Come molte cose

Cose che trovi da qualche parte a Bruxelles.
"Non è italiano ma è ugualmente buono" recita il prodotto, con rima.

Con le mani nelle mani

Il tuo eroe del giorno è un signore dai capelli bianchi e ricci, dai lineamenti simili a Riccardo Cocciante a dir il vero, che monta sul tram con una piccola biondina di non più di 5 anni, ben imbottita per il freddo e in equilibro precario non appena il tram si rimette in moto; siete nell'ora di punta e quindi tutti dei pali in cerca d'appoggio, alberi senza radici in balia degli sballottamenti di binari e frenate; e tu ti ritrovi il nostro Cocciante bruxellese proprio di fronte, entrambi un po' schiacciati un po' infreddoliti, mentre la piccola inizia a lamentarsi perché non riesce a stare in piedi e lui, il padre lo zio il nonno non si sa, con una mano si aggrappa ad un palo e con l'altra cerca di tenerla in modo maldestro. E allora, tra la bimba che quasi cade per terra e la gente intorno indifferente, Riccardo - chiamiamolo così - inizia a parlarle a voce anche abbastanza alta, chiaramente riferendosi a tutti anche perché chissà in quale altro mondo fantastico la piccola era già scappata, e non è una canzone di Margherita e mani nelle mani ma un bel monologo che in un inglese dall'accento nativo recita più o meno: "ecco vedi piccola mia, nessuno ti lascia il suo sedile, nessuno è gentile con te, ognuno è con la testa nel suo smartphone e non si accorge di te, ognuno è con la musica nelle cuffie e non sente le tue richieste, ricordati di questa scena e un giorno non cadere nello stesso errore quando sarai tu quella seduta e una bimba avrà bisogno di gentilezza". E magicamente anche se con un po' di ritardo, qualcuno capisce riferimenti e ramanzina e lascia il proprio posto alla piccola, sotto una pioggia di grazie grazie grazie del nostro Riccardo anglofono, quasi ne fosse commosso e sorpreso, tra qualche sorriso che nasce spontaneo tra sguardi incrociati di pali umani e teste assonnate. Eccolo il tuo eroe del giorno, he is ordinary, come cantava Dave Grohl. E ti piace che la copertina di quell'album ricordi un po' l'Atomium, in cerca di coincidenze che non servono a niente ma che lasciano un sorriso, e non è poco.

Scrolling

Hai buttato il corpo sul sedile sbiadito del tram già in movimento, il sedile quello singolo che non deve dividere spazio e libertà con altri, quello più ambito, mentre un binario sporco d'autunno diceva all'altro "seguimi". Ma non s'incontreranno mai, nei loro monologhi paralleli di corse, frenate, vibrazioni e fughe. Non s'incontreranno nemmeno le foglie secche cadute dallo stesso albero quando saranno spazzate, raccolte, mescolate tra colori e forme, perderanno il ricordo d'origini e appartenenze e formeranno nuove società e materia. E scompariranno. Non s'incontreranno nemmeno i pensieri della coppia in fondo al tram se lei gli parla emozionata e lui affonda l'attenzione nello smartphone un po' rapace. Ma non si lasceranno, lui e lo smartphone, almeno fin quando l'applicazione non terminerà di vomitare nuova spazzatura all'apparenza sociale. Non terminerà, perché si chiama infinite scrolling e lei intanto troverà nel finestrino opaco la distrazione della città che fuori continua. Continueranno a giocare i binari frenetici anche quando il tram si fermerà al tuo destino, dovrai riprendere il corpo piacevolmente appesantito di nuove fantasie, alleggerito però dallo zen quotidiano d'immaginare storie sempre nuove, il tuo infinite scrolling a volte maldestro, e se lungo il tragitto a piedi troverai foglie secche ma separate, le avvicinerai disinvolto con un movimento veloce del piede, un po' complice ma a fin di bene. Loro, le foglie, sapranno il perché.

Battezzarsi a Bruxelles

Dovresti proporlo al sindaco di Bruxelles - e lo farai, conoscendoti - che si potrebbe organizzare un nuovo evento tra tradizione, turismo e quello spirito un po' simpatico un po' surrealista che spesso contraddistingue la città e la sua popolazione; dovresti proporlo come incentivo per le povere casse comunali ma soprattutto per il messaggio che porta con sé: essere figli di Bruxelles, liberi e scherzosi, felici; ci hai pensato quando su Skype tua madre ha sgranato gli occhi e continuava a domandarsi il perché, perché suo nipote non sarebbe stato battezzato, assolutamente no, le ripetevi con calma e raziocinio, perché non vuoi, perché non ha senso, perché non sarebbe giusto, perché sarà proprio lui, suo nipote, tuo figlio, un giorno, a scegliere cosa vorrà farne del concetto di religione, non tu, non sua nonna, sarà libero di scegliere, ma non si troverà nessuno schema già impacchettato, che sia cattolico, buddista o qualsiasi altra favola medievale; ci hai pensato quando ribadivi che simboli religiosi non entrano in casa tua e tantomeno nella tua famiglia, quella nuova, o almeno non così, incoscientemente: battezzare tuo figlio nel 2014 è un po' trascinarsi e passivamente accollargli contraddizioni, riti, automatismi non necessari; ed è lì che ci hai pensato, un po' per far contenta tua madre, in qualche modo, un po' per smorzare i toni e trovare un sorriso: battezzarsi a Bruxelles dovrebbe essere semplice e naturale, dovrebbe essere portar il proprio piccolo davanti al monumento del Manneken'pis, lì al centro in orari o secondo condizioni che aprano un varco tra la calca sempre costante di turisti, e bagnargli il capo con qualche spruzzo d'acqua che fuoriesce da quella simpatica fontanella, recitare qualcosa, anche senza senso purché in rima, e poi andare tutti a festeggiare, con il sorriso. Semplicemente.
Per chi (ancora) non conoscesse la simpatica fontanella.

D'incubatrici e altri beep

Quando operano d'urgenza tuo figlio dopo appena 42 ore di vita e passi settimane in terapia intensiva, lì in un ospedale del centro di Bruxelles, aspettando la seconda operazione poi, e familiarizzi con tante cose per altrettante settimane, lì all'undicesimo piano fatto d'incubatrici e lettini elettronici, aspettando poi anche il terzo intervento, l'ultimo in teoria, da fine settembre a natale probabilmente, succede che passi da uno stato iniziale di shock ad una reazione fatta di coraggio e volontà, per passare poi all'ottimismo e la fiducia per la scienza, in un mite novembre dell'anno 2014, in cui tante cose non te le aspetti, ma sì possono capitare una ogni 5000 nascite, e son tante le cose che si risolvono anche per un esserino di 50 centimetri e 3,1 chili di meraviglia, e insomma passi tante settimane tra bip e bop e beeeeep che poi rientrano, ritornano, saltellano, e passi tante ore a fianco a lettini che son macchine, leggi, studi, canti ninne nanne inventate, parli come se lui ti potesse ascoltare nonostante l'anestesia postoperatoria, per affezionarti a certe cose, alle persone bellissime che ci lavorano, ai genitori degli altri neonati, ognuno con la sua storia da raccontare, tra preoccupazioni speranze e tanto amore, ti affezioni anche a quei lettini, quelle macchine, che finiscono per avere facce, simpatiche, come tante delle cose che ti circondano da sempre, come un gioco che ti porti dietro fin da piccolo e che non vedi l'ora d'insegnare a lui, di stimolare la sua fantasia affinché rimanga un po' infantile anche a 32 anni da poco compiuti. Un giorno, quando tutto sarà solo un storiella del passato, gli dirai che anche nel lettino su cui l'operarono trovasti una faccia, e su quello su cui lo curarono in terapia intensiva, per settimane, anche quelle cose han smesso d'esser cose, son diventate personaggi di ninne nanna inventate, ti han fatto compagnia, le hai disegnate poi così come le vedevi, così come loro si presentavano. E le hai stampate. E le hai regalate al reparto di terapia intensiva, con il suo nome ed un grande merci.

Questione di dosi

Se ti rivelassero all'improvviso che grazie a determinate condizioni avresti meno compromessi e più libertà, difficilmente ne saresti disturbato, posto che quelle determinate condizioni le vivi già e non puoi farne a meno. Sarebbe, a quel punto, più prendere coscienza di quei meno compromessi e più libertà, che davvero guadagnarli. Sarebbe, semplicemente, rendersene conto e compiacersene, di meno compromessi e più libertà che non si pensava di avere o non s'erano mai considerati. Addirittura, sarebbe rivalutare certe cose sotto la luce di meno compromessi e più libertà.

Due o tre giorni all'anno di nostalgia non valgono i restanti 360 giorni di meno compromessi e più libertà, così come due tre giorni di raffreddore non possono valer più di un anno di salute.

Quando vivi all'estero c'è un'entità che non è lì con te, che idillicamente dovremmo sempre aver con noi, vicino a noi o almeno non troppo lontano, e che si associa sempre alla nostalgia, anche nell'epoca di Skype e dei voli low cost. La sua mancanza viene spesso vista come una sofferenza, uno svantaggio, un lato negativo, perché così dice la cultura, perché così sussurrano le emozioni dei primi giorni o di alcuni pomeriggi di debolezza emozionale. Eppure basterebbe accorgersene, di quei meno compromessi e più libertà, e quegli umori grigi, quei luoghi comuni, quelle trappole culturali, quei modi di pensare, scricchiorelebbero davanti alla coscienza onesta delle cose. Quando vivi all'estero la lontananza della famiglia è - senza azzardare semplificazioni - meno compromessi e più libertà. Anche se le cose non vanno bene, se ci sono problemi, soprattutto in quei casi, son meno compromessi e più libertà. Perché la famiglia può - ma non sempre è - essere una cosa bellissima, la cosa più bella, ma a giuste dosi. Dosi che, grazie alla distanza, lasciano meno compromessi e più libertà. E non è poco.

Certo, forse dovrei evitare considerazioni di questo genere mentre la suocera è temporaneamente sotto lo stesso tetto.

Cose che a Bruxelles

- Una coppia di amici in dolce attesa si ritrova dal ginecologo in un attimo di scomodo silenzio quando viene chiesto loro se, siccome non hanno lavoro e non hanno assicurazione privata ospedaliera, vorrebbero comunque usufruire del suo servizio durante il parto, ma in nero, a meta' prezzo, con la condizione che quelle stesse parole non siano state mai pronunciate, che avrebbe negato di fronte a qualsiasi altra persona, che nessuno ha mai visto o sentito nulla. Prendere o lasciare.

- Un'altra coppia di amici compra appartamento nei pressi del centro di Bruxelles e parla con l'attuale proprietario quando, appartandosi, sotto voce, viene offerto loro di pagare una parte di 15mila euro in nero, per abbattere costi notarili e bancari, ovviamente in contanti e nessuno ha mai visto o sentito nulla. Pare sia un'abitudine, in quel mercato.

- Un amico riceve un'offerta anche abbastanza alta da un'azienda di consulenza per un lavoro in Commissione Europea, ma quando si trova di fronte il contratto si accorge che son due, uno registrato in Belgio e l'altro a Cipro. Sospettoso s'informa meglio in giro e pare che la stessa azienda, per altri consulenti in Commissione, si ritrovi spesso a non pagare mensualita', a ritardi imbarazzanti, a rinnovi contrattuali con triplo salto carpiato avvitato.

Ah, la trasparenza immacolata del nord Europa.

Gente che va gente che viene

La metro del binario opposto che va e fa da sipario a gente che va gente che viene, che prima non c'era, che è appena partita, le porta via con sé, le vite appena intraviste, le inghiotte il buio del loro destino, che non conosci che non t'interessa, se sei già distratto dalle nuove comparse, che presto andran via che giocano un ruolo, lì nella tua attesa altrimenti solitaria la tua fermata che non ameresti silenziosa, son sguardi che s'incrociano, voci che non lasceranno eco nella tua giornata senza replay, son colori d'un mosaico in movimento che non t'appartiene, a cui tu però appartieni, lo giochi malissimo il ruolo, di comparsa nella vita di qualcun altro, a cui non interessi, che forse ti vedrà scomparire, sarai soltanto una testa in più, quando la metro passa e ti porta via, tra gente che va gente che viene.

Sogni di mezza estate

Le piogge d'agosto che non danno pace nei paesi del nord Europa ballano sulle tele degli ombrelli e si ripetono, nel loro ritmo d'accompagnatrici tenaci, per risuonare nei pensieri della gente e trasformarsi in lamenti sociali e imprecazioni liberatrici, come se fossero una novità, come se fossero un'eccezione. Non lo sono, le piogge d'agosto nelle capitali del nord Europa, se si guardano le statistiche, se si guardano i dati e le abitudini, che dovrebbero guidare certe conclusioni, che dovrebbero definire cos'è la normalità. Ma la normalità si confonde nelle percezioni di chi è abituato ad altri cieli, di chi ha nella mente altre immagini programmate, altre aspettative radicalizzate. E invece poi i dati dicono che, per esempio, a Parigi agosto è il mese dell'anno con più pioggia (in media):
E che anche a Lussemburgo agosto è il mese con più pioggia:
E indovinate a Dublino qual è il mese con più pioggia dell'anno? Agosto, a pari merito con dicembre:
E non è che i cugini britannici se la passino poi tanto meglio, a Londra per esempio agosto è solo il secondo mese di quest'ambita classifica, dopo dicembre:
A questo punto quasi ci si sente rincuorati quando si nota che a Bruxelles agosto è solo il quarto, se non fosse che il primo è luglio...
Certo, più pioggia (come quantità) non sempre significa più giorni di pioggia (wet days, nei grafici, per cui agosto in media scenderebbe al terzo posto), ma le due statistiche insieme (e che coppia) sicuramente non fan pensare a cieli estivi di sole e leggerezza. E' la natura, nient'altro, che al nord Europa preferisce un'estate differente nei suoi meccanismi d'equilibri e ricicli. Lamentarsene equivarrebbe quindi a lamentarsi della mancanza di angurie a dicembre, per esempio. Ma la nostra natura di figli di stereotipi stagionali (e commerciali) o d'abitudini adolescenziali d'altri colori mal s'adatta a latitudini nordiche d'aspettative intolleranti e compromessi in continua digestione. E piove, di gocce e lamenti.

L'insostenibile leggerezza delle porte

Quelli che per gentilezza non lasciano chiudere la porta alle proprie spalle, perché ti hanno intravisto con la coda dell'occhio, perché si sono volutamente girati per controllare se dietro avessero qualcuno, se potessero dispensare quella cortesia gratuita, anche se non ti conoscevano, anche se non ti avevano mai visto, e lo fanno con la tempistica esatta, calcolando le distanze e la velocità del tuo passo, senza lasciarti nella scomoda posizione di chi si sente forzato ad avanzare il passo solo perché era in effetti troppo lontano ancora dalla porta, senza dover rincorrere il suo gesto per il mero principio di dover accettare forzatamente quella gentilezza, ecco quelli che lo fanno bene quasi sincronizzandosi con la tua prossima venuta o, e spesso ancor più difficile ma non meno meritevoli, quelli che si accorgono della distanza, si accorgono che non ce la farai e che dovrai fare uno sforzo in più per dire grazie e trovarti la porta semiaperta con la mano, e che quindi lasciano che si chiuda, la porta, alle loro spalle, ti ignorano ma a fin di bene, evitano per trasformare una gentilezza in scortesia, una bestemmia a denti stretti mascherata da grazie forzato, ecco quelli che riescono in questa semplice eppure non sempre facile scelta, dell'aspettarti con la porta aperta o lasciare che si chiuda loro alle spalle, hanno una grande probabilità di risultarti simpatici. Gli altri, quelli che ti aspettano anche se sei palesemente troppo distante, o quelli che la lasciano chiudere alle proprie spalle anche se eri lì a pochi centimetri, sono gemelli separati dello stesso problema con il mondo e con se stessi. O forse soltanto un poco miopi.

E sembra che in città ci sia qualcuno che non è finito mai in tivù

Ma che belli vederli all'opera, quegli italiani all'estero che creano, fanno cose, sperimentano, s'impegnano in attività nuove, s'uniscono ad altri ragazzi all'estero e fanno teatro, organizzano eventi, imparano a suonare uno strumento, finiscono in un concerto ma non come spettatori, si ritrovano a spolverare vecchi sogni e nuove sfide; ci son italiani all'estero che non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi su un palco di teatro, alla cassa di un mercato biologico, alla riunione di un quartiere in transizione e tante altre attività completamente slegate dal lavoro che altrove han conquistato, soprattutto in quei casi, quando non c'è connessione alcuna con il cv memorizzato, con quello che facevano prima, con i progetti che avevano sull'aereo all'atterraggio, nelle chiacchiere che arricchivano di speranze con gli amici alla partenza; e lo fanno per socializzare, per crearsi un gruppo, per riaccendere un hobby, per assecondare un istinto o convinti dal compagno d'appartamento, coinvolti dal conoscente del corso serale di lingua, e lo fanno anche e probabilmente perché rotto un equilibrio, quello del mondo di prima, diventa più facile provare, si è maggiormente aperti a sfidarsi, a improvvisarsi, a contribuire, accompagnare. Son belli, quei ragazzi all'estero, quando gli vedi il sorriso della soddisfazione alla fine delle cose, un po' increduli un po' ritornati bambini, se altrove han ritrovato passioni, han riscoperto giochi, condiviso giocattoli, perché sono la prova della flessibilità umana, della sopravvivenza ma soprattutto di quella legge universale di Paul Eluard, di quel "creato, io creo, è l'unico equilibrio, è l'unica giustizia", e loro son belli perché appunto creano, creano cose e legami, con gli altri e anche tanto con se stessi.

Di grazie che valevano la pena

Poi ti ritrovi a sorseggiare una birra artigianale belga al mercato del lunedì di place Maurice van Meenen, lì sotto il bellissimo municipio di Saint-Gilles, dove tra l'altro ti sei pure sposato, mentre la folla s'accalca, si muove, si mescola, chi con una birra, chi con un bicchiere di vino, chi in fila per una piadina romagnola, chi per un crepe marocchina, c'è una banda musicale di signori già abbastanza anziani che suona per il mero gusto di suonare e diffondere allegria, c'è il ragazzo francese delle crepe bretone che ti riconosce perché eri lì al mercato del venerdì di place des Chasseurs Ardennais dove normalmente lo ritrovavi ed eri lì al mercato del giovedì della place Victor Horta vicino Gare du Midi dove lo hai incontrato diverse volte per pranzo, lo dici alle persone in fila, che lui è un artista della crepe, non li conosci ma ci si conosce tutti lì, facciamo tutti parte del villaggio globale, non li conosci ma cosa importa poi, siamo in quella parte di Bruxelles dove troppe formalità non piacciono a nessuno. Poi, mentre brindi per la seconda birra artigianale e la banda passa, trombetta, sviolina, tamburella, ti accorgi che proprio a un metro da te, lì di fronte, con una birra in mano c'è Charles Piqué, sindaco di Saint-Gilles e ministro-presidente uscente della Regione di Bruxelles, non ci credi, ne sei convinto, è proprio lui, ne mostri la pagina wikipedia all'amico che non ti segue mentre determinato gli vai vicino, lo interrompi, ti presenti, che sei italiano ma che vivi a Bruxelles da più di 5 anni, che ti sei sposato proprio lì e che vivi nel suo comune da oramai più di 3 anni e che lo vuoi ringraziare, grazie signor sindaco, grazie davvero, per tutto quello fatto finora, per quello che seguirà, perché l'adori quell'atmosfera lì, perché sei felice ed è anche merito suo, ti chiede dove abiti, cosa fai, ha il sorriso dei manifesti elettorali, ti stringe la mano ma tu lo vorresti quasi abbracciare, grazie e scusate per l'interruzione, grazie e scusate per il disturbo, buona continuazione e per l'emozione o per le birre sbagli anche due accenti francesi e una coniugazione.
Poi, non dovresti pensarlo ma ti salta in testa la connessione, non dovresti far confronti ma tra un singhiozzo di malto e una memoria che risale a galla pensi a quando vivevi in Campania, all'ipotesi di un possibile incontro con il presidente della regione, quel tal Bassolino, pensi: lo avresti mai ringraziato? E no che non lo avresti fatto, ti ripeti, mentre l'immagine già viene archiviata e nuove chiacchiere, nuovi sorrisi s'accavallano nel mercato, mentre pensi che più che un grazie sarebbe stata un altro il saluto, molto più tipico e sincero, ma il passato non c'è più, ti ricordi, è il presente che merita attenzione.

Spaghetti boló

Ma non mi guardare a quel modo, caro collega fiammingo, quando mi arrivi al tavolo della mensa aziendale con quel sorriso malizioso e il tuo piatto di spaghetti boló, quella pietanza non più imitazione né tantomeno tentativo maldestro ma più probabilmente abitudine culinare di latitudini ravvicinate, non mi guardare così perché non troverai giudizio nel mio stereotipo d'italiano da buona forchetta e non credere che tra quegli spaghetti bianchi e quel pugno di sugo rosso insipito potrai mai rivedere i miei lineamenti del sud un poco scoloriti; appena inizi a tagliarli, quegli spaghetti bolò come fossero due blocchi monocolore di giallognolo e rosso, con coltello e forchetta, quasi fosse una lasagna, e mangiarli senza alcun criterio di giudizio su cosa sia la mantecatura né il tempo giusto di cottura, non troverai nella mia espressione né disagio né disgusto, perché ne sarò indifferente così come se in quel momento tu stessi mangiando qualsiasi piatto esotico di cui non conosco il nome né gli ingredienti né la sua versione originale, non troverai nessuna breccia nel mio orgoglio patriottico ridotto a briciole né avanzerò mai nessun diritto sui tuoi gusti e la qualità del piatto nonostante tutto. Però, non appena mi chiederei quella cosa, non appena la tua domanda punzecchierà la conversazione per sapere perché mai io non ne mangio mai, di spaghetti bolò, lì a mensa, a Bruxelles, sfodererò la super risposta oramai ben testata e con poche e semplici parole ti metterò spalle a muro e boccone in gola, avrò vinto, semplicemente, e abbasserai gli occhi meschino con una smorfia di smacco e l'inevitabile tortura di darmi ragione: ma tu - ti dirò con scioltezza - te la mangeresti mai una carbonnade fiamminga cucinata nella menza di un'azienda, a Napoli? Ecco.

Quello che i nonni non dicono

Ci pensi quando noti che le ricette che credevi di cucinare davvero bene poi riesci anche a migliorarle e poi, dopo altre prove, altri esperimenti, altra pratica, riesci addirittura e ancora a superare ulteriormente quello che prima rappresentava già un gran bel traguardo. E pensi a tuo nonno, lì, al tavolo la domenica mattina o ad ogni festa tradizionale, quando ci si riuniva tutti insieme e ognuno lasciava che il profumo dei piatti della nonna conquistasse palati e sorrisi: facile, per la nonna, cucinare bene, dopo anni e anni di prove, di raffinamenti, migliorie. Quello che però i nonni non raccontano, ai nipoti che stan lì a fianco a chiudere gli occhi e godersi le pietanze prelibate, è di quante volte han mangiato pasta scotta o sughi troppo liquidi, troppo secchi, troppo salati, troppo insipidi, quello che i nonni non dicono, perché non ricordano, perché non potrebbero, perché non vogliono, perché altrimenti si rovina una leggenda di forchette e acquoline in bocca, è che anche le nonne un tempo non sapevano cucinare, anche le nonne una volta preparavano piatti mediocri e loro, i nonni, erano lì a mangiarli, a condividere i risultati, a consigliare, giudicare, ingoiare, aspettare. Il segreto delle nonne è tanto banale quanto importante: se una cosa non ti riesce bene la prima volta, provaci ancora, perché solo fallendo e capendo dai tuoi errori puoi poi migliorarti; il segreto dei nonni ne è un corollario non meno importante: se una cosa non è riuscita bene, ingoia e sii paziente, supporta e costruisci insieme. Il segreto dei nonni era lì, ogni volta a tavola e tu non lo vedevi, loro non te lo dicevano, e tu intanto tornavi a casa poi e la tua pasta non era al punto giusto, la mantecatura non ti riusciva bene, fallivi e pensavi che non saresti mai riuscito a cucinare a certi livelli perché, in fondo, ti mancavano gli ingredienti principali che la ricetta non menzionava: il tempo, l'esperienza, la pazienza e la perseveranza. Ed è talmente universale, quel segreto dei nonni, che dovremmo ricordarcelo sempre, in cucina come al lavoro, nelle sfide personali e nei risultati di gruppo: non demordere, fallire è una cosa bellissima.

Quando Saint-Gilles non sangillava

Parlamene ancora, caro nuovo collega belga, di quella Bruxelles di 30 e più anni fa, quella Saint-Gilles che hai vissuto fin da piccolo, dove sei nato e cresciuto, di come tutto sia evoluto, delle cose che succedevano, che non ho vissuto, parlamene perché mi piacerebbe viverle attraverso i tuoi racconti ogni giorno a pranzo e immaginarmela, anche nei suoi aspetti più brutti, quando non era sicuramente il tempo où Bruxelles bruxelait, quando bande malfamate di marocchini e polacchi si scrontravano sulla piazza del Parvis - a quanto dici - ed era pericoloso anche solo passeggiarci, quando al bar de l'Union lì all'angolo controlli della polizia più che ordinari entravano addirittura nei bagni in cerca di spacci illegali, quando in place Morichar c'era chi moriva per una parola sbagliata e la Barrière era il centro di un bronx e non l'ombelico del mondo; parlamene perché son tutti posti che oggi hanno il sapore di casa per me e non avrei mai potuto immaginarmeli a quel modo, parlamene perché riderò la prossima volta che qualcuno mi parlerà di criminalità crescente a Bruxelles o di quando la vicina del piano di sotto si lamenta delle cose che vanno sempre peggio, che il quartiere peggiora ogni giorno di più ma probabilmente è la percezione di chi a causa dell'età che avanza ha meno forza e pazienza, ha più paure e ritornelli; parlamene perché apprezzerò ancora di più quell'equilibrio di tranquillità e vivacità che adesso popola le stradine di Saint-Gilles, frutto d'attriti e anni difficili, ora in pace e periodicamente in festa, soprattutto in tempo di mondiali di calcio, ogni sera un carosello perché c'è sempre un vincitore, c'è sempre una comunità che brinda ed un'altra che si consola, ci son bandiere alle finestre come fiori a colorare le facciate sporche di smog e vecchiaia, c'è quell'aria di villaggio al mercato la domenica e le facce sorridenti di chi ti riconosce e saluta, facce che magari avranno pure vissuto quegli anni più bui d'attriti e integrazioni, se la meritano adesso, tutta questa tranquillità. O forse i tuoi ricordi annebbiati d'adolescente brussellese non son poi tanto affidabili, caro collega belga, ognuno a modellare la propria realtà secondo percezioni e schemi personali? Non m'importa, parlamene piuttosto perché dovrò pur filtrare, digerire, collegare, da qualche parte bisogna pur partire per costruirsi poi le proprie, di percezioni, che per il momento comunque non son per nulla cattive.

Scintille postelettorali

Le facce dei manifesti elettorali, che rimangono lì appese dopo settimane dalle elezioni, con i loro sorrisi da vincenti, con i loro sorrisi da perdenti, con i sorrisi da abbiamo vinto tutti, ti continuano a fissare, quando il tram ci si ferma affianco, quando lo sguardo ti ci cade sopra, e ti continuano a sorridere, nonostante il sole inizi a mangiarne i colori, nonostante qualcuno abbia aggiunto baffi, occhi neri, firme strane e street art da interpretare, e ti continuano a promettere, come se oramai avessero vita propria, come se ci credessero davvero, in quelle parole decorate di loghi e punti esclamativi; qualcuno dovrebbe salvarle, le facce dei manifesti elettorali, un po' come per i nani da giardino, per cui esistono gruppi che si organizzano per liberarne cento in una notte e poi seminarli in parchi, spianate, boschi, così dovrebbero liberare quelle facce dei manifesti elettorali dalla condanna del tempo che li sbiadisce, che trasforma il sorriso in paralisi, la promessa in contraddizione, il colore del partito in controparte politica, o più semplicemente salvarle dai loro proprietari, da se stessi, e dall'ennesima perdita d'onestà, dovrebbero organizzarsi di notte e strapparli via da pareti, cartelli, esposizioni abusive, raggrupparne tutti i sorrisi, le parole, gli slogan, e formare una sola grande risata, un'enorme mosaico di lettere e garanzie per il futuro, per dare vita ad un'unica grande bugia. E poi darle fuoco.

Cose a cui non ti abitui

Poi ti ritrovi a supportare il Belgio nella sua prima partita di questo mondiale, in un'azienda molto belga che organizza per l'occasione un evento molto belga, maxischermo accompagnato da Jupiler e frites, birra belga e cibo nazionale belga, appunto, in un edificio in cui ci son quasi tremila dipendenti e quindi l'atmosfera è quella da stadio, di festa, d'attesa e sofferenza, e ti trovi a soffrire con loro, a gridare con loro, a riempirti di Jupiler con loro, a sudare con loro, a ingozzarti di frites con loro, a ridere con loro, e ti accorgi che tutto è davvero tanto tanto belga quando poi all'improvviso dopo la trasmissione del primo tempo con telecronaca francese, ecco che inizia quella della seconda parte, politicamente e rispettosamente in fiammingo.

Male non farà

Ma quanto sono belli questi belgi quando li vedi parlare della squadra di calcio, delle previsioni, il calendario, il girone, i possibili cammini fino alla finale, quanto sono belle quelle speranze che colorano i loro discorsi alla macchinetta del caffè, tra le curve di sorrisi che nascono spontanei e si caricano nell'attesa della prima partita, quanto sono belle quelle prime volte come questa all'avere una squadra addirittura candidata alla vittoria finale, dovrebbero vincerlo, il mondiale, perché sarebbe una gran bella festa, perché tutte quelle speranze hanno pur bisogno d'esplodere insieme, lo hanno già vinto, il mondiale, nella simpatia e l'euforia, nel politically correct di chi ancora insiste nel non dover emozionarsi troppo, nell'abbandono a quell'estenuante politically correct quando c'è chi dice che ci crede, che è la volta buona, ha steso la bandiera del Belgio alla finestra, ha ricoperto dei colori nazionali gli specchietti dell'auto, li ha estesi al guardaroba del figlio; quanto sono belli questi belgi che s'innamorano del calcio e magari ritrovano identità nazionali spesso dubbiose, che coltivano adesso generazioni di ragazzini che ricorderanno il mondiale con tutte le emozioni che verranno, di gioie e sofferenze, e forse è proprio quello il vero motivo dei mondiali, d'unire e appassionare, sperare e festeggiare, non lo è nella realtà degli interessi privati, leciti e non, discutibili e non, ma loro, i belgi, quest'anno, con questa squadra, non lo sanno, se lo dimenticano, lo rimandano, lo riassumono in un eh, se ne fregano, e continuano a sognare.

Dell'Italia che uscì dall'Euro

Erano passati già diversi anni dall'uscita dell'Italia dall'Euro, ma ogni volta che arrivava all'aeroporto di Fiumicino non poteva non fermarsi alcuni secondi ad osservare quella mappa esposta così grande, così fieramente, dell'Europa d'un colore e dell'Italia d'un altro, anzi di un tricolore, e di tutta quella gente che ci si fermava davanti per una foto, con il sorriso, come se stessero davvero davanti ad un monumento storico importantissimo o ad un cambio epocale, un po' come con le mappe dell'evoluzione dell'Impero Romano, quelle che si intravedevano sulla destra quando dai Fori Romani si andava al Colosseo, anche lì ci fu chi in quegli anni aveva proposto di aggiungerne un'altra, dell'Italia fuori dall'Euro, ma proprio quelle mappe lo facevano tanto ridere, ogni volta che ci passava di fronte, perché ne mostravano l'espansione fino al culmine, ma non la caduta, ecco perché aggiungerci adesso quella dell'Italia fuori d'Euro sarebbe stata l'ennesima inconsistenza patriottica, ma l'Italia ne era piena, di quei controsensi lì, nel 2023. Come lo annoiava poi dover cambiare ad ogni arrivo i suoi euro in lira, nella nuova lira, se ne ricordava non appena usciva dall'aeroporto, non appena intravedeva quel monumento enorme, quello alla Nuova Lira, di quella donna che sola era riuscita a sconfiggere la crisi grazie all'unione nazionale, e subito metteva la mano nel portafogli per controllare se ne aveva abbastanza per la giornata, lui che viveva all'estero e usava quella moneta straniera, l'euro.

Nel taxi gli piaceva sempre domandare come andavano le cose al tassista, che non mancava mai di lamentarsi sebbene l'Italia della nuova lira attraversava uno dei suoi massimi splendori economici. Certo, i primi tempi dopo il cambio furono pieni d'incertezze e problematiche, ma non ci fu quell'inflazione sfrenata che i sostenitori dell'euro avevano previsto né il crollo dei mercati o le invasioni bibliche di cavallette; beh, non si ebbero neppure tutte le richezze e vantaggi promessi dai sostenitori dell'uscita dell'euro in effetti, ma il punto fu proprio quello: entrambe le parti ebbero torto e ragione, in quella scienza che non è puramente matematica, l'economia, ma spesso ha bisogno di previsioni, proiezioni, ipotesi e statistiche, e non tiene conto delle evoluzioni possibili, giochi di potere, accordi, interessi e politica, che si susseguirono incessanti, sempre all'ombra di un complotto gigantesco per molti, che nessuno ovviamente seppe mai formalizzare. Chiacchere da bar, le chiamava il tassista, mentre passava davanti ai resti del Colosseo, oramai quasi dimezzato dopo gli ultimi crolli per i mancati interventi: l'Italia era sì ricca, ricchissima, nel 2023, ma la ricchezza non migliorò molto il paese, anzi. Più ricchezza si trasformò repentinamente in equazioni d'assurdità italiche in più corruzione, più mafia, più casta. Le cose andavano sì meglio, molto meglio, ma si continuava a non investire nei beni culturali, nella ricerca, nella sanità: non bastano alcuni bilanci positivi per cambiare una cultura, gli aveva detto all'aeroporto il barista servendogli un espresso eccellente e barbottando qualcosa sul figlio dottorando, che aveva ricevuto richieste dall'estero ma che adesso aveva paura di partire, di diventare un cervello in fuga con tutto quello che all'epoca comportava. La campagna dell'odio contro i cervelli in rientro poi, fu qualcosa d'assurdo nel 2023: molti italiani all'estero decisero, in numero sempre crescente, di rientrare vista la nuova crescita economica e l'ottimismo che ne derivava, ma in patria non trovarono certo un buon clima né quelle condizioni di lavoro a cui erano abituati altrove. Da "vigliacchi", "traditori", da "è facile lasciare la nave quando affonda", passorono ad essere "opportunisti", quelli che "comodo rientrare quando le cose vanno bene", "dove siete stati mentre qui si soffriva", "ce l'abbiamo fatta anche senza di voi" e così via. Molti li odiavano in un clima surreale dove non mancarono episodi di teppismo in effetti, di squadrismo organizzato all'uscita degli aeroporti, d'interrogazioni parlamentari per evitargli di rientrare, di approfittare di quella nuova ricchezza. Ricchezza di danaro ma non di spirito.

L'Italia del 2023 era ricca, ricchissima, ma anche tanto razzista, contro gli immigrati, anche quelli europei, e contro gli italiani, quelli all'estero che rimanevano o tentavano di rientrare. Lampedusa, per esempio, fu prima messa in vendita per scrollarsi di dosso i problemi degli sbarchi, e poi dichiarata stato indipendente, per poterla sanzionare e dichiararle guerra ad ogni nuovo sbarco sulle coste siciliane. La ricchezza offriva soluzioni facili e la geniliatà, quella tanto ostentata ma mai misurata adeguadamente, scarseggiava o veniva inghiottita da propagande e chiacchiere. Di chiacchiere si riempivano i politici, soprattutto quelli che avevano gridato all'uscita dell'euro, ne erano usciti vincitori dopo la rinascita economica ma al contempo vuoti: non avevano altre idee in realtà, il loro grido era stato di pura ricerca di consensi, appiglio al vento di destra che scosse un po' tutto il continente ma che rimase poi insipido quando s'arrivò al bisogno di un programma ben strutturato ed efficace. Con dei vincitori del genere, le cose non potevano certo migliorare. Ma avevano vinto, e i vinti hanno sempre ragione, purtroppo. Questo pensava, mentre il tassista imprecava contro l'ennessimo blocco della polizia, non si poteva passare nei pressi dello stadio per l'ennessima manifestazione degli ultras, che chiedevano ancora una volta dichiarazioni di guerra a mezza Europa: l'uscita dall'euro col tempo risultò in molte relazioni disgregate, in un'isolazione sempre crescente del paese e di tutto ciò che lo riguardava, il campionato italiano di calcio per esempio, nel 2023, non aveva più accesso alla Champion League. C'erano i soldi, tanti, per comprare i migliori talenti stranieri sul mercato, che però non volevano andar a giocare in Italia senza l'accesso a quella competizione e in più in quel clima d'intolleranza e anarchia. Eppure, si continuava a dire che era il campionato di calcio più bello del mondo, secondo gli italiani. Così come il paese, il cibo, il clima, la moneta.

Lasci stare, continuo a piedi - disse al tassista. Con l'idea di fare due passi e arrivare a casa degli amici, lì a qualche isolato di distanza, ripensò a cosa era rimasto di quell'Italia che aveva lasciato, 30 anni prima, a cosa assomigliava quella giostra di ricchezza economica e problemi raddoppiati, quell'orgia d'interessi e odi, e perché continuava a sentirla nonostante tutto ancora un po' sua. Non ebbe il tempo di rimasticare quei pensieri però, quando la polizia lì nei pressi dello stadio lo fermò per un controllo e scoprì che era un italiano residente all'estero, quando iniziarono prima a ridergli in faccia, a dispreggiarlo, provocarlo in cerca d'un pretesto, quando poi lo portarono in un angolo per picchiarlo, bastonarlo, lasciarlo esamine a terra, quando morì senza il tempo di capire dov'era davvero, in quella terra natia, ricchissima, maledetta e straniera.

Ma cosa diavolo

In Danimarca hanno una visione un poco contorta del concetto "convincere ad andar a votare" per le imminenti elezioni europee.

D'emigranti che non sanno il perché

E mentre mescolava quell'impasto d'esseri umani e aromi non sempre appetibili, un dio senza nome sapeva già che non tutti sarebbero venuti come in principio aveva pensato, il forno dell'evoluzione in fondo cambiava sempre un po' la ricetta e di generazione in generazione poi bruciacchiava qualche combinazione, ogni tanto, ma quel dio senza nome si giustificava nel nome di un equilibrio universale pur sempre mantenuto, in quella legge dei grandi numeri che qualcuno avrebbe poi intuito. Lasciava a riposare piccoli pani d'impasto, già ben lievitati col tempo d'intrecciarsi per bene, ne prendeva poi a caso uno e lo divideva per metà, in una mano riusciva a prendere abbastanza impasto da creare l'anima d'un nuovo essere umano e soffiarla via in quell'involucro che in terra avrebbe preso vita, nell'altra mano l'altra metà d'impasto e via, la vita correva veloce mentre il tempo lento l'affiancava. E soffiava, il dio senza nome, su una mano e sull'altra nella stessa direzione, e due nuove vite fiorivano lì, in quella regione dell'est, altre due ancora più giù e altre due appena prima di quelle montagne a sud. Poi, annoiato del soffiare sempre allo stesso modo o nello stesso verso, il dio senza nome iniziava a rompere il ritmo e quasi danzare, in un attimo d'euforia improvvisa, e così due manate dello stesso pane, due anime fino a poco prima un tutt'uno, venivano soffiate una ad ovest e l'altra a nord, una lì, su quell'isola lontana, e l'altra a mille chilometri più giù, in quella città già affollata. E in quei brevi momenti di squilibrio, quando il dio senza nome preferiva l'improvvisazione ai sui modi da catena di montaggio, succedeva che due anime con qualcosa in comune, due tranci della stessa massa, si dividevano finalmente su lunghe distanze, per prendere vita ma con una grossa mancanza. E succedeva pure che, tra un soffio a destra e l'altro a sinistra, alcune molliche dei due impasti, alcune briciole di quell'unico impasto originario, cadevano al centro, lì, su quella città nella vallata ad est, per non dar vita ad un altro essere umano, troppo poca la dose in questione, ma pur creare un qualcosa che ad occhi nudi sarebbe però sfuggito o almeno a chi non fosse della stessa pasta.

E succede poi, in quel mondo di vite e casualità, che alcuni decidono un giorno di cambiare, di spostarsi, d'emigrare. E c'è chi lo fa perché stufo delle condizioni attuali, c'è chi insoddisfatto cerca altrove nuovi stimoli e opportunità, chi si giustifica soltanto con la voglia d'avventura e chi vomita insulti e odi verso la terra natia che non l'ha saputo trattenere. Ognuno col suo motivo, ognuno con la sua storia da raccontare e le sue speranze da raffinare, di notte sotto un cielo sconosciuto, arriva in cerca di vita nuova con l'euforia e il dubbio del cambiamento che non può controllare. E alcuni, tra tutti quegli emigranti in fila all'aeroporto, ridono, si lamentano, soffrono, si migliorano, tornano, restano, ma non lo sanno, che tutto il resto eran solo scuse per connessioni neurali e sequenze di parole, che tutto il resto in realtà non contava e si partiva, ci si incontrava lontano, perché l'altra parte dell'impasto o quelle briciole comuni, l'altro pezzo da trovare, incontrare, baciare, non era lì dove s'era, era altrove. Succedeva così che il greco trovava la sua metà d'impasto bionda ed alta in Svezia o che un italiano incontrava il suo angelo spagnolo in Irlanda, perché le loro briciole eran cadute sul tavolo consumato di un pub. E così alla perenne domanda Perché vai via? non l'economia, non la politica, non la cultura né tanto meno l'avventura, la risposta sincera di tanti emigranti ignari e irrisoluti sarebbe stata, se solo avessero saputo di quella danza repentina del dio senza nome, Perché vado via? Vado via per amore.

E io dovrei credere a tutta questa storia!? - Esclamò sorridendo la ragazza francese, in quel bar di Londra parlando con quello sconosciuto.
Io penso che non ci siamo ritrovati qui per caso. - Rispose sicuro il ragazzo portoghese.
Non so che nome possa mai avere questa tua religione, non è meno buffa delle altre ma almeno mi ha fatto sorridere, mi hai convinto, andiamo a ballare insieme! - E lo prese per mano, mentre la musica nel bar si mescolava a parole e brindisi.
E poi - pensò il ragazzo portoghese, mentre veniva strattonato tra la folla euforica e rumori di bicchieri che si frantumavano - e poi dicono che le religioni sono inutili..

Per colpa di pochi

Di tutte le conclusioni che cadono come sipario su conversazioni altrimenti infinite ma comunque dal sapore abbastanza insipido però innegabilmente necessarie, quel per colpa di pochi quando si parla di trattative con ultras, di disordini fuori dallo stadio, di calcio che muore per l'ennesima volta, di poliziotti uccisi durante scontri con manifestanti, di ragazzi uccisi durante arresti serali e quant'altro popola il panorama di titoloni ricorrenti, perché è isolato il caso ma non il tipo d'evento, pane per dibattiti televisivi inconcludenti, è spesso un gran colpo di spazzola, quel per colpa di pochi lava via ogni colpa, prende le distanze facilmente, santifica parenti e amici, puntando il dito sugli altri, sempre gli altri, ma pochi degli altri, perché per colpa di pochi la pagano tutti, ma tutti (o comunque non pochi) aiutano a creare una certa cultura, modi di fare, quelle abitudini, quel terreno (sociale, politico, storico, antropologico, alieno) dove certi personaggi crescono (o prendono la coscienza di poter fare certe cose, diventano, supportano, imitano, esplodono) o certe cose succedono (su diverse scale, con diversi attori e conseguenze, ma connesse da quell'humus nazionale). E diventa come un già, quel per colpa di pochi, di quei già che si spargono un po' ovunque come il sale, quando non si sa che dire, quando non si vuol continuare, quando lo si preferisce al silenzio. Sarebbe più onesto (ma non più produttivo) concludere invece con un e questo vogliamo, più collettivo e responsabile, meno vittimista e distante, soprattutto quando i casi non sono isolati, perché i pochi e i tutti non son completamente scissi e s'influenzano a vicenda nelle interconnessioni del terreno condiviso, concimato, arricchito, contaminato. E sì che il passo alla generalizzazione, maledetta, è veramente breve, una trappola a portata di parole, ma ridurre il tutto alla colpa di pochi che danneggiato tutti, beh non basta né aiuta. E non cambia quell'humus già ben impregnato.

Del sonno accumulato

Iniziava così il messaggio pubblicitario di quel nuovo assurdo prodotto, se lo ricordava ancora distintamente, un po' perché lo faceva ridere con leggerezza, un po' perché in forme diverse aveva spesso pensato lo stesso, "Sonno, sai una cosa? Sei vanitoso - diceva quel messaggio - C'è davvero bisogno di far vedere a tutti che stiamo insieme? Su, toglimi quel color viola da sotto gli occhi, lasciami!". Era quell'ultima preghiera, quel lasciami!, a lasciarlo sempre interdetto o almeno così era nel ricordo di quei primi slogan commerciali, come se si potesse davvero comandare al sonno di lasciarci in pace. E così fu infatti, non appena entrarono in commercio quelle siringhe eccezionali, il sonno si estraeva come fosse una qualsiasi altra sostanza del corpo e ci lasciava magicamente attivi, senza sbadigli, senza pigrizia, rompendo di colpo il cordone ombelicale che sempre si trascinava dal cuscino alla colazione, dal bagno alla prima tazza di caffè; bastava poi alla sera iniettarselo di nuovo, quel sonno estratto, e tornare a quel torpore di palpebre appesantite e conciliazioni notturne. Prodigi della scienza moderna. Divenimmo così tutti drogati di tempo, nel 2123, a decidere con un prelievo e un'iniezione il nostro ritmo d'energie. Tempo, tempo, tempo, ne volevamo di più, lo volevamo all'istante, per poi sprecarlo in nuove mode e vacuità.

C'era chi in ufficio scappava in bagno i primi tempi, per succhiar via ancora un po' di sonno accumulato durante la mattinata, per non farsi vedere quasi fosse una colpa o soltanto perché quel nuovo gesto era ancora difficile da trasformare in abitudine. Scambiammo in fretta il caffè con l'ago, il sorso col prelievo, la camomilla con l'iniezione, e tutto divenne più facile, miracolosamente. Al miracolo non gridò il Vaticano però, condannando prontamente quella pratica innaturale e satanica, guadagnando qualche inutile titolone per una settimana. Non ci furono equivoci nemmeno secondo pubblicazioni scientifiche e campagne denigratorie contro quella siringa mortale, che col tempo - sostenevano - avrebbe accelerato il degrado del corpo umano, anche se furono presto tacciati di complottismo e presunte connessioni con lobby dei sonniferi e del caffè, in perdita drastica di mercato per quella concorrenza fascinosa. Tempo, tempo, tempo, ne volevamo usufruire il prima possibile, per quell'utopia contagiosa di far tutto e farlo presto.

E si contagiò come si contagiavano prima gli sbadigli oramai estinti, si contagiò veloce e col sorriso l'uso di quella siringa poderosa: c'era chi in fin di vita preferiva estrarre, prelevare, succhiare sonno il più possibile, posticipando poi le iniezioni, tentando di star sveglio il più possibile e prolungare in qualche modo la vita; così iniziarono a fare anche tanti anziani, perché la morte faceva paura e la si poteva allontanare un po' vivendo senza dormire, o almeno così pensavano; c'era chi le usava anche coi neonati, per sincronizzarli a ritmi e abitudini familiari ed averli facilmente al letto la sera ad orari precisi, un'iniezione e ninna nanna. Non tardarono ad aprirsi dibattiti legislativi sul prolungamento delle ore di lavoro, vista l'aumentata attività umana e il conseguente dispendio di risorse alimentari ed energetiche a livello globale, bisognava adeguare la società a quell'evoluzione, bisognava lavorare di più: per l'ennesima volta il progresso non aiutava l'uomo ma lo imprigionava sempre più ad una scrivania. Tempo, tempo, tempo, e c'era chi arrivava a buttare siringhe piene di sonno non consumato per la smania di fare non si sa cosa, si gettavano sogni così e progetti, speranze. Quante idee morivano in quel modo, all'ombra del dormiveglia scomparso, nel 2123.

Iniziarono poi a sorgere quei mercati neri del sonno, quel contrabbando di sonno altrui, per tutti coloro che rinnegavano il sonno e ne accumulavano in iniezioni. Il mondo aveva sempre avuto questa grande ricchezza, il sonno, ma nessuno prima lo aveva mai considerato abbastanza. C'era chi lo comprava come alternativa all'eutanasia; c'era chi lo preferiva come rimedio alla depressione; e c'erano poi quei partigiani silenziosi che non accettavano di vivere evoluzioni innaturali di società accelerate - proclamavano - e che decidevano quindi di viverla dormendo, in forma di protesta, acquistando sonno di contrabbando e passando le giornate a dormire, dormire, dormire, in cerca di ristoro in fughe oniriche da cui però molti non si svegliarono più. Così come gli altri iniziarono a svenire all'improvviso, dopo giorni interi senza iniezioni, svegli e produttivi, iniziarono a cadere esausti, come presi da un infarto, il corpo di colpo cedeva. Ma di nuovo s'associarono le cause di quegli eventi a disturbi già presenti, a condizioni di vita già precarie, ad abusi già documentati nel foglietto illustrativo, tra la voce delle combinazioni da evitare e quella degli effetti indesiderati.

"Sonno, sai una cosa? Sei vanitoso", diceva il messaggio che tanto lo faceva sorridere, a cui ripensava mentre stava lì con la siringa tra le mani, la siringa della sua amata. Aveva deciso di addormentarsi con il sonno di lei, perché la voleva vivere fino in fondo e perché voleva vivere i suoi sogni, affascinato da quelle dicerie sullo scambio di sogni, suoi sogni che rimanevano nel sonno, intrappolati in alcune siringhe e che alcuni s'erano ritrovati a sognare dopo averne acquistate di contrabbando, con il sonno altrui s'erano iniettati a sorpresa anche i sogni altrui. Quanti nonni svelavano in sogno numeri da giocarsi al lotto al nipote sbagliato, nel 2123. Ma a lui non sarebbe successo, non era una siringa del mercato nero, era quella della sua amatissima, anche se presa di nascosto, con la voglia morbosa d'amarla in ogni suo aspetto. Quando però s'iniettò quel sonno e nel sogno di lei la vide felicissima baciarsi con un altro, il cuore non resse il colpo, non si svegliò più.

Cinque

Dopo cinque anni a Bruxelles succede che non riesci ad immaginare più i tuoi giorni altrove e senti tua una città che invece per molti non ti appartiene appena ti ricordano quel flusso continuo di valigie e speranze che arriva, che parte, che cambia, di cui eri parte, non lo sei più, lo sarai di nuovo un giorno - pensa qualcuno - lasciando appeso un timido punto interrogativo, non lo sarai - rispondi - esclamando con convinzione di compromessi abbracciati. Ti abbraccia Bruxelles nell'espressione della gente al mercato che ti riconosce, ti saluta, san già che pane prenderai, o che il mango lo mangi il giorno stesso, poi incontri l'agricoltore fiammingo che da oramai due anni ogni mercoledì ti porta prodotti bio dalla sua fattoria, le sue mani sempre secche, le unghie sporche di terra e fatica, come le tue quando sul balcone di casa sperimenti un giardinaggio appassionato e lo commenti con la signora del piano di sotto, che un po' ti ha adottato se bussa alla porta di casa con una zuppa fatta per voi quando sa che siete appena rientrati tardi da due settimane di vacanze, meglio lei del signore del piano di sopra con cui ogni volta bisogna commentare i campionati di calcio di mezza Europa per terminare con le stesse conclusioni di sempre e un po' rimpiazzare quell'aria da bar sport di un tempo. Un tempo non ci avresti neanche fatto caso, ma dopo cinque anni a Bruxelles quasi ti fai nervoso se il menù di un ristorante o di un bar non propone almeno una decina di birre, se non c'è almeno una birra scura e una trappista (meglio ancora una trappista scura), se devi rassegnarti a una Jupiler o qualsiasi lager insipida che non saprà stimolare il gusto né il sorriso. Sorridi, quando la piazza popolosa di terrazze e gente s'unisce in un coro di voci ed alfabeti intrecciati, anche solo attraversandola come immergersi in ritratti di vita che qualcuno non chiamerebbe del nord, cadendo nell'ennesimo tranello di stereotipi e induzioni, e invece è lì, al primo raggio di sole, al primo polline che fluttua nell'aria, all'aperitivo del mercatino del lunedì al municipio di St.Gilles, alla marea di teste e sguardi del mercoledì di Chatelain, al giovedì al Parvis o nella folla sbronza di Luxembourg e tanto, tant'altra vita ancora, che non vedi, che manchi, che eviti, che t'assorbe e ti confonde. Ti confondi un po', dopo cinque anni a Bruxelles, quando nella stessa giornata a lavoro ti fan parlare in quattro lingue e la mordi, la lingua, per non parlarne ancora bene la quinta, ti piacerebbe avere conversazioni lunghissime in fiammingo ma poi ti ricordi che non sai di che parlare se per caso incontri un collega nel tram del ritorno, dove invece ricerchi la pace, che sia un libro o le cuffie da colonna sonora del rientro a casa. E c'è una casa che ti aspetta, dopo cinque anni a Bruxelles, dove ogni cosa rispetta i tuoi bisogni viziati e proprio per questo cambia, in bricolage sperimentali ed evoluzioni familiari, un po' come la città ce s'espande ma non sa come contenersi, s'adatta malamente ma continua nonostante preoccupazioni e problemi. Di problemi ne giustifichi tanti, dopo cinque anni a Bruxelles, a questa città che non smette di contraddirsi, altrove non sapresti giustificarli, altrove li avresti condannati, dispregiati, beffeggiati, ma adesso fan parte dei tuoi compromessi digeriti se sulla bilancia del benessere finale contano poco e si lasciano alle spalle, come fanno quelli in patria che non partono, trattengono, resistono, come non fanno alcuni belgi che partono, non sopportano, scappano, perché ognuno ha un proprio ronzio da accontentare, c'è chi lo vomita in lamenti condivisi e chi lo trasforma in sinfonie private.

Issimo

Eppoi all'improvviso scomparve il superlativo, nessuno seppe davvero spiegarlo perché scomparve addirittura dalle memorie, fu un fenomeno globale e irreversibile, da tutte le lingue del mondo era scomparso quel costrutto grammaticale tanto usato e abusato, da tutte le memorie del mondo era scomparso quel ricordo che terminava in issimo e di tutti i libri del mondo già stampati, già letti, già malamente quotati, non si riusciva a capire cosa volessero dire quegli issimi sporadici o quei più più più usati a spezie. La comunicazione non risentì della mancanza immediata o almeno non quanto potrebbe sembrare agli adulatori e ai superbi, alcuni riuscirono ad esprimere in modi diversi quell'istinto al confronto assoluto che ancora riusciva a manifestarsi tra parole e malintesi in forme come non c'è nessun altro che o non esiste nessun'altra che e così via; altri si aggrappavano tenacemente al superlativo relativo di minoranza, ma ne scoprivano presto i limiti, dovendo perdersi in elenchi infiniti di confronti binari o in affermazioni insipide e grammaticalmente scomposte. I discorsi di Benigni di colpo persero la maggior parte dei loro messaggi, non potendo più decantare il suo paese come il, o meglio non potendo più usare quella formula lì scomparsa, torcendosi in equilibri verbali e allungandosi in espressioni che non arrivavano più alle masse ma a pochi intenditori, già malati di issismo cronico indotto. L'innamorato s'ammutoliva quando al sussurrare cadeva nel silenzio nell'esprimere sentimenti adesso soffocati, ma trovava poi rimedio in un bacio, un abbraccio e il corpo rimpiazzava lesto i limiti di un alfabeto che non avrebbe comunque riassunto a dovere le proprie emozioni. La depressione, quella tristissima, quella bruttissima, lasciò di colpo il depresso davanti allo specchio e a domande finalmente costruttive e non più intrappolato in conclusioni sabbiose. Il politico perse di colpo il suo potere di propaganda dovendo trovare altre forme o addirittura scendere alla contraddizione e alla realtà dei fatti; e il giornalista ragionava dubbioso davanti alla tastiera in attesa perché non arrivava a titoloni da prima pagina a cui prima era abituato; e il tifoso ultrà strozzava il suo grido da stadio dovendo cercare tra aggettivi e ragioni quelle giuste per il suo coro e quindi tornare a quell'attività da tempo abbandonata, pensare. E la patria, la patria non sapeva più di che vestirsi, senza superlativi si scopriva nuda, labile al confronto, timorosa di classifiche in cui sì il superlativo era rimpiazzato da un posto, il primo, il secondo, l'ultimo, ma quel posto adesso era sorretto da dati e non orgogli viscerali d'ottuse ideologie.
Quando poi all'improvviso ritornò, il superlativo in tutte le lingue e tutte le memorie del mondo, l'uomo recuperò i suoi issimi ordinari, come se nulla fosse accaduto. E fu un giorno bruttissimo, il più brutto.

Ah, esportare la cultura

E mi sembra anche giusto, che all'Istituto Italiano di Cultura si esporti giustamente una certa cultura. Coerenti, in fondo.

Di radici provvisorie

Le radici - esclamò quasi gridando - sono proprio le radici ciò che ci dà la forza, la salute e quindi la vita!, assorbono il giusto nutrimento dalla terra che le circonda e lo trasmettono a tutto il resto, ecco perché non si possono trascurare le radici, ecco perché non si possono ignorare le radici, ecco perché son così importanti, la cosa più importante, vitale, le ra-di-ci!
Ma cosa dici? - contestò immediatamente - I rami e le foglie sono la cosa più importante, catturano l'energia del sole e mantengono viva la pianta, si estendono in mondi nuovi cercando il modo di sopravvivere, interagiscono con animali e clima, rappresentano il presente ed il futuro!
Ma che schiocchezze sono queste? Ma cosa vai dicendo? Senza radici la pianta muore! Senza radici non c'è futuro!
E senza rami e foglie? - replicò - E senza il nuovo che viaggia, si estende, cerca la luce, vita nuova, vita diversa, la luce! Per questo fai bene ad andare figliolo, trasformati altrove, per questo va, va!
Il ragazzo rimase un po' interdetto, osservando quel teatrino improvviso sulla soglia della cucina, cercando di capirne messaggi e significati, casomai ce ne fossero, casomai servissero davvero.
Non stare a sentire queste idiozie, nipote mio! Rimani dove sono le tue radici, rimani dove la terra continua a darti il nutrimento di cui hai bisogno!
Ma è proprio quello il punto! - infierì nuovamente - Che non c'è più nutrimento per loro in questa terra, che le radici vanno ammuffendosi, o seccandosi, insomma muoiono, meglio che la pianta cerchi altrove la propria vita, meglio che i rami si muovino dove la luce li possa riscaldare!
Ammuffite? Secche? Ma lo vedi che dici una cosa e il suo contrario nella stessa frase! Se tutte le piante vanno via, lo sai che succede al terreno? Che frana al prossimo diluvio! Ci vogliono radici giovani per tener il terreno, mentre le vecchie oramai non hanno più forza, non ce la fanno più..
Il terreno! Il terreno! - diresse lo sguardo al soffitto quasi a cercarne una prova - Il terreno è oramai inquinato! Lo abbiamo contaminato per troppi anni, è impastato di cemento, rifiuti, veleno.. Guarda, guarda che bosco ne esce fuori per chi lo vede con occhi esterni! C'è sempre meno verde, ci son sempre più rami secchi e ragnatele... eppoi ci son quei mostri, quelle querce giganti che non si muovono, in mezzo al bosco, che succhiano il nutrimento agli altri e il resto non cresce o cresce male.. va, figliolo, va, va dove nuova luce possa riscaldare le tue foglie e intrecciare i tuoi rami, altre radici nasceranno, ne son sicuro, quella valigia è una margotta in fondo..
Se metti radici altrove, nipote mio, se metti radici altrove... - ancora un po' restio, ma oramai agli ultimi tentativi - poi non torni più.. Ma almeno, almeno non dimenticare quelle che avevi, che un po' rimangono con te, che t'hanno fatto crescere e nutrito finora, oggi sei quello che sei anche grazie a loro!
Non dimentico nonno - rispose il nipote, a tagliare corto ed annuire - non dimentico le radici. Afferrò la valigia con energia e si diresse alla porta. Il padre lo guardò in silenzio, masticando pensieri, per poi mugugnare: i frutti, i frutti che nasceranno da quei nuovi rami, avranno un retrogusto amaro, a volte, tu però manga giù, ti faran bene, ti faran crescere.
Non lo rivide più, o almeno non più lo stesso.

Il cappotto

Tutto l'inverno così, raccogliendo passivamente freddo, pioggia e odori urbani di metro e sedili, inzuppandosi di città, di quella scura di giornate uggiose e di quella sporca di spazi ristretti tra foreste di braccia e code e attese, la ritrovi tra il collo e in altri parti del tuo cappotto, dopo mesi di onorato servigio, quella puzza che spesso risveglia sensi in tonalità di disgusto e apnee, è quel misto d'odori forti che riconosci in alcuni angoli del vagone della metro, indicativo del passaggio di qualche senza tetto, di qualcuno dal sudore impregnato, d'insalate di presenze umane che lasciano il segno non per marcare il territorio ma per inevitabili frammenti che si perdono, nei crocevia metropolitani in cui spesso si sopravvive. E te lo ritrovi sul cappotto o n'è soltanto il presentimento, la percezione, quasi fosse il presagio d'intensità maggiori, quasi potesse infettare, attraversare i tessuti spessi del cappotto e attaccarsi a quelli epidermici; quell'odore di città, che brutto dipinto ne uscirebbe se si limitasse a raccoglierne solo quello per descriverla, eppure le appartiene, tanto che te lo ritrovi addosso, l'odore di città, di metro, di autobus, di treni, di pioggia e smog, di bar, di traffico, di persone, dovrebbe essere altra poesia, dovrebbe riempirsi di colori e voci e diversità, e invece sul cappotto si trasforma in acidi aromi; dovrebbe essere una fragranza da esporre in vetrina tra marketing abilmente addobbato e frasi ingrassate ad effetto, il profumo di Bruxelles, e invece non c'è poesia quando l'effluvio ha il sentore di quella cosa, anche quella, soprattutto quella è ciò che veramente ti fa storcere il naso e si ferma amara in gola, perché un po' fa paura. La povertà. Ma bastano poche ore in una lavanderia vicino casa e pochi euro alla consegna ed il cappotto torna come nuovo, al profumo di lavanda, per dormire fino al prossimo inverno ed assorbire poi nuovamente la città, in tutti i suoi gusti, anche quelli più forti, con il cinico sollievo di poter dimenticare tutto in un lavaggio a secco e la consapevolezza però che quella cosa è lì e per tanti altri non va via.

Come da ragazzini nei bagni della scuola

Ma caro ragazzo italiano che non posso far a meno di ascoltare, quando l'orecchio si sintonizza inevitabilmente su suoni che riconosce distinti, linguaggi che sa decifrare pur tra il rumore accentato della metro brussellese, te ne potrei fare una colpa del fatto che hai prontamente nominato La grande bellezza all'amico o conoscente straniero che pur si destreggiava in un italiano altalenante, mentre lui ti voleva invece parlare di 12 anni schiavo e tu non conoscevi il film né sapevi che faceva parte della famosa notte degli oscar, e relative premiazioni quindi; te ne potrei fare una colpa per quel sorriso da orgasmo repentino quando hai nominato La grande bellezza richiamando vittorie adolescenziali di chi ce l'ha più lungo nei bagni della scuola, solo perché quel film ha un nesso con te per semplici appartenenze nazionali ed ecco che automaticamente te ne fai ambasciatore, mentre l'amico o conoscente voleva in realtà parlare d'altro, ignorando lunghezze ostentate e doti inappropriate; te ne potrei fare una colpa, caro ragazzo italiano nella metro di Bruxelles, per quel sorriso da vantaggio acquisito al nominare il titolo di un film, come se ne avessi partecipato alla realizzazione, quasi se adesso, per magia, comparisse tra i tuoi segni particolari sulla carta d'identità, ma solo per qualche giorno, il tempo di vantarsene, il tempo di dimenticarsene, il tempo di ripescarlo alla prossima occasione e presentarlo sul banco di conversazioni doganali in cerca di bandiere da ostentare; e te ne potrei pure fare una colpa perché non conoscendo invece gli altri film, anzi proprio quelli che han ricevuto più premiazioni, confermeresti quell'atteggiamento tipico di chi filtra soltanto i dettagli che ne possono aumentare prestigio e ignora il resto, il contesto, gli atri, confermeresti quella gloria dei monumenti più belli del mondo che però non si son mai visitati, stan lì, vicino casa, son bellissimi, ma si lasciano ai turisti, o al degrado, o quell'altro del cibo più buono del mondo, tacciando il diverso per inferiore, inconfutabilmente.
Ecco, caro ragazzo italiano, non te ne posso fare una colpa però, perché sarebbero soltanto supposizioni personali o giochi di parole di chi vuole in realtà arrivare ad una conclusione ben precisa con il pretesto di una leva occasionale, come si fa spesso sulla rete come al bar, o in salotti di scimmie urlanti a riempire palinsesti televisivi; ma soprattutto non te ne posso fare una colpa perché quel sorriso, quell'emozione improvvisa per un proclamo illegittimo non è altro che una delle tante espressioni della patria che è in te, fatta spesso di superlativi assoluti e reazioni istintive, che all'estero più che mai ha il bisogno d'eiaculazioni celebrali appena sente odor di confronto, conflitto, identificazioni e orgogli improvvisi quanto fragili. Avrei voluto dirtelo però, che vivendo altrove un giorno - magari - ne avrai la consapevolezza, di quella patria che è in te, e tutto ti apparirà esattamente come quella scena, tra imbarazzante e simpatico, un po' ridicolo però spontaneo, quella scena dei ragazzini a misurarsi il pistolino nei bagni della scuola.

Il guardiano del museo

C'era una volta un museo, in un paese del sud Europa lì dove anche il più piccolo museo era già ricco di storia e tracce di passati ammirabili, e c'era un guardiano, in quel museo, che ogni notte girovagava per alcune zone della struttura, sempre le stesse, quelle che meglio conosceva, quelle che più gli piacevano; le altre zone non contenevano oggetti troppo preziosi, secondo il suo giudizio, e quindi non valeva la pena sorvegliarli e comunque nessuno si sarebbe mai sognato d'andar a rubare quelli e non i suoi preferiti, i migliori; oppure, in altre zone dove non andava quasi mai, c'erano opere famose, che aveva visto una volta, che pur decantava agli occhi degli altri, ma erano talmente lontane che - sempre per il suo alto giudizio - avrebbe corso il rischio di abbandonarne cento per verificarne una, diceva; oppure, erano lì, a pochi passi, erano importanti, ma proprio perché vicine non avevan bisogno di troppa cura, le avrebbe ammirate il giorno seguente, forse. Così, in quel museo di un paese pieno di musei, quel guardiano macinava metri e metri delle stesse sale, ogni notte, ripetendo lo stesso percorso nei suoi modi tradizionali e conservatori, apprezzando quadri, sculture, di cui spesso non sapeva nemmeno il nome o, se lo sapeva, ne ignorava la storia, il messaggio, l'autore, erano dettagli, gli bastava sapere che fossero importanti, ne continuava a vantare il valore, il prestigio, di musei così ce n'erano pochi, d'opere così non se ne trovavan in nessuna parte del mondo. Il mondo però lo lasciava fuori, agli altri, il mondo era tutto quello che esisteva fuori dal museo, fuori dai suoi percorsi conosciuti, e non valeva la pena visitarlo se quanto di più importante era già nel museo, se altrove avrebbe dovuto addirittura pagare e far file per operucce, oggettucci, nulla di minimamente comparabile al catalogo di quel museo, anzi, alle solite sale che sorvegliava di quel museo, per essere precisi.

Ed in quel museo così colmo di storia e ricchezza dell'umanità, ogni notte, durante i percorsi d'occhi sonnolenti e controlli approssimati, nascosto da occhi altrui che ne avrebbero compromesso le azioni, quel guardiano compiva un rito del tutto speciale: ogni volta sceglieva un'opera distinta, la più bella, la più originale, la più elaborata, e la sostituiva con un falso praticamente identico. Era abile, a farsi trovare falsi d'autore tra i tanti mercati neri che conosceva, attraverso conoscenze ed amicizie che già gli avevano aiutato a trovare quel lavoro, tramite altre conoscenze ed altre amicizie, mantenendo cautamente il segreto senza però evitare poi di vantarsi continuamente di quelle opere, del museo, come se tutto fosse ancora originale e invece con il tempo non lo era più. Non lo era più ma il mondo non lo sapeva e continuava a morire d'invidia, per non possedere quelle opere così preziose, quel museo così importante, doveva essere un mondo bruttissimo fuori, anche se dentro, di quelle opere così preziose, non rimanevano che copie, imitazioni, con il tempo il valore di quelle collezioni pregiate si sarebbe ridotto a zero, mentre altrove nuove opere e nuove correnti artistiche avrebbero arricchito altri musei, lì fuori nel mondo lontano, quello degli altri, ma più ripeteva le solite lodi più si dimenticava del suo operato e si convinceva lui stesso dell'alto valore ancora presente, intatto. E ogni notte, mentre il mondo continuava a morire d'invidia, quel guardiano cautamente rimpiazzava un quadro famoso con un falso, scappava poi lesto in bagno con l'originale ed iniziava morbosamente a farlo a pezzi eppoi a mangiarlo, con morsi selvaggi e continui, deglutirlo a singhiozzi ma con piacere, trasformando tutta quella bellezza antica in rigurgiti profondi e sonori, ultime grida di un patrimonio che scompariva, tra mascelle rigonfie e riflussi gastroesofagei.

Così, mentre altrove e nei dintorni s'invidiava e si lodava quell'eredità unica e preziosa, ma si lavorava nel frattempo anche a creare altre esposizioni, altre opere mirabili, in quel museo si distruggeva ricchezza, per sempre, quel guardiano convertiva un passato oramai già consumato in un presente desolato di falsità e rutti.

Del mangiare ed altre evoluzioni

Era la seconda volta che le mostrava quella scena, fissando lo schermo con morbosa attenzione, mentre i pixel disegnavano forme e immagini che si mescolavano a memorie e pensieri masticati, mal digeriti. Non gli piaceva, quella consapevolezza che il cervello stesse già interpretando a suo modo segnali visivi e conoscenze, non gli piaceva che ciò che avrebbe pensato di vedere non era la realtà in quanto tale ma soltanto la trasformazione celebrale di una realtà non più autentica, già personale. Pensava, come posso spiegarle quello che penso di questa scena se la vediamo già in modo diverso, ognuno attraverso i propri filtri neurali? E intanto la scena continuava, quell'uomo oramai sconosciuto ma un tempo famoso - dicevano, diceva suo nonno, famosissimo, diceva - prendeva di nuovo del cibo con le mani, lo alzava al cielo, rideva, se lo infilava nelle tasche. Disse: lo vedi? Forse anche noi faremmo così oggi, a distanza di così tanto tempo, da quando non mangiamo più cibo come ce lo mostrano ancora dipinti, libri, etichette colorate, da quando tutto è in pillole e per noi è già abitudine, normalità. Ma è così - gli rispose lei, con sguardo crucciato - per preservare la sostenibilità della specie sul pianeta, lo sai, ne abbiamo già parlato, è così perché in passato son stati incoscienti, han superato limiti e rotto equilibri, è così perché.. Lo so, lo so - la interruppe lui, con voce seccata - non voglio ripetere di nuovo questa storia, la conosco, la storia, e conosco il presente, fatto non più di piatti, posate, tavole bandite, ma pillole e sostenibilità, lo so, te le vendono anche bio, quelle pillole, come se contasse poi qualcosa, e intanto in posti a noi preclusi c'è ancora chi mangia cibo vero, son in pochi, perché costa troppo oramai, impossibile pagare quei prezzi, lo so, meglio qualche pillola, che poi è lo stesso, dicono, anzi è meglio, per il pianeta. Poi però - si alzò, avvicinandosi alla grande vetrata da cui si intravedeva poco il cielo coperto da grattacieli e traffico - quelli che continuano a parlarci di sostenibilità, di sopravvivenza della specie, di benessere del pianeta, credi davvero che continuino ad inghiottire pillole come noi?

Lei lo seguì con lo sguardo, la testa un po' abbassata, quasi a sentirsi colpevole per azioni non sue o come se il peso di quelle parole e delle colpe di società passate fosse presente sulle sue spalle, fragili, ancora più fragili nell'inarcarsi come reazione a quella discussione. Ma almeno - provò a rompere il silenzio, a richiamare la sua attenzione - ma almeno noi mangiamo le pillole, pensa a chi col teletrasporto si fa teletrasportare già sazio? Almeno noi abbiamo ancora un qualche contatto tra cibo e dita, tra bocca e nutrimento.. Contatto? - tuonò lui - Cibo? Ma poi, lascia stare il teletrasporto, lo so, se devono distruggerti in un luogo e ricrearti in un altro, tanto vale scegliere di farti ricreare già con lo stomaco sazio, come se nello stream di informazioni inviate, nel viaggio di terabyte trasmessi tra partenza ed arrivo, si inghiottisse una pillola digitale, guadagnando tempo, dicono.. Ma quale tempo? Il tempo d'inghiottire una pillola! Lascia stare, quell'opzione all'ingresso del teletrasporto è davvero aberrante..
Intanto il fermo immagine mostrava ancora quell'uomo con del cibo nelle tasche, ridere. Lo vedi - disse - lo vedi quel film? Te l'ho fatto rivedere perché paradossalmente lo faremmo anche noi, oggi, mangiare del cibo vero quasi fosse la cosa più preziosa del mondo, conservarne pezzi nelle tasche, celebrarlo dedicandogli una danza.. Sai come si chiamava quel cibo? Spaghetti, nome buffo lo so, ho dovuto cercare e confrontare immagini, non me lo ricordavo più. Sai come si chiamava quel film? Miseria e nobiltà. Non ti dice nulla? A me fa pensare, fa pensare che in fondo la nobiltà della nostra specie, di quest'intelletto superiore che vantiamo, si complementa ad una miseria intrinseca, quella del distruggere per sopravvivere.

Rimase qualche secondo a fissarla, mentre lei fissava quel fermo immagine, quasi potesse riprendere a muoversi da un momento all'altro e trasmettere quella scena per l'ennesima volta. Sul tavolo, a pochi metri da loro, la cena: un pacchetto di pillole bio, le migliori sul mercato, recitava la confezione. Le hai comprate addirittura bio, per stasera? - Chiese lui, con tono provocatorio. Sì - rispose lei, con voce affannata - volevo il meglio per il nostro anniversario, volevo che ci nutrissimo bene per celebrare il nostro amore, perché in fondo è bio anche quello, è naturale, è nostro.
Ma bio... - balbettò in risposta - ma bio non vuol dire senza scadenza.

Di Kindleiani ed altre evoluzioni

E il libro di cui mi parlavi, quanto ne hai letto finora? - chiese lei, incuriosita. Metà più o meno, penso - rispose con l'espressione un po' svogliata, come se non avesse importanza, come se non sapesse di preciso. Non sapeva, infatti, e subito richiamò gli sguardi attenti degli altri. Come a metà? A 43%, a 52%, vuoi dire? Non lo sai? - chiesero accavallandosi in voci e domande, chi con riso leggero, chi con naturale sconcerto. Ma lui davvero non conosceva la percentuale, stava leggendo un libro di carta, di quelli ancora veri, e si ricordava soltanto di aver lasciato il segnalibro a metà del libro, o giù di lì. Non rispose, come se non avesse capito le domande, come se non avesse percepito l'umore. Non mi dire, - continuò un altro - non mi dire che leggi ancora libri di.. di carta? E qualcuno gli fissò le mani, le dita, i polpastrelli, come se potessero in qualche modo portare con sè tracce di carta, tracce di parole toccate, salvate da qualche parte nel cloud della sua testa, condivise soltanto tra le reti sociali delle sue conversazioni private. Non c'era nulla, ovviamente, tra quelle mani voraci di pagine, o almeno nulla di diverso dalle altre, anche loro voraci ma abituate a superfici elettroniche, interazioni digitali di letture personali arricchite da commenti globali.
Oh, non ricominciamo con questa storia! - ribatté, contraendo la mano, quasi a nascondere le dita e qualche presunta colpa, - ce l'ho da tempo pur'io l'ereader e ne riconosco i tanti vantaggi, ma se ogni tanto ripesco un libro di carta non devo mica calcolarmi la percentuale di lettura con la calcolatrice! E smettetela di ridere, prima che ve lo sbatta in faccia, quel libro! Ma così non fece altro che generare altre risate generali, (persino lei rise, la intravide benissimo), come se un libro si potesse davvero lanciare contro qualcuno senza la paura di romperlo, mentre gli altri ripetevano le sue parole a canzonetta, come se esistesse ancora quell'altra cosa antiquata, quella che avrebbe usato per arrivare alla percentuale, addirittura a mano, con le stesse dita con cui aveva sfogliato e risfogliato, quell'oggetto che pure aveva uno schermo, anzi da anni prima dell'arrivo di cento rivoluzioni, ma che diventava sempre più raro, assorbito come funzione vocale o trasformato in letture a comandi celebrali. Qualcuno se ne ricordava pure il nome, tra le risate s'udì qualcosa, calcolatrice, dissero tra loro. Calcolatrice, pare si chiamasse pressappoco così.

Espulsi in Europa pur essendo europei, FAQ

Il caso di Silvia Guerra, italiana a Bruxelles espulsa da un paese comunitario, ha fatto un po' il buzz in rete perché - dicono - un cittadino un europeo non può essere espulso da un altro paese europeo, ma è vero?
Dicono, pensano e scrivono, (pseudo)giornalisti e commentatori d'impulso, ma pochi si documentano, questo è il male di gran parte del giornalismo da titoloni e anche di una parte della rete (questo blog compreso). No, non è vero che un cittadino europeo non può essere espulso da un paese comunitario. Sì, può essere espulso eccome, è tutto nero su bianco [link a pdf]. Succede, per esempio, anche a cittadini francesi in Belgio.

Ma come è possibile, che Europa è questa?
L'Europa reale, spesso diversa da quella idealizzata o da quella supposta, è quell'Europa che ancora consideriamo sotto "politica estera" ma che ci sorprende quando non si comporta come credevamo, quando non è abbastanza comunitaria, unita, e allo stesso tempo rinegghiamo quando s'intromette troppo negli affari nazionali. Vogliamo che sia l'Europa di tutti, ma non la nostra. Oppure, vogliamo che sia la nostra, ma non sempre. Per il momento è un'Europa in costruzione.

Quindi quali sono le regole da rispettare per un cittadino europeo in uno stato membro?
Non sono molte. Bisogna dichiarare la propria presenza dopo i primi 3 mesi per studio, lavoro o turismo, o dopo 6 mesi se in cerca di lavoro (da dimostrare, in qualche modo). Altrimenti? Si rischiano sanzioni, ma non l'espulsione. Questa è la mobilità nell'area Schengen: non ci sono controlli tra frontiere interne (non sei obbligato a mostrare la tua identità, ma devi sempre aver con te i documenti necessari, nel caso sia richiesto).

E dopo i tre o i sei mesi?
Dopo quel periodo possono prolungare la propria residenza tutti i lavoratori, dipendenti o indipendenti (o non lavoratori ma vittime di incidenti, registrati come alla ricerca di lavoro, studenti che abbiano risorse sufficienti al proprio sostentamento, perché sì, potrebbero altrimenti diventare un peso per il welfare del paese membro). Per disoccupati (o pensionati) bisogna inoltre dimostrare di potersi auto-sostenere ed essere coperti da un'assicurazione medica. E qui sorge il problema.

Quale problema?
Che se queste condizioni non sono rispettate o se si giudica che non siano ragionevoli (o addirittura in caso di ordine pubblico, pubblica sicurezza, motivi sanitari), il paese membro ha diritto ad esaminare il caso e procedere, qualora lo ritenesse opportuno, all'espulsione. Vale per tutti i paesi europei, quindi sì, un paese membro può espellere un cittadino europeo. Però attenzione: c'è un però..

Però?
L'espulsione non è un bando! Si può ritornare nel paese membro in qualsiasi momento, è un nostro diritto, ovviamente rispettando le condizioni di prima. Inoltre, dopo 5 anni di continua residenza legale, si può acquisire il diritto di residenza permanente e quindi non più soggetti alle condizioni di cui sopra (attenzione: si può però perdere questo diritto per un'assenza più lunga di 2 anni).

Questo cambia un po' il caso di Silvia Guerra quindi?
Lo cambia e non lo cambia. Lo cambia, perché sappiamo qualcosa in più, o meglio che l'Europa è diversa da quella immaginaria. Non lo cambia, perché di tutti gli articoli in rete si ripetevano 3-4 frasi sotto titoloni allarmanti e considerazioni imbarazzanti, nessuno forniva in realtà dettagli che potessero aiutare a capire di più (o giustificare certe affermazioni, in caso i dettagli non si potessero divulgare per motivi di privacy o legali). Di certo, questa storia non aumenta la nostra fiducia nella qualità di un certo tipo d'informazione. E buona Europa a tutti.