano allo spagnolo, dopo i primi baci a Belfast, anche se in realtà non l'ho tradotta ma ne ho mescolate diverse, di traduzioni, in modo da averne quella che più piaceva, più che altro per i suoni. E l'ho imparata a memoria, mentre attraversavo ogni mattina Grafton Street per andar a prendere la Luas, anche se non avevo idea di come si pronunciasse la j in spagnolo, dovevo far tanto ridere quando abbastanza brillo te la sussurrai all'orecchio. Brillo non ero, quando mi svegliai alle 4 di mattina per venir sotto casa tua, in una gelida Dublino invernale, e scrivere sull'asfalto non i soliti i love you adolescenziali ma qualcosa di più semplice e sincero, you're my happiness, scrissi, nascondendomi appena un'auto s'affacciasse sul vicolo, per paura della Gardai, con le mani macchiate di vernice, rossa. Rossa come la bandiera del Canada lontano, io che avevo già un visto di lavoro per Vancouver, quando già sembrava compromesso tra noi per futili malintesi e in procinto di lanciarmi nell'ennesima avventura, per poi ritrovarti una notte d'agosto ad una festa, appena un mese prima della partenza, l'ho strappato quel visto, ho dimenticato tutto in un bicchiere di vino, rosso. Me lo ricordo ancora, il tuo cappotto rosso, quando arrivammo a Bruxelles carichi di progetti, insieme da appena 4 mesi, mentre tra noi si parlava ancora inglese, lo eliminammo presto, quell'inglese, perché tra un italiano ed una spagnola era troppo innaturale, dicevamo, troppo martoriato da accenti del sud, diceva l'inglese. E ho fatto mia la tua lingua, mentre si giocava intanto con accenti francesi, mentre m'aiutavi ad uscire da un provincialismo indottrinato e pacare impulsi che non si cibavano abbastanza d'empatia, mentre t'insegnavo cos'era la mantecatura della pasta e il basilico e la mozzarella, mentre mi mostravi cos'era il pimentón e il cocido e il gazpacho. C'è una canzone dei Dubliners che credo non aver mai ascoltato a Dublino, ma solo perché troppo ubriaco d'emozioni all'epoca, troppo indaffarato a trangugiare novità e vomitare giudizi da shock culturale, The Spanish lady, si chiama la canzone, In all my life I ne'er did see, a maid so fair since I did roam, dice la canzone. E c'è un'altra canzone, dei Queen, che nemmeno conoscevo, I was born to love you, I was born to take care of you every single day of my life, dice la canzone. Le suonerà entrambe un cd in uno dei comuni più belli di Bruxelles, domani mattina, quando mi tornerà tutto in mente nel giro di pochi istanti. E ti sposerò.

Disintegrarsi altrove

C'è la storia di uno spagnolo a Berlino, emigrato 6 anni fa in Germania, con il mito dell'integrazione, quella preoccupazione iniziale che molti hanno di doversi integrare ad ogni costo, quasi fosse una mania, per imparare la lingua, per avere amici tedeschi, evitando connazionali quasi fossero la peste, incontrandone uno però che si circonda solo di spagnoli, pur vivendo lì da diversi anni, e che gli dice poi di essere già nella fase di disintegrazione. Lui non capisce - dice - all'inizio non può. Poi con il tempo s'accorge però che quella lingua è una barriera per le connessioni sociali, che non è facile padroneggiarla né entrare in breve tempo tra le amicizie di chi aveva già una vita prima del suo arrivo e che aveva già le proprie connessioni nonostante il suo arrivo, e allora quell'idealismo iniziale si scontra con la dura realtà dell'emigrante, terminando col circondarsi d'altri spagnoli, anche per necessità, per non restare solo a casa i fine settimana.
Certo, la sua integrazione ha fatto poi comunque progressi enormi, con la lingua già meno ostile e con almeno quattro amici tedeschi da esporre in bacheca come trofei, ma - racconta il ragazzo spagnolo a Berlino - non è riuscito a raggiungere quel monito iniziale, non è riuscito a non sentirsi spagnolo in Germania (e perché mai avrebbe dovuto?). Senza nessuna discriminazione - dice - alla fine bisogna riconoscere la propria identità, quella voglia di unirsi a persone che condividono quel passato comune, che capiscono umori o espressioni senza il bisogno di star lì a spiegare, chiarire, giustificare, quel bisogno di avere anche conversazioni insensate, per esempio, usare un proverbio, la frase di una canzone, riferimenti a personaggi popolari o lasciare che la notte lo porti in giro senza programmi né pensieri e - dice - succede più facilmente con quelli del sud Europa. È giunto anche lui alla fase di disintegrazione - ammette - dopo 6 anni altrove, alla ricerca della propria identità in un paese straniero.
Però - dice il ragazzo spagnolo a Berlino - anche quando torna a casa si sente strano, gli dicono che si sia germanizzato, perché non sopporta più chi urla per strada, chi salta le code, chi approssima, chi trascura. Ha assorbito vantaggi della cultura tedesca, quindi, a scapito di un pezzo di quell'identità che adesso cerca altrove. E non riesce più a spiegarsi come sia possibile che in Germania politici si dimettano per un paragrafo copiato nella tesi di dottorato - cita il caso di Karl-Theodor zu Guttenberg - o per crediti ottenuti in condizioni vantaggiose - citando l'ex presidente Wulff - mentre in Spagna sembra tutto surreale (e non solo in Spagna, si potrebbe aggiungere). Anche il surrealismo è relativo.
Ad ogni inverno - conclude il ragazzo spagnolo da sei anni a Berlino - pensa di tornare al calore di casa (anche se d'inverno Madrid non ha poi questo clima così tropicale eh), ma appena pensa di doversi di nuovo adattare ad un sistema oramai ammuffito, beh, rimanda certi pensieri di almeno un paio d'anni.
Caro ragazzo spagnolo da 6 anni a Berlino, buona disintegrazione anche a te.

Ogni volta

Ogni volta che inciampate nel lamento vorace della nuvola passeggera, della pioggia deludente e l'ennesima mancanza di sole che lascia senza energie perché divora il vostro umore e di conseguenza quello degli altri attorno, appena iniziate ad addossare le colpe di qualsiasi cosa alla crisi, al governo, alla corruzione, agli alieni, quando vi fermate perché c'è una paura che inghiotte la grinta, oscura la passione, consuma gli interessi, ecco, ogni volta che volevate provarci ma, che pensavate di esser forti però, ricordatevi di questo video.

La patria è mobile (e ti rende immobile)

Leggi il buongiorno quotidiano di Gramellini più per un articolo segnalato, 'La patria è mobile', che per spirito di lettore costante e ti ritrovi a leggere dell'ennesimo capolavoro all'italiana di dar una botta al cerchio e una alla botte, d'altronde se esistono espressioni comuni di questo genere sarà anche e soprattutto per descrivere comportamenti abituali della società che li tramanda. Ma non è questo che ti sorprende, un po' per rassegnazione digerita un po' per consapevolezza radicata. Ti sorprende il solito commentatore irriducibile, c'è sempre, in tutti gli articoli, che commenta così

Ed ecco che anche di fronte alla verità oggettiva, alle condanne, ai risultati, alle sconfitte, alle cose che dovrebbero far riflettere e innescare un cambiamento, ad un potenziale tipping point insomma, ci son sempre quelli che si nascondono dietro presunte superiorità e che saranno vittime già tra un minuto di facili propagande, proclamazioni d'onore, partecipando direttamente e ancora una volta all'immobilità stagnante, a quella presunzione che trabocca ad ogni parola se incontri turisti italiani all'estero con il giudizio che pende dalle labbra e i richiami sempre chiarissimi al paese del sole, dell'arte, della buona cucina; ad ogni parola se rientri e sei visto come portatore di confronti, come il disertore e la minaccia alla qualità di vita altrui, agli equilibri perfettissimi di statiche realtà; ad ogni parola se son tutti lì a osannare Benigni appena sviolina sul paese più bello del mondo nell'autocelebrazione esasperata di un passato oramai polveroso sdoganando e diffondendo populismo spicciolo e orgogli di carta pesta. Niente, ci son sempre quelli a cui basta concludere che tutto il mondo invidia, si mangia le mani a voler essere come l'Italia, è un virus che si sviluppa quando la patria incontra l'ignoranza, è un virus che si diffonde appena si teme un attacco a verità consolidate. È un virus che ti rende immobile, anche quando sembra danzare tra una decisione e l'altra, tra un cerchio e una botte, per restarne appunto al centro, immutato.

E come ogni mercoledì

E come ogni mercoledì arriva il paniere bio Gasap, puntuale, da oramai 2 anni. Prodotti belgi, freschissimi, ogni volta stringendo la mano direttamente all'agricoltore, che oramai conosciamo personalmente. Si aiuta l'economica locale e si mangia sano. E i sapori son quelli d'altri tempi.

L'amore ai tempi dei social network

Lei era lì, persa nel suo smartphone, quando la nonna la chiamò per mangiare uno dei soliti piatti spettacolari. Ma non toccava il piatto, la nonna, se non dopo la classica preghiera. Non toccava il piatto, la nipote, se non dopo l'upload su Instragram. Religioni. Più che mangiare quel piatto, la nipote aveva voglia di condividerne una foto su facebook e controllare un commento su Instagram e poi vedere i like e... per mangiare alla fine dovette riscaldarlo al microonde. La nonna non se ne accorse, occupata a capire cosa facessero i vicini di casa. Non sapeva, la nonna, che le zitelle pettegole non usavano più le tapparelle mezze abbassate per nutrirsi di fatti altrui, avevano la ricerca su facebook. Evoluzioni.
Lui era lì, nell'intimità del far cacca, assieme a trecento amici nello smartphone. Prima al bagno leggevano gli ingredienti dei detersivi per riempire il tempo. Adesso leggevano cose su uno smartphone, con la stessa attenzione. Ma in quel modo non perdeva neanche un secondo di connessioni sociali, aveva tutto sotto controllo, lo dicevano le notifiche di facebook. Poteva vedere cosa mangiava lei, aggiungere un like e scrivere cose carine, mentre faceva la cacca.
La vita era sul flusso di facebook, d'eventi, di foto, di stati d'animo. C'era chi lo apriva e aveva l'impressione di leggere Novella2000 mentre avrebbe forse preferito frammenti di Science e National Geographics. C'era chi lo apriva e doveva scavare per trovare notizie importanti, sommerso da vomiti digitali di creature affamate d'apparenza e commenti. C'era chi diventava una moderna facebook-star, una twitter-star, ma era davvero felice solo se appariva nella vecchia televisione. E c'era chi non usava facebook, ma veniva visto con sospetto e di lui nessuno si ricordava quando s'organizzava un evento. Perché una volta ricordavano tanto, ricordavano a memoria i numeri di telefono degli amici, poi li misero in uno smartphone, numeri ed amici, insieme a una parte del cervello. Era più facile così, senza quella parte, e avere tutti gli amici in tasca, sempre con sè. Anche quando si era soli, soprattutto quando si era soli, erano tutti a portata di smartphone. Anche quando si era con gli amici, intorno a un tavolo al bar, ognuno pensava agli altri amici, nello smartphone. Quando poi il router wireless s'interruppe per un guasto, nel bar di colpo si sentirono strani rumori: erano le voci delle persone. Non parlavano, si chiedevano soltanto cosa fosse successo alla rete. Per fortuna la maggior parte di loro aveva la tariffa flat dati e continuò a socializzare, nello smartphone. Gli altri si arresero, dovettero socializzare nella vita reale. Ma si erano detti così tante cose su whatsapp, facebook e gmail, che non seppero di che parlare. Lei cercava con qualche smorfia di mandargli un messaggio, un segnale, lui non capiva, troppo abituato alle facili notifiche di facebook. Lui avrebbe voluto rispondere con un'espressione del viso inequivocabile, ma lei non capiva, troppo abituata alle faccine della chat di parentesi e puntini. Ai #sischerza su twitter. La guardava ed era convinto che tutte quelle parole dolci, quelle immagini assieme, quei momenti speciali, fossero anche nel cuore di lei. E invece erano soltanto nei server di facebook. Il loro amore così era per gli altri e degli altri, in mezzo a dozzine d'altri aggiornamenti, dimenticato nel tempo d'un refresh.
Qualcuno tentò di avvertirli, ma non aveva un profilo facebook, non aveva molto seguito. Qualcuno tentò con un dito d'indicare la realtà, il cielo, la luna. Ma mentre il saggio indicava la vita, loro continuavano a fissare lo smartphone.

Aritmetiche europee

Con il nodo alla cravatta che però ancora lasciava digerire pensieri e rimasticare memorie, sei stato al matrimonio di un italiano ed una irlandese e hai pensato: ecco, più Europa; sei stato al matrimonio di un italiano ed una serba e hai pensato: qui, più Europa; con la bocca piacevolmente impastata da una Grimbergen brune che però un po' lasciava annebbiare pensieri e rallegrare memorie, hai parlato con una coppia d'amici, lei italiana e lui greco, e hai pensato: beh, più Europa; sei stato in viaggio con un'altra coppia di amici, lui italiano e lei belga, e hai pensato: toh, più Europa. Eppoi c'è la collega portoghese ed il marito belga, l'amico italiano e la ragazza portoghese, il collega francese e la ragazza belga d'origini spagnole: più Europa per tre. Certo, c'è anche l'amica spagnola che dopo due anni decide di lasciare il ragazzo greco conosciuto a Berlino, perché lui non trova lavoro in Spagna e nessuno dei due lo trova né a Bruxelles né a Londra e la distanza col tempo fa male: eh, meno Europa. Ma c'è pure l'altra coppia di amici, lei spagnola e lui francese, che pur di star insieme si trasferiscono da Limerick ad Amburgo e da Amburgo a Londra, seguendo percorsi di scrivanie ed abbracci. E tu pensi: così, più Europa. Più Europa perché entrano in contatto realtà lontane per sfatare o confermare stereotipi e fantasie mentre alfabeti dagli accenti dissonanti producono sinfonie improvvise di promesse e diversità: e si genera ricchezza, di culture che s'annidano e di famiglie che si spostano, s'incontrano, di nuove generazioni che nascono dalle radici più estese.

Dev'essere grazie a quel progetto d'Europa senza frontiere, a queste generazioni di free movers - pensi - che varcano confini spinti da nuove opportunità e agevolazioni, spogliandosi di nazionalismi opachi e creando nuovi spiriti continentali. E invece no. Perché sebbene siano studi soltanto recenti, pare che in Svezia, ad esempio, l'avvento dell'Unione Europea non abbia influito in alcun modo nella crescita di matrimoni tra europei. Idem in Svizzera e Belgio, dove prevale da sempre il fattore linguistico più di quello europeo. Stabile in Italia e in leggero aumento in Spagna. Mentre tu vedi più Europa in giro quindi, nulla o poco più è cambiato a livello di mix secondo i dati. Tu ne sei diventato spettatore, semplicemente, e la tua percezione è lì pronta ad ingannarti. Già t'immaginavi, tra pensieri di crisi e propaganda e le memorie lontane di progetti iniziali e padri fondatori, i discorsi di Barroso a parlar d'amore quasi fossero pagine di Moccia, già fantasticavi sulle smorfie di Van Rompuy inneggiare a comizi di Antonio Albanese in Più pilo Più Europa per tutti, forse più efficace di tanti altri discorsi di tagli e rendiconti. E invece no.
Quello che invece ci dicono, i dati, è che aumentano i matrimoni tra europei ed extraeuropei, un po' ovunque, e che invece di guardare all'Europa, vecchia e consunta oramai, forse dovremmo percepire meglio altre aritmetiche, più globali e meno politiche, perché il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non può conoscere, direbbe giustamente Pascal, e i pregiudizi hanno le proprie statistiche, che le statistiche spesso non confermano.

Come si vive a Bruxelles?

È una domanda che viene posta spesso, da chi ha in programma un trasferimento a Bruxelles, ed è una domanda a cui non è facile rispondere, perché ognuno vive la propria Bruxelles, con le proprie aspettative, compromessi, abitudini, con il proprio carattere ed il proprio bagaglio culturale, esperienze lavorative, connessioni sociali. C'è una Bruxelles per tutti, ma non è detto che tutti la trovino.

Chi si lamenta di Bruxelles cade sempre su almeno uno dei classici argomenti:
- la città è sporca: vero, soprattutto in centro, i trasporti, le strade. Dipende molto dalle zone che si frequentano, ma il primo impatto è sempre un po' impressionante, più che altro per le attese e lo stereotipo di città del nord pulita e perfetta.
- la burocrazia è assurda: vero, ma è il Belgio in quanto stato ad essere complesso, spesso surreale, incastrato in un politicamente corretto perenne tra francofoni e fiamminghi e nella decentralizzazione di diversi poteri. L'Europa, seppur qui rappresentata con istituzioni e bandiere, è ancora un progetto molto lontano e la burocrazia e le tempistiche che affronterete ve lo confermeranno.
- la città è un continuo cantiere: vero, ma dovrebbe essere una cosa positiva, vuol dire che le cose si muovono, cambiano, si adattano. Ovviamente anche qui i cantieri durano tanto, spesso troppo, e nel frattempo bisogna conviverci.
- la microcriminalità impazza: vero secondo le statistiche recenti, e sono molti gli amici o conoscenti che hanno subito almeno una volta uno scippo, un finestrino della macchina sfondato, un furto in appartamento. Bisogna fare attenzione, anche nelle strade più alla moda potrebbero sempre strapparvi il telefono dalle mani e scappare. È una delle conseguenze negative del boom demografico degli ultimi anni. Per fortuna non riguarda tutti, personalmente in 4 anni non ho nulla da denunciare e non mi sono mai sentito in pericolo.
- il traffico è asfissiante: vero secondo le statistiche, che riportano Bruxelles tra le città più imbottigliate d'Europa, ma probabilmente vi riguarderebbe solo nel caso in cui doveste prendere il ring ogni giorno. I problemi di parcheggio poi sono quelli tipici di ogni città. E bisogna abituarsi alla santa precedenza a destra, sempre.
- il cielo è sempre grigio: siamo nel nord Europa, di cosa ci meravigliamo? Sebbene se ne parli sempre però, la pioggia non la fa da padrona, a Bruxelles piove relativamente poco. Il cielo però ha spesso quel grigiore che può influire sul morale. Quando i cambiamenti climatici porteranno il sole perpetuo anche qui, ci si lamenterà del troppo caldo (che rende la città appiccicosa e maleodorante, per la sua alta umidità e per la naturale inadeguatezza infrastrutturale).
- i belgi sono razzisti: chi lo dice è un tacchino, tutto qui.

Chi invece elogia la città vi parlerà sicuramente di almeno uno dei suoi punti forti:
- Bruxelles è viva: festival, concerti, manifestazioni d'ogni genere sono all'ordine del giorno: le mille organizzazioni europee ed internazionali, il mix culturale e le varie comunità della città generano una maratona continua d'eventi, di iniziative, per ogni tipo di pubblico. Annoiarsi è davvero difficile.
- Bruxelles è internazionale: probabilmente non ci sono altre città in Europa dalle stesse dimensioni e lo stesso livello internazionale di Bruxelles, un concentrato di multiculturalismo dovuto sì alla presenza delle istituzioni europee, ma anche alla NATO, al passato coloniale in Congo, alla lingua che richiama molti dai paesi nord africani, alla posizione geografica vantaggiosa, creando una torre di babele, un mix incredibile ed una diversità apprezzata da molti come ricchezza unica.
- Bruxelles è mediterranea: sebbene situata nel nord Europa, la città ha molto di mediterraneo, con i suoi pro e contro ovviamente. Ma i suoi mercatini multicolore, le sue piazze popolose, le terrazze incuranti del tempo e la vita che s'incontra per strada, ricordano a tutti gli effetti altre latitudini.
- Bruxelles è un villaggio: le dimensioni ridotte ed il sottoinsieme di città che alla fine ci si ritrova a frequentare, rendono Bruxelles un villaggio dove incontrerete spesso per strade facce conosciute, amici, colleghi, aiutandovi a sentire più parte del tessuto urbano, riducendo tempistiche di spostamenti ed incontri, sapendo di essere sempre a non più di 10 minuti di taxi da casa.
- Bruxelles è verde: più di 30 parchi sparsi per tutta la città (tra le più verdi d'Europa), molti spesso da scoprire, polmoni urbani che accolgono sportivi, lettori, famiglie, eventi ed attività, che si trasformano in spiagge estive e perfetti luoghi d'incontro per socializzare e ricaricarsi.
- Bruxelles offre opportunità: tantissime, grazie alle istituzioni ed enti, aziende internazionali presenti. Ma c'è anche tanta competitività, di persone qualificate che arrivano da tutta Europa pronte a farsi valere. Bisogna essere preparati e motivati. E provarci.
- Bruxelles è al centro di tutto: a metà strada tra Parigi ed Amsterdam, tra Londra e Francoforte, tutto è a poche ore di treno o di macchina, offrendo fughe rilassanti a portata di fine settimana.

Difficile descrivere tutto ed in modo verghiano. Nessuno vi dirà mai come voi vivrete in una città, perché nessun altro è voi. Chi valora o si ritrova in diversi punti forti, dimentica, si adatta, assorbe più facilmente quelli lamentabili; chi invece cade nella spirale dei lamenti, ignora, sminuisce, critica quelli positivi o semplicemente non li ritiene abbastanza consistenti per giustificare la propria permanenza. Come in tutte le città, sono scelte, tutta questione di compromessi e bilanciamenti personali. E siccome la vostra felicità dipende soprattutto dal posto in cui vivete, compromessi e bilanciamenti sono vitali per il vostro sorriso.
Ah, e Bruxelles è anche italiana, tanto, forse troppo, punto forte per alcuni o lamento per altri, l'importante è non prendere troppo sul serio la propria nazionalità. Soprattutto a Bruxelles.

Equilibri itineranti

Da quando hai lasciato l'Italia è successo che hai visitato tanti panorami distinti in giro per l'Europa, ma anche Capri, Pompei, Amalfi, Positano, che son sempre stati lì, a poche ore da casa, e pure Firenze, Milano e la Valle d'Aosta, che non erano a poche ore da casa ma c'erano limiti di risorse economiche, di priorità, di rimandi, e alla fine conoscevi poco più del tuo intorno memorizzato, sicuro, conservatore. Da quando hai lasciato l'Italia è successo che hai incontrato tante culture distinte, tra alfabeti e mondi da decifrare, ma anche piemontesi, siciliani, emiliani, pugliesi, toscani, friulani, alcuni avresti potuto incontrarli anche in Italia, altri forse pure, nelle casualità di connessioni ed amicizie, ma ad incontrarli fuori c'è meno diffidenza, c'è qualcosa in più in comune, lo star fuori, e hai imparato espressioni in dialetti lontani, provato ricette dai sapori sconosciuti, imparato cose di chi condivide sì la stessa lingua ma abitudini spesso completamente opposte. O le stesse, a distanze fatte di chilometri e luoghi comuni. Da quando hai lasciato l'Italia è successo che hai studiato tante cose, lingue straniere e cose di lavoro, culture e storie di città che t'ospitavano per periodi sempre più lunghi del previsto, ma hai studiato anche gli anni di piombo in Italia, le vicende di Pippo Fava, del piccolo Alfredino, la storia dei briganti, le parole di Gramsci e tanti altri eventi, momenti, personalità collegate a quella nazionalità riportata su documenti ed accenti, che altrimenti basta soltanto alla burocrazia e poco altro. Ce ne son tante, di cose che non sai. Cose che magari avresti ricercato comunque, per età, interesse, per un riferimento non immediato in un articolo di giornale, per caso, ma che fuori poi hanno un sapore diverso, perché da quanto hai lasciato l'Italia è successo che hai interagito con tante patrie, tue ed altrui, banali e inattese, in giochi pirandelliani di stereotipi e conferme, ritrovandoti ad odiarla, quell'Italia che hai lasciato, ma anche ad apprezzarla, ancora evitarla, poi cercare di capirla, leggerla negli altri e riconoscerla in te, perché si lasciano panorami ma non si cancellano nell'oblò di un aereo, si calpestano terre nuove ma rimangono odori di quelle di ieri. E si sviluppano nuove radici, inevitabilmente, rompendone altre, alleggerendole, per poi rafforzarle, come se si dovesse colmare una mancanza o giustificare una partenza, come se scoprire e gustare nuove tonalità d'umanità inneschi una reazione di curiosità e rimpianto, alimenti la volontà di conoscere quello che si dovrebbe conoscere ma non s'insegnava, visitare quello che si dovrebbe aver visitato ma si rimandava, e non per nazionalismi o altri sentimenti religiosi di bandiera, ma per la semplice voglia di sapere, pur con la consapevolezza di non voler tornare, perché si sta bene dove si sta, in una sorta d'equilibrio da appagare c'è bisogno anche di conoscere meglio quello che si è lasciato. E masticarlo, conservarlo, portarlo con sé.

Cose che fanno ridere gli stranieri, tantissimo

Esperimento consigliato: provate a spiegare ad uno straniero che con gli spaghetti rimasti da un pranzo potete preparare una bella frittata ed avrete risate assicurate, incredulità e stereotipi consolidati, perché la pasta, la pasta, la pasta.
Poi però ditegli che è pure buona, ma senza ridere.

Perché senza Linkedin hai un'arma in meno

Rimango ancora sorpreso dal numero di persone che mi contattano perché alla ricerca di un lavoro all'estero, in particolare a Bruxelles, ma senza un account Linkedin. Anche i più riluttanti e contrari ai social network dovrebbero abbandonare certi preconcetti, soprattutto se alla ricerca di un lavoro, e creare un profilo Linkedin, quanto prima, curarlo anche più del proprio curriculum e lavorarci, migliorarlo, espandere la propria rete di contatti. Perché? Linkedin, comunità virtuale che conta oramai 200+ milioni di utenti, è diventato praticamente indispensabile per la ricerca di un lavoro qualificato ed utilizzato da recruiters e personale delle risorse umane (HR) per cercare profili interessanti e proporre opportunità di lavoro. Non averlo significa perdere già una serie di possibilità e canali di comunicazione che, se state cercando lavoro, potrebbero risparmiarvi tempo ed energie.
I consigli che non smetto di ripetere potrebbero farne capire l'importanza:
  • Create un profilo a partire dal vostro curriculum, affinatelo, cercando di essere brevi ma precisi; elencando titoli ed esperienze e concentrandovi su parole chiave e punti da mettere in risalto. Siate onesti, ma sappiate anche vendervi per quello che potete offrire. Periodicamente revisionatelo e domandatevi se rispecchia davvero le vostre potenzialità, se risulta interessante a chi lo vede e potrebbe chiamarvi per un colloquio.
  • Espandete la vostra rete di connessioni, con colleghi, amici, conoscenze. No, non siamo su Facebook, vanno bene anche quelli che non conoscete bene. Perché? Perché più connessioni avete, più la vostra rete di possibili contatti (quelli a 2 gradi di connessione) si estende, aiutandovi nei risultati delle ricerche, nei dettagli che potrebbero interessarvi, nei profili che vorreste aggiungere (nei limiti di un account gratuito).
  • Arricchite il vostro profilo con competenze e progetti a cui avete lavorato. Chiedete ai vostri colleghi di raccomandarvi o incoraggiare (+1) alcune conoscenze. No, non c'è gara all'abbondanza e non avranno un ruolo determinante nel vostro profilo, ma averne non vi danneggerà di sicuro.
  • Se state cercando lavoro a Bruxelles, per esempio, vi servono contatti del posto che aprano nuove connessioni (a 2 gradi da voi). Cercate recruiters e personale HR di aziende che operano sul posto e che potete contattare direttamente: nella maggior parte dei casi vi aggiungeranno e automaticamente avrete nel vostro flusso di notizie i loro aggiornamenti, quasi sempre relativi ad offerte di lavoro da valutare e magari considerare. Quando qualcuno mi contatta cercando lavoro a Bruxelles, lo aggiungo alla mia rete per facilitarne il raggio d'azione in Belgio ed in più ho già pronti una trentina di contatti (recruiters, HR, ma relativi al campo informatico) da proporre, che saranno quindi a 2 gradi di connessioni e che potrebbero aiutare nella ricerca del lavoro.
  • Con un profilo professionale ed una rete ben estesa, contattate direttamente recruiters e personale HR: il messaggio deve essere breve (per limite di caratteri consentiti), formale e preciso; siete alla ricerca di un certo tipo di impiego a Bruxelles (non qualsiasi cosa), disponibili, in attesa di riscontri; andate al sodo, mandatelo in inglese, non perdetevi in traduzioni francesi o addirittura olandesi. E attenti ai copia e incolla.
  • Preparatevi una lettera di motivazione (in inglese) che sarà un modello da mantenere per il 70%, ma da personalizzare in base ad azienda, posizione, competenze richieste. Non elencate di nuovo il vostro cv, si chiama lettera di motivazioni: esprimete le vostre motivazioni. Vi servirà quando i contatti acquisiti tramite Linkedin inizieranno a rispondere. E ricordate che i recruiters non sono angeli: chiarite sempre tutto prima di accordare colloqui.
  • Linkedin vi offre un mare di dati: usatelo. Siete interessati ad una azienda? Cercate chi ci lavora, cosa fa, come descrive il suo lavoro nel proprio profilo, che tecnologie usa, che clienti hanno, progetti, esperienze. Cercate chi ci ha lavorato (sempre tramite la ricerca avanzata di Linkedin) e come ha evoluto la sua posizione, per quanto tempo ci ha lavorato e cosa ha fatto durante quell'esperienza di lavoro (potete rendervi conto, per esempio, se un'azienda di consulenza fa davvero del body shopping facendo cambiare progetti ogni 3 mesi ai propri impiegati). Avete un colloquio fissato? Cercate il vostro contatto su Linkedin, la sua carriera, i suoi punti forti, studiatevelo in modo da poter essere pronti a qualsiasi domanda (funziona, ve lo assicuro). Cercate il direttore del dipartimento per il quale dovreste lavorare, il suo profilo, le sue competenze (e mentre guardate profili altrui, potete anche nascondervi). I dati sono tutti lì, se siete motivati e svegli, saprete come usarli per il vostro fine e, sì, adesso capite sicuramente meglio perché vi serve una rete estesa.
  • Giocate alla pesca: andate a visitare i profili di personale HR o recruiters che non potete contattare o preferite non contattare direttamente. Nei loro aggiornamenti sapranno che avrete visto il loro profilo, una buona parte verrà incuriosito a visitare il vostro, qualcuno potrebbe contattarvi. Chi dorme non prende pesci, vale anche su Linkedin.
  • Nella maggior parte dei casi, non vi serve un account a pagamento. Consideratelo solo se in difficoltà con l'espansione della propria rete e in caso si volessero contattare determinate persone (con i messaggi InMail).
  • Come al solito, Linkedin è solo uno strumento, complementare ad altri che non vanno abbandonati nella ricerca del lavoro, ma che usato con creatività e astuzia può aprire nuove ed interessanti opportunità grazie all'enorme mole di dati fornita. È tutto lì, dovete solo usarlo: in bocca al lupo.

Quando parli con un fiammingo

Ci son due cose essenziali da non trascurare, quando parli con un fiammingo (e probabilmente anche quando parli con un tedesco, un danese, uno svedese), che saltano all'occhio quando ne inizi a studiare la lingua e quindi la cultura, cose che nell'evoluzione di un popolo s'influenzano a vicenda, inevitabilmente. La prima, all'apparenza banale, è che il linguaggio è molto più diretto rispetto a lingue latine, rispetto anche alla tua quindi, e non ci sono troppe giravolte intorno ad un concetto o formule esasperatamente lunghe in ambiti formali: meglio andare al sodo, brevemente, senza ambiguità né altalene linguistiche. Può sembrare a volte troppo diretto, quasi sgarbato per alcuni, e invece è semplicemente la lingua (e le abitudini che poi si trasmettono alle altre lingue parlate). Attenti però a non cadere nell'errore del tacchino, nel concludere che la lingua sia meno espressiva, meno ricca, soltanto perché meno pomposa: ogni lingua ha una propria espressività, perfetta per la cultura che ne è indissolubilmente associata, ed in grado di comunicare tutto quello di cui si ha bisogno. Capita spesso, per esempio, d'incontrare italiani all'estero elogiare l'italiano perché mille volte più espressivo dell'inglese, confondendo però per inglese quel 20% d'inglese che si conosce: la tua lingua madre sarà sempre più espressiva delle altre, per te, perché è tua e perché sei cresciuto nella cultura che combacia con essa.

La seconda cosa da non trascurare, quando si parla con un fiammingo, è che spesso il verbo o la negazione possono comparire alla fine della frase, in costrutti linguistici a noi ovviamente non familiari, e proprio a causa o grazie a questa struttura interrompere qualcuno mentre parla più che intollerabile diventa insensato: se il verbo è alla fine e m'interrompi alla terza parola, hai solo il 30% delle informazioni necessarie, non puoi sapere cosa sto per dirti, mentre in una lingua latina probabilmente avresti già il verbo e con esso l'80% del significato. Certo interrompere non è mai cosa gradita, ma in certe lingue diventa ancora più difficile da giustificare. E abituati a certe lingue, anche parlandone altre rimane l'abitudine a non essere interrotto (o non tollerarlo come in altre).

Per questo, se vi trovate a Bruxelles per un colloquio e di fronte avete un fiammingo - e ve ne accorgerete facilmente, non solo dall'aspetto, ma anche dall'accento nel parlare inglese (o francese) - meglio non interrompere, mai. E meglio non girar troppo intorno alle domande, dando risposte veloci e precise. Un fiammingo, per esempio, avrebbe scritto questo post con la metà delle parole. O anche meno.

Equilibri necessari


E dopo un mese d'estate inattesa, proprio lì dove s'andava al mare qualche
fine settimana fa, ecco che la natura riporta i suoi equilibri, in modo maestoso.
A Knokke, sulla costa belga.

Se venire dal sud diventa un vantaggio

Il nodo alla cravatta non troppo stretto, ad un colloquio interminabile però stimolante, è perfetto per evitare che ansia e pensieri si blocchino in un rigurgito di panico, e quella finestra alle spalle della tua intervistatrice aiuta a lanciare lo sguardo fuori, anche solo per qualche instante, come se tra le pennellate di nuvole nel cielo ci fossero le risposte a quelle continue domande. Non ci sono, ma aiutano a trovarne, nella distrazione apparente o soltanto nel cambiare sguardo e lasciar scivolar via un po' di pressione. È lì, la pressione, tutta sul pavimento, la tocchi con il tacco delle scarpe, dopo la prima ora di colloquio preliminare, classico, di quelli fatti e rifatti, un po' memorizzati, un po' fastidiosi quando si arriva (sempre con quell'espressione quasi fosse una tecnica personalissima, inventata, che spiazza) alle domande sui tre punti deboli. Ne hai tanti, da dire, ma nessuno da condividere, come al solito, se non quelli preparati, pure loro come la poesia di un bambino, però più espressivo, furbo.
Quando poi si è passati alla Case interview, il nodo alla cravatta s'è stretto ad abbracciarti il collo, forse a proteggerti. Perché - ti ripeti in monologhi segreti però continui - perché c'è bisogno di tutto ciò? Perché adesso deve porti di fronte ad un problema assurdo, come per esempio spostare il Colosseo in Sicilia o calcolare quanti barbieri ci sono a Sidney? Dopo la prima selezione di lettere di motivazione e i test online di matematica, statistica e logica, c'è davvero bisogno di questa benedetta Case Interview? Sì, ti sei risposto, perché in fondo non potevi altrimenti, mentre lei sfoglia i suoi appunti, scrive qualcosa, sottolinea parole che avevi mescolato a carriera, passato e aspettative, percorre una lista di paragrafi che non sanno nulla di te ma che serviranno a giudicarti insindacabilmente. Intanto fuori c'è ancora luce quasi ci fosse stato un altro giorno da attraversare, nonostante le 19:00 passate, e le nuvole procedono lente, ignorandoti. Tranquillo - ti ripeti - mal che vada sarà comunque una bella esperienza. Tranquillo - ti rincuori - se sbagli qualcosa, how fascinating.

La corruzione - dice lei. La corruzione - ripeti muto fissandola con attenzione. La corruzione nel mondo, dobbiamo eliminarla - continua lei. Eliminarla - scandisci muto a scanso di equivoci tra udito e cervello. Ed eccola, la domanda della case interview, eliminare la corruzione del mondo, voilà, tocca a te, eliminarla, spiegare come, mostrare ragionamenti e strategie, impressionare se possibile. Una goccia di sudore attraversa lenta il collo per perdersi assorbita dalla camicia già bella stropicciata, sulle spalle, mentre una mano ti strofina una gamba quasi a ricaricare meccanismi necessari per reazioni immediate, come se stesse per far partire il colpo di pistola che fa poi scattare tutti i corridori allineati.
La corruzione. Inizi col descriverla in modo generico, col menzionare indici globali di trasparenza che vanno letti al contrario, riempiendo la stanza di parole come potere, gerarchia, burocrazia, tracciabilità, morale, abitudini, orchestrandole in gradi di granularità e contesti, cercando negli occhi di lei consensi, indizi, direzioni.
Almeno 5 vantaggi della corruzione - chiede lei, annotando qualcosa, lenta. Cinque vantaggi - ti chiedi muto. E come una serie d'immagini nitidissime ti ritorna in mente tutta una realtà passata, fatta di negoziazioni, accordi, pagamenti in nero, amicizie, parentele, al comune, dal meccanico, alla scuola, alle elezioni, potere, il vicino di casa, l'appalto, scene chiarissime di sopravvivenza e cultura, usi e costumi, in terre del sud di brava gente. Ti è bastato elencarne gli scopi, le giustificazioni, in un esercizio di memoria tanto spontaneo quanto fastidioso.
Cinque svantaggi adesso - ti chiede lei, continuando a prendere appunti, accennando approvazione con un sorriso sottile. Cinque svantaggi - ti risuona muto però doveroso. E via, altre immagini, di ecomostri a piè di spiagge, di autostrade dai lavori eterni in mano alla malavita, d'utopie di meritocrazia, di rifiuti tossici smaltiti in campi di limoni, evasione fiscale, malasanità, sfruttamento d'immigrati, e blimp, s'accende una lampadina, s'aprono altre connessioni, spinta alla brain drain, mancanza di brain gain, vedi la penna di lei riempire righe e righe, mentre la stanza s'affolla di ricordi, rancore, amarezza.

Sei stato appena nominato project manager del team che si occuperà della riduzione della corruzione, cosa fai? - ti chiede, con una mano riordinandosi capelli fuori posto, come se le parole vomitate fino a quel momento le fossero arrivare al viso, cadendo magari sugli appunti. Cosa fai? - vorresti ripeterti ma già cominci a parlarle, di POC, esperimenti locali, progetti sperimentali in UK di trasparenza in rete da analizzare e replicare, di ROI, stime, capriole e acrobazie nell'aria, se ne va, di nuovo lo sguardo fuori a giocare con le nuvole, appena lei ti ferma, soddisfatta, cosa avrà scritto non si sa, ma si complimenta, contenuta, dopo quasi 3 ore di colloquio. Non lo sa, che sei sudatissimo, e che un po' l'hai ringraziata, nel stringerle la mano alla fine, per averti domandato della corruzione, che era come chiederti di descrivere un piatto di pasta, un panorama, un proverbio. Ti saluta, con il sorriso del dentista che già sa che ti rivedrà presto. La saluti, con il sorriso compiaciuto di chi ha trasformato merda in cioccolato, un po' amaro però.

Maledetto

Poi sei lì immerso in una lettura coinvolgente, mentre il treno sfreccia tagliando lungo una diagonale la città stordita da ondate di calore inattese, e i personaggi della trama ti si materializzano intorno, parlando con la voce dei tuoi pensieri concentrati, vestendosi della tua immaginazione contagiata, aiutati da parole e descrizioni che ti proteggono dai rumori meccanici del vagone ferroso, la musica di chi preferisce rompersi i timpani pur di condividere le proprie preferenze musicali, il paesaggio che periodicamente l'occhio controlla per non mancare la tua fermata, in automatismi oramai naturali. Esiste solo il libro, nel piacevole rapimento di paragrafi che si susseguono gustosi, pur non promettendo finali rivoluzionari e colpi di scena sconvolgenti, a volte è semplicemente la forza del linguaggio che ti trascina, conquistatore. Poi, quando il vagone sta per richiudere le sue porte dopo l'ennesima fermata disinteressata e le vibrazioni cigolanti passano veloci dalle pagine ai personaggi lì sospesi a mezz'aria, tra realtà e fantasia, ecco che il collega appena entrato ti saluta con la sua espressione felicissima, felicissimo d'aver trovato un compagno di viaggio per gli ultimi 10 minuti di tragitto. Maledetto. I tuoi denti orchestrano un sorriso d'occasione sibilando bestemmie in dialetti lontani, le mani chiudono il libro in uno sforzo di fatiche mitologiche mentre un pollice resiste cercando d'immolarsi a segnalibro disperato, manifestando la voglia di continuare, invano. Le parole del collega felicissimo ti attaccano veloci senza alcuna difesa, sotto bombardamenti di discorsi noiosissimi sul clima ti arrendi inerme a buone maniere indulgenti. Il collega parla e tu pensi che si dovrebbe aggiungere qualcosa a quei luoghi comuni, a quelle usanze, quelle espressioni secolari, come quando la mamma dice "non accettare caramelle dagli sconosciuti" così dovrebbe aggiungere "e non rompere le balle agli amici che leggono il Topolino, disturba solo quelli che giocano a calcetto"; il collega parla e tu pensi che si potrebbe aggiungere un nuovo comandamento a religioni quindi di colpo più efficaci, cose del tipo "undicesimo comandamento, non rompere le balle a chi sta già leggendo un libro"; il collega parla e tu vedi i cadaveri dei personaggi della tua lettura decomporsi repentini, intorno, svanire, mutarsi in fantasmi che alloggeranno in qualche parte del tuo cervello per tutto il giorno, fino al treno del ritorno, a meno che il tuo collega felicissimo non t'incrocerà all'uscita dell'ufficio, felice di andar ad attendere il treno con te e commentare ancora una volta il clima e le ferrovie e i già e i va beh che diventano colpi nell'aria come mani ad allontanare mosche. E invece non son mosche, ma i fantasmi dei personaggi del tuo libro, lì in un'agonia soffocante, in attesa di resurrezioni dolorose. E invece già. Va beh. Può darsi.

E mentre s'incoronava un nuovo re in Belgio

C'era anche chi in direzione contraria se ne scappava al mare.
Confermando che ai fiamminghi della monarchia (francofona) non interessa poi molto.
Foto scattata qui, più o meno.

No grazie la patria mi rende nervoso

Poi qualcuno manda una lettera a Italians e la rete gli fa fare boom, sorprendendo lo stesso Servegnini, che con l'amaro in bocca cerca di masticarne qualche conclusione, dimenticando però che la rete è fatta così: non segue logiche predefinite e santifica e dimentica nel giro di qualche click. Dimentica anche che lo stesso messaggio ce lo portiamo da anni nell'aria, come eco sottile, abilmente interpretato in una delle scene più famose de La meglio gioventù, quella del professore e della terra dei dinosauri, un posto bello e inutile, con la stessa allusione, la medesima esortazione a partire, a scappare, a lasciare un paese senza futuro, come diceva anche Montanelli in una delle sue ultime interviste, un paese che non può avere un domani, senza memoria, imprigionato in una statica quanto letale contemporaneità. Dimentica anche che oggi, con frontiere e costi abbattuti, la possibilità di provare altrove diventa ancora più appetibile che un tempo e allora quella eco, quel messaggio, quella opzione, assume un aspetto più accessibile e realistico.

E quando anche un altro articolo del genere fa boom, ecco che si schierano sempre due plotoni di grida e consensi, quello un po' disfattista del ha ragione, meglio andare via e provarci altrove, fa bene, ha capito tutto, questo paese non ci merita; e quello un po' eroico del è facile andar via, vigliacco, voltagabbana, se tutti se ne andassero, bisogna restare e lottare, amo questo paese e rimango, etc. Ogni plotone ha le sue buone dosi di qualunquismo e stereotipi da tirare verso l'altro, attaccandosi o difendendosi, fino a terminare in un già, un mah, un va beh, seppure partendo entrambi magari inconsapevolmente da un principio comune: il peso della patria.
Perché è proprio il peso personale che diamo alla patria, intesa come insieme di cultura, lingua, legami, compromessi, abitudini, memorie e progetti, che ci fa schierare in un plotone o nell'altro, non è patriottismo di quelli storici, di quelli politici o di presunte appartenenze di sangue, ma il peso personalissimo che ognuno deve dare al sacrificio richiesto della propria dignità, dei propri sogni, dei propri sforzi universitari, lavorativi, familiari, un sacrificio che fa stringere i denti, partendo o restando, e che si vuole rispettare in nome di un'idea, una meta, una scommessa. Appunto, quanto vale davvero questa scommessa che facciamo, questa speranza di poter partecipare ad un ipotetico miglioramento? Quanto è importante il miglioramento personale e quanto quello collettivo? Siamo davvero disposti a rimanere e lottare, credere davvero che in cima alla montagna di Vendola ci sia poi un'Italia migliore, come ritiene in una scena di Italy love it or leave it, o vogliamo liberarci di tutto ciò in nome d'un obiettivo privato, che può essere altrove?

Ecco, il punto è questo. Ognuno deve semplicemente darsi le proprie risposte, assegnando i propri pesi. E poi partire. O restare. Nessuno sbaglia, nessuno vince, perché sono pesi personali, come le scelte che ne derivano. Ed ecco perché non c'è nessuna my country, right or wrong, non ci sono eroi né vigliacchi, né tanto meno disertori, come istericamente farfugliava Camilleri, in un presunto dovere di restare, di non abbandonare il paese, di non lasciare il proprio posto a ciò da cui stiamo scappando. Semmai, il dovere dobbiamo averlo nei nostri confronti, nei confronti di quei progetti, quei sacrifici, quella scommessa: è il dovere di cercare di essere felici, tutto qui. Senza sperare nella rivoluzione di Monicelli o ripetersi detti antichi di Nemo profeta in patria né tantomeno dover poi rompere equilibri creati faticosamente altrove per il mero principio di tornare, come diceva Renzo Piano, ma semplicemente pensare a quel dovere che parte dall'inseguimento di un sorriso: potete trovarlo in patria, o potete trovarlo altrove, perché la vostra felicità è soprattutto dove vivete. O dove vivrete.
Se restando avrete rispettato quelle promesse, attraverso quei sacrifici, per vincere quella scommessa, allora ne sarete soddisfatti, allora grazie patria. E bravi. Se partendo avrete scelto altri sacrifici, facendovi altre promesse e inseguendo altri progetti, per poi realizzarli, allora grazie valigia, grazie partenza. E bravi pure voi. La patria? No, grazie.