Troppo tranquillo, solitario e concentrato l'acrobata, sembra tutto calmo e invece non c'è silenzio perché siamo proprio a un metro dal famoso Manneken Pis e la folla di turisti fa a gara per scattare la famosa foto al bambino che allegramente fa pipì. Foto scattata qui. |
Balancing over silence or throngs?
La percezione femminile di Bruxelles
Ognuno ha una propria percezione della realtà che lo circonda, frutto di esperienze, conoscenze (errate o giuste che siano), cultura ed immaginazione; e probabilmente se ne potrebbero elencare tanti altri, di fattori più o meno determinanti: perché una percezione nasce da canali sensoriali (vista, udito, tatto, olfatto, gusto) per poi essere elaborata in base a quello che il cervello sa per abitudine e contenuti.
Di una città mista come Bruxelles (così come tante altre capitali odierne direi) si potrebbero avere diverse percezioni dopo una passeggiata spensierata, un fine settimana turistico, un mese di soggiorno, un anno di lavoro; ed ogni percezione potrebbe intrinsecamente dipendere anche da quale faccia della città si è vista, visitata, vissuta, sperimentata; quale piazza, quale quartiere, quale area. Gli eurocrats, per esempio, avranno sicuramente una percezione di Bruxelles totalmente diversa dai tanti immigrati extraeuropei, vivendo in piccole isole felici e grazie ad agevolazioni d'ogni tipo, magari viaggiando settimanalmente verso la vera casa, forse considerando Bruxelles alla stregua di un ufficio temporaneo.
Quello a cui non avevo mai pensato era la percezione femminile di Bruxelles. Perché la parità dei sessi è decisamente un obiettivo ancora del tutto lontano, purtroppo, ed un ragazzo continua a sentirsi più sicuro e forte, elaborando percezioni della città del tutto diverse da una ragazza. Così succede che alla mia ragazza capitano troppo spesso episodi di molestie verbali, vuoi una volta ferma sola al semaforo con la bici e giù il finestrino della macchina a fianco a dire frasi di cattivo gusto fino al verde, vuoi nella metro di sera qualche volta da sola a dover cambiare vagone perché due coglioni han iniziato ad importunare, vuoi che nel bel mezzo di una passeggiata per alcune vetrine qualcuno si avvicina infastidendo per un po'. Parlando con altre ragazze, straniere ma anche brussellesi dalla nascita, ho avuto alcune conferme, di episodi non isolati, di abitudini oramai quotidiane, di una città che trasmette sicuramente meno sicurezza, almeno per una ragazza. E senza cadere in facili discriminazioni o in razzismi che aleggiano sempre quando si dichiarano certe cose, il dato di fatto, la fotografia della realtà (e non della percezione) è che si tratta sempre di magrebini. Attenzione: non che tutti i magrebini fanno questo, ma tutti quelli che lo hanno fatto erano magrebini. La differenza è netta.
E al di là del politically correct, la percezione che nasce da certe esperienze sicuramente rovina gli umori e aiuta a capire quanto la stessa città possa riservare episodi totalmente differenti anche soltanto in base al proprio sesso. Certo, cose del genere sarebbero potute capitare in tante altre capitali, in Spagna, in Italia (basti ricordare la famosa posteggia napoletana), e non soltanto a causa di immigrati; forse meno in paesi nordici dove gli harrassment sono severamente puniti dalla legge, anche solo importunare con poche parole. Qui a Bruxelles sembra assurdo immaginarsi scene del genere da un belga d'origini belghe, per cultura, abitudini, educazioni, perché è vero, la maleducazione nasce dalla non considerazione, dal non rispetto per gli altri e quando la cultura, forse la condizione sociale o la percezione del mondo è totalmente differente dall'intorno in cui si vive, allora ecco che c'è qualcuno che si sente padrone della città, lascia sigarette e rifiuti ovunque, sfreccia con la macchina e la musica al massimo, gioca con i mezzi di trasporto ed importuna ragazze rendendo la propria integrazione o almeno l'immagine di se stessi negli altri sicuramente più complicata; senza poi pensare ad altre conseguenze indirette: quando l'immagine di pochi si confonde con quella di una comunità (ma in quei casi alla percezione occorre sempre, o bisognerebbe, aggiungere il buon senso).
Nella fretta per non perdere la metro o mentre si corre verso la scrivania mattutina, quando si passeggia tranquillamente la sera o in qualsiasi altra scena di vita quotidiana, dovremmo provare ad immaginarci il mondo in modo diverso per cogliere altre percezioni, magari anche quella femminile, e vedere l'effetto che fa: magari qualche scena per noi normale, qualche frase per noi innocua, qualche scherzo che forse lascia indifferenti, risulterebbe decisamente più fastidioso, inopportuno, sgradevole; ed ecco che magari un'altra faccia della stessa città ci trasmetterebbe altri messaggi, totalmente diversi. Basterebbe leggerli e capirli, quei messaggi, per migliorare già un bel po' di cose.
Di una città mista come Bruxelles (così come tante altre capitali odierne direi) si potrebbero avere diverse percezioni dopo una passeggiata spensierata, un fine settimana turistico, un mese di soggiorno, un anno di lavoro; ed ogni percezione potrebbe intrinsecamente dipendere anche da quale faccia della città si è vista, visitata, vissuta, sperimentata; quale piazza, quale quartiere, quale area. Gli eurocrats, per esempio, avranno sicuramente una percezione di Bruxelles totalmente diversa dai tanti immigrati extraeuropei, vivendo in piccole isole felici e grazie ad agevolazioni d'ogni tipo, magari viaggiando settimanalmente verso la vera casa, forse considerando Bruxelles alla stregua di un ufficio temporaneo.
Quello a cui non avevo mai pensato era la percezione femminile di Bruxelles. Perché la parità dei sessi è decisamente un obiettivo ancora del tutto lontano, purtroppo, ed un ragazzo continua a sentirsi più sicuro e forte, elaborando percezioni della città del tutto diverse da una ragazza. Così succede che alla mia ragazza capitano troppo spesso episodi di molestie verbali, vuoi una volta ferma sola al semaforo con la bici e giù il finestrino della macchina a fianco a dire frasi di cattivo gusto fino al verde, vuoi nella metro di sera qualche volta da sola a dover cambiare vagone perché due coglioni han iniziato ad importunare, vuoi che nel bel mezzo di una passeggiata per alcune vetrine qualcuno si avvicina infastidendo per un po'. Parlando con altre ragazze, straniere ma anche brussellesi dalla nascita, ho avuto alcune conferme, di episodi non isolati, di abitudini oramai quotidiane, di una città che trasmette sicuramente meno sicurezza, almeno per una ragazza. E senza cadere in facili discriminazioni o in razzismi che aleggiano sempre quando si dichiarano certe cose, il dato di fatto, la fotografia della realtà (e non della percezione) è che si tratta sempre di magrebini. Attenzione: non che tutti i magrebini fanno questo, ma tutti quelli che lo hanno fatto erano magrebini. La differenza è netta.
E al di là del politically correct, la percezione che nasce da certe esperienze sicuramente rovina gli umori e aiuta a capire quanto la stessa città possa riservare episodi totalmente differenti anche soltanto in base al proprio sesso. Certo, cose del genere sarebbero potute capitare in tante altre capitali, in Spagna, in Italia (basti ricordare la famosa posteggia napoletana), e non soltanto a causa di immigrati; forse meno in paesi nordici dove gli harrassment sono severamente puniti dalla legge, anche solo importunare con poche parole. Qui a Bruxelles sembra assurdo immaginarsi scene del genere da un belga d'origini belghe, per cultura, abitudini, educazioni, perché è vero, la maleducazione nasce dalla non considerazione, dal non rispetto per gli altri e quando la cultura, forse la condizione sociale o la percezione del mondo è totalmente differente dall'intorno in cui si vive, allora ecco che c'è qualcuno che si sente padrone della città, lascia sigarette e rifiuti ovunque, sfreccia con la macchina e la musica al massimo, gioca con i mezzi di trasporto ed importuna ragazze rendendo la propria integrazione o almeno l'immagine di se stessi negli altri sicuramente più complicata; senza poi pensare ad altre conseguenze indirette: quando l'immagine di pochi si confonde con quella di una comunità (ma in quei casi alla percezione occorre sempre, o bisognerebbe, aggiungere il buon senso).
Nella fretta per non perdere la metro o mentre si corre verso la scrivania mattutina, quando si passeggia tranquillamente la sera o in qualsiasi altra scena di vita quotidiana, dovremmo provare ad immaginarci il mondo in modo diverso per cogliere altre percezioni, magari anche quella femminile, e vedere l'effetto che fa: magari qualche scena per noi normale, qualche frase per noi innocua, qualche scherzo che forse lascia indifferenti, risulterebbe decisamente più fastidioso, inopportuno, sgradevole; ed ecco che magari un'altra faccia della stessa città ci trasmetterebbe altri messaggi, totalmente diversi. Basterebbe leggerli e capirli, quei messaggi, per migliorare già un bel po' di cose.
Peeping the Grand Place
Sbirciata veloce della villa comunale della Grand Place da Rue des Harengs. Foto scattata qui. |
Dreaming of a drunk dancer
Allo scoccare della mezzanotte qualcuno avrà perso più di una scarpa o forse il venerdì sera ai piedi della Commissione Europea sarà stato più movimentato di una semplice fiaba, lasciando memorie di danze ed alcool. Foto scattata qui. |
Una lettera, un capolavoro: dov'è il paese reale?
La lettera aperta con cui la Busi rinuncia alla conduzione del Tg1 non è uno sfogo, è un capolavoro. La si dovrebbe leggere ad alta voce davanti a tutti quei telespettatori che la sera si cibano di notizie inutili, menzogne e propaganda, e che non ti credono quando rientri in Italia ed esprimi la tua opinione su problemi per molti inesistenti, come se andando all'estero quasi non si abbia più il diritto di parlare di certe tematiche perché non si vive più in quel luogo ed allora non si sa, non si conosce. E invece eccola qui, la lettera della Busi, chiara, schietta e sincera, a raccontare quello che la tv non dice, quello che agli italiani è meglio non dire perché c'è un governo da appoggiare, ci sono gesta storiche da sottolineare e riforme, leggi, eventi da consacrare, tutto attraverso l'arte sublime della finzione televisiva durante un viscido show che non mostra il paese reale.
"[..] Dov'é il paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'é posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'é questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. [..] L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. [..] Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il pubblico, per la verità."
Purtroppo ci son più Minzolini che Busi e anche questa lettera sarà presto dimenticata, mentre sugli schermi di mezza Italia continuerà ad apparire l'immagine irreale di un paese da nascondere. Purtroppo i Minzolini hanno sempre più potere delle Busi ed allora arrivano li', in apertura, a leggere parole dettate dal servilismo e dagli interessi personali mentre la tv trasmette la sua faccia menzognera, che per qualcuno magari rappresenta un'era e invece non è che l'ennesima sconfitta, per chi cosciente deve assistere con rabbia e chi incosciente assimila e sorride.
"[..] Dov'é il paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'é posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'é questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. [..] L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. [..] Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il pubblico, per la verità."
Purtroppo ci son più Minzolini che Busi e anche questa lettera sarà presto dimenticata, mentre sugli schermi di mezza Italia continuerà ad apparire l'immagine irreale di un paese da nascondere. Purtroppo i Minzolini hanno sempre più potere delle Busi ed allora arrivano li', in apertura, a leggere parole dettate dal servilismo e dagli interessi personali mentre la tv trasmette la sua faccia menzognera, che per qualcuno magari rappresenta un'era e invece non è che l'ennesima sconfitta, per chi cosciente deve assistere con rabbia e chi incosciente assimila e sorride.
io vorrei non vorrei ma se vuoi
io vorrei sapere se davvero hanno ragione quelli che ci hanno già provato, quelli che son andati all'estero oltre l'autostrada trafficata che circonda questa città e la nostra televisione che urla parolacce stonate e spoglia corpi plastificati senza idee; non vorrei lasciare però gli amici necessari, la famiglia di sangue e pelle ed i luoghi che hanno sapore di memorie, dove c'è stato il primo bacio, dove abbiam marinato la scuola per la prima volta, dove mi son ubriacato quella notte confusa e tante altre prime volte dove è rimasta una parte di me; ma se vuoi che accetti tutto ciò, governo fatto d'interessi personali e situazione economica che stenta, assenza un po' ovunque di meritocrazia e quella mentalità del più furbo che vince, allora ecco, chiudo gli occhi e faccio il grande salto anch'io.
io vorrei restare qui nel mio paese e trovare un lavoro che mi faccia sentire realizzato, risparmiare qualcosa, comprarmi una casa ed un giorno avere una famiglia tutta mia; non vorrei dover pensare di andare all'estero, sentire per telefono mio nonno che invecchia inesorabilmente e perdermi gli ultimi anni della sua vita, gli ultimi sorrisi e quelle frasi dette già cento volte, ma cantilena dolce ed instancabile; ma se vuoi che continui nei miei sforzi senza fondi alla ricerca, con quelle liste di politici corrotti, quelle leggi personali e quei fantocci al telegiornale, allora ecco, non è tempo per eroi, voglio almeno averci provato, valigia, biglietto, areo: ciao.
io vorrei che nessuno provasse odio o disgusto verso il proprio paese, che nessuno rinnegasse la propria terra lasciandola un giorno in un'espressione amara e tornando soltanto periodicamente come turista con il vizio del giudizio; non vorrei ascoltare tutti quei paragoni e le classifiche dei migliori, agganciati ad una statistica con il gusto del disprezzo o la profonda rassegnazione di spalle crucciate quando l'argomento cade sul paese del sole e dell'arte; ma se vuoi che i miei sogni abbiano un senso e che li aiuti a divenire realtà, adesso lasciami andare, sono stufo d'aspettare, ho una vita da cambiare.
Ecco, non lo so se di questi o altri pensieri contorti, contraddizioni intrecciate o soltanto semplici constatazioni, verbi magari più leggeri o parole estremamente più dure, non lo so cosa avranno pensato, me lo immagino in un io vorrei, non vorrei, ma se vuoi ma se ne affollano troppi in mente, di combinazioni e compromessi altrui, e quello che rimane è solo una grande amarezza.
io vorrei restare qui nel mio paese e trovare un lavoro che mi faccia sentire realizzato, risparmiare qualcosa, comprarmi una casa ed un giorno avere una famiglia tutta mia; non vorrei dover pensare di andare all'estero, sentire per telefono mio nonno che invecchia inesorabilmente e perdermi gli ultimi anni della sua vita, gli ultimi sorrisi e quelle frasi dette già cento volte, ma cantilena dolce ed instancabile; ma se vuoi che continui nei miei sforzi senza fondi alla ricerca, con quelle liste di politici corrotti, quelle leggi personali e quei fantocci al telegiornale, allora ecco, non è tempo per eroi, voglio almeno averci provato, valigia, biglietto, areo: ciao.
io vorrei che nessuno provasse odio o disgusto verso il proprio paese, che nessuno rinnegasse la propria terra lasciandola un giorno in un'espressione amara e tornando soltanto periodicamente come turista con il vizio del giudizio; non vorrei ascoltare tutti quei paragoni e le classifiche dei migliori, agganciati ad una statistica con il gusto del disprezzo o la profonda rassegnazione di spalle crucciate quando l'argomento cade sul paese del sole e dell'arte; ma se vuoi che i miei sogni abbiano un senso e che li aiuti a divenire realtà, adesso lasciami andare, sono stufo d'aspettare, ho una vita da cambiare.
Ecco, non lo so se di questi o altri pensieri contorti, contraddizioni intrecciate o soltanto semplici constatazioni, verbi magari più leggeri o parole estremamente più dure, non lo so cosa avranno pensato, me lo immagino in un io vorrei, non vorrei, ma se vuoi ma se ne affollano troppi in mente, di combinazioni e compromessi altrui, e quello che rimane è solo una grande amarezza.
Playing in the street
A Bruxelles c'è chi lascia giocare i figli sotto casa, chi ci si aggrega e chi se li dipinge sulla facciata della casa... Foto scattata qui. |
Quando un'idea folle si scontra con l'immutabile
Così un gruppo di persone napoletane emigrate in Francia decide di tornare in Italia, in quella città da tanti maledetta, in quella Napoli lasciata tra contraddizioni e ricordi; e tornare con un progetto importante, con l'idea di poter migliorare le cose, in quella Scampia che mezzo mondo oramai conosce come teatro di crimini e governo di uno stato fatto d'omertà. Così un gruppo di persone napoletane che emigrando ha avuto la possibilità di emergere e dimostrare i propri valori, creando a Parigi la versione italiana di un giornale web, un sito di giornalismo collaborativo che vanta milioni di lettori, decide con impegno e buone idee di tornare a casa, ma non per la famiglia, il clima, il cibo e cento altri motivi, compromessi o lamentele con cui spesso gli italiani all'estero dipingono propri malumori o giustificano biglietti di ritorno; no, decidono di tornare per aiutare la propria terra, decidono di spostare l'intera redazione del giornale da Parigi a Scampia in quella che per molti potrebbe sembrare una pazzia e invece è un gesto d'amore. Così quel gruppo di napoletani chiede alle istituzioni campane di poter usufruire di una parte dei fondi del progetto europeo della Piazza telematica di Scampia con il proposito non solo di muovere l'intera redazione italiana del giornale, ma creare infrastrutture web tv e radio, realizzare corsi di giornalismo, creare posti di lavoro per i locali.
Poi però succede che quella Piazza telematica di Scampia dal 2004 non è mai stata utilizzata, ridotta col tempo a deposito di servizi comunali. Succede che quel gruppo di persone tenta in tutti i modi di smuovere le cose, riaccendere la luce in quella struttura terminata e mai decollata, ma quasi un anno non basta. Succede poi che nonostante inutili ricorsi del comune per trattenere in tutti i modi denaro mai speso, la Commissione UE chiede la restituzione dei fondi, chiede i 360mila euro mai utilizzati dal comune di Napoli per quella piazza e li chiede indietro. Così succede che quel progetto di quel gruppo di persone che volevano rientrare in patria per migliorare le cose, quel progetto follia Parigi-Scampia si scontra contro il muro dell'inefficienza, degli interessi privati e della volontà dell'immutabilità delle cose.
Storia di un tentativo di brain gain finito male, per alcuni. Storia dal principio appassionante e dalla fine per molti scontata, purtroppo. Troppo folle l'idea. "Il limite estremo della saggezza è ciò che la gente chiama pazzia" diceva Jean Cocteau. Ecco, troppo saggi quei ragazzi emigrati, in futuro meglio non azzaddarle certe pazzie.
Poi però succede che quella Piazza telematica di Scampia dal 2004 non è mai stata utilizzata, ridotta col tempo a deposito di servizi comunali. Succede che quel gruppo di persone tenta in tutti i modi di smuovere le cose, riaccendere la luce in quella struttura terminata e mai decollata, ma quasi un anno non basta. Succede poi che nonostante inutili ricorsi del comune per trattenere in tutti i modi denaro mai speso, la Commissione UE chiede la restituzione dei fondi, chiede i 360mila euro mai utilizzati dal comune di Napoli per quella piazza e li chiede indietro. Così succede che quel progetto di quel gruppo di persone che volevano rientrare in patria per migliorare le cose, quel progetto follia Parigi-Scampia si scontra contro il muro dell'inefficienza, degli interessi privati e della volontà dell'immutabilità delle cose.
Storia di un tentativo di brain gain finito male, per alcuni. Storia dal principio appassionante e dalla fine per molti scontata, purtroppo. Troppo folle l'idea. "Il limite estremo della saggezza è ciò che la gente chiama pazzia" diceva Jean Cocteau. Ecco, troppo saggi quei ragazzi emigrati, in futuro meglio non azzaddarle certe pazzie.
Brain drain: essere un danno e non saperlo
Insomma un giorno sulla tua bilancia dei compromessi qualcosa non va, qualcosa cambia, qualcosa inizia a pesare troppo da un lato o ci si accorge che su uno dei due piatti si potrebbe mettere qualcos'altro, non un peso magico, ma qualcosa di diverso, perché d'improvviso non è l'oscillazione dell'ago che influisce ma soltanto la voglia di scoprire, di guardare nuovi panorami e respirare ciò che li popola, parlare con chi li vive ogni giorno e condividere i propri, lasciarsi alle spalle qualche fantasma per un po' e cambiare aria senza i soliti cattivi umori, quelle espressioni di saturazione, di malcontento e spesso addirittura d'odio e senza gridare alla mancanza di meritocrazia e di mille e altri problemi.
Poi pero' un giorno per sbaglio leggi qualcosa, ne cerchi un'altra, e ti accorgi d'essere addirittura un danno per il tuo paese. Un danno? Ma come, tu che eri emigrato per seguire una tua avventura, uno stimolo di un ricciolo, senza odi ne' rancore, adesso sei addirittura un danno per il paese che hai lasciato?
La chiamano brain drain, quella famosa fuga dei cervelli, e parla anche di te anche se la tua non fu una fuga, di te e di tutti quelli che han usufruito di servizi che lo stato offre (scuole pubbliche, università pubbliche, borse di studio, etc.) e che grazie a quei servizi han acquisito delle conoscenze tecniche che pero' van poi ad offrire all'estero, emigrando, portando con se' quella frazione di valore di servizi utilizzati, quel costo, quella parte di capital flight, quello sforzo governativo che non viene compensato con un lavoro. La matematica e la statistica non si curano delle modalità e qualità di servizi offerti e nemmeno della situazione del mercato lavorativo, di meritocrazia o di qualsiasi altro argomento che vorresti ricordare, tanto meno dei tuoi umori, dei motivi che ti hanno spinto a partire: son cose di poco conto per certi numeri e allora sei calcolato come una parte del danno, un valore in più nel grafico del valore perduto.
Ed ecco come diventi un danno, tu emigrato all'estero in cerca di qualcosa, non importa cosa, se la zappa, il tridente, il rastrello, quella laurea e qualche altro beneficio bastano ad elencarti in quel fenomeno del brain drain.
Per fortuna Bondi o la Brambilla queste cose sicuramente non le sanno, altrimenti visto l'andazzo recente, non mi meraviglierei se si aggiungesse al tutto anche un altro mandato all'avvocatura dello Stato, così, giusto per completare la beffa.
Poi pero' un giorno per sbaglio leggi qualcosa, ne cerchi un'altra, e ti accorgi d'essere addirittura un danno per il tuo paese. Un danno? Ma come, tu che eri emigrato per seguire una tua avventura, uno stimolo di un ricciolo, senza odi ne' rancore, adesso sei addirittura un danno per il paese che hai lasciato?
La chiamano brain drain, quella famosa fuga dei cervelli, e parla anche di te anche se la tua non fu una fuga, di te e di tutti quelli che han usufruito di servizi che lo stato offre (scuole pubbliche, università pubbliche, borse di studio, etc.) e che grazie a quei servizi han acquisito delle conoscenze tecniche che pero' van poi ad offrire all'estero, emigrando, portando con se' quella frazione di valore di servizi utilizzati, quel costo, quella parte di capital flight, quello sforzo governativo che non viene compensato con un lavoro. La matematica e la statistica non si curano delle modalità e qualità di servizi offerti e nemmeno della situazione del mercato lavorativo, di meritocrazia o di qualsiasi altro argomento che vorresti ricordare, tanto meno dei tuoi umori, dei motivi che ti hanno spinto a partire: son cose di poco conto per certi numeri e allora sei calcolato come una parte del danno, un valore in più nel grafico del valore perduto.
Ed ecco come diventi un danno, tu emigrato all'estero in cerca di qualcosa, non importa cosa, se la zappa, il tridente, il rastrello, quella laurea e qualche altro beneficio bastano ad elencarti in quel fenomeno del brain drain.
Per fortuna Bondi o la Brambilla queste cose sicuramente non le sanno, altrimenti visto l'andazzo recente, non mi meraviglierei se si aggiungesse al tutto anche un altro mandato all'avvocatura dello Stato, così, giusto per completare la beffa.
Suddenly, a message
Belgio e burqa: pretese di diritti che si scontrano
Recentemente Belgio e burqa han creato più di un titolo sui giornali internazionali per una questione sicuramente delicata in cui si scontrano diritti che, a quanto pare, possono sembrar ragionevoli da ogni parte. Un mesetto fa una ragazza belga, Samia, ha inviato una lettera al principale quotidiano belga, Le Soir, per raccontare la sua esperienza personale in relazione al burqa e condividere le sue considerazione in materia di diritti della persona e libertà di scelte. Ve ne traduco di seguito alcune parti interessanti:
"Non sono né una teologa né una attivista. Sono una cittadina belga nata in Belgio 30 anni fa. Mia madre, belga, e il mio patrigno sono stati istruiti secondo principi atei. Solo dopo un percorso personale ho scelto di diventare musulmana. Da undici anni indosso un abito che nasconde il mio corpo ed il viso tranne gli occhi. È una scelta personale. Non lo considero un obbligo, ma come un tributo alla espressione della mia fede. [...]
Io non chiedo a nessuno di aderire alla scelta che ho fatto, chiedo soltanto di rispettarla, semplicemente. [...] Ci sono circostanze in cui mostrare la mia faccia sembra del tutto logico e normale, come quando occorre aggiornare la carta di identità o quando passo le frontiere, ecc. Si tratta di una questione di buon senso. Io non mi considero diversa per il sol fatto di indossare il velo. Tuttavia, non capisco come ciò possa comportare restrizioni alla mia libertà. [...] E' con dolore e tristezza che prendo atto della disparità di risorse e di tempo e lo sforzo fatto per limitare le libertà individuali ed i diritti fondamentali, soprattutto quanto ci si riferisce ad un numero molto limitato di persone. Questo avviene in un momento in cui la maggioranza dei nostri cittadini deve affrontare difficoltà e problemi di ben più ampie dimensioni."
I diritti reclamati da Samia sono gli stessi che hanno poi spinto Human Rights Watch ad alzare la voce non appena il parlamento belga qualche giorno fa ha approvato all'unanimità (un vero e proprio plebiscito direi: 136 voti favorevoli, 2 astenuti, 0 contrari) il divieto di circolare in spazi pubblici con il volto coperto o mascherato con qualsiasi capo d'abbigliamento che non renda identificabili, da cui ovviamente ne deriva il divieto di burqa e niqāb. Dal canto loro, i politici rilanciano la campagna per i diritti delle donne, perché il burqa rappresenta un controllo inaccettabile della sessualità e della propria identità, orgogliosi di lanciarsi a prima nazione in Europa ad approvare un tale cambiamento. Diritti che si scontrano con i diritti di religione e libertà d'espressione secondo Amnesty International. Insomma, chi ha ragione? Burqa si' o burqa no?
Le preoccupazioni sulla sicurezza negli ambienti pubblici potrebbero sembrare ragionevoli almeno per giustificare l'esistenza dei tanti sistemi di sorveglianza presenti nella metro, poste, banche, bancomat ed in tanti altri luoghi di vita quotidiana, il cui scopo verrebbe enormemente compromesso non potendo identificare un individuo (e con un casco da motociclista o un burqa risulterebbe molto difficile); e come afferma un opinionista del NYT, siamo liberi fin tanto che siamo individui responsabili che possono essere accusati (leggi, identificati) per le proprie azioni davanti ai nostri simili. Tutto il polverone però sembra esagerato a molti, per via dei problemi ben più gravi cui la nazione deve rispondere e considerando le statistiche inesistenti di reati legati al burqa e addirittura la presenza di tali pratiche in Belgio: in un anno a Bruxelles avrò visto non più di 5 donne con il burqa in giro per il centro (certo, non posso assicurare che siano state sempre diverse, per ovvi motivi, ma sicuramente la loro frequenza è più elevata in altre zone della città); la BBC addirittura stima che non siamo più di 30 le donne che indossino il burqa in tutto il Belgio. Quindi un provvedimento del tutto simbolico? In nome dei diritti delle donne? O di una incombente necessità di sicurezza? Paura di un'Eurabia o tentativo di accaparrarsi i consensi più estremisti?
Di tutto e di niente. Se davvero è cosi' ristretto il numero di burqa, sarebbe stato più sensato creare servizi sociali, di integrazione, di supporto, addirittura di dialoghi individuali nel nome dei diritti della donna, non di certo il proibizionismo che non risolve affatto la questione, anzi ne crea un'altra: la ghettizzazione. Pensare che quelle donne d'improvviso cambino idea e si adattino alla gente è alquanto sciocco; la conseguenza immediata è vederle relegate in casa. Se davvero il tasso di criminalità è cosi' alto da giustificare un provvedimento del genere, non si risolve molto con questo divieto ne' si colpiscono alcune tipologie ben determinate di crimini. Se si voleva rubare l'esclusiva europea di una tale norma ai cugini francesi (che dal 2004 già lo vietano in tutte le scuole pubbliche), sarebbe stato meglio provarci in condizioni di governo normali e non nel bel mezzo dell'ennesima crisi di identità.
Intanto la polemica continua ed i diritti diametralmente opposti difficilmente troveranno punti d'incontro.
"Non sono né una teologa né una attivista. Sono una cittadina belga nata in Belgio 30 anni fa. Mia madre, belga, e il mio patrigno sono stati istruiti secondo principi atei. Solo dopo un percorso personale ho scelto di diventare musulmana. Da undici anni indosso un abito che nasconde il mio corpo ed il viso tranne gli occhi. È una scelta personale. Non lo considero un obbligo, ma come un tributo alla espressione della mia fede. [...]
Io non chiedo a nessuno di aderire alla scelta che ho fatto, chiedo soltanto di rispettarla, semplicemente. [...] Ci sono circostanze in cui mostrare la mia faccia sembra del tutto logico e normale, come quando occorre aggiornare la carta di identità o quando passo le frontiere, ecc. Si tratta di una questione di buon senso. Io non mi considero diversa per il sol fatto di indossare il velo. Tuttavia, non capisco come ciò possa comportare restrizioni alla mia libertà. [...] E' con dolore e tristezza che prendo atto della disparità di risorse e di tempo e lo sforzo fatto per limitare le libertà individuali ed i diritti fondamentali, soprattutto quanto ci si riferisce ad un numero molto limitato di persone. Questo avviene in un momento in cui la maggioranza dei nostri cittadini deve affrontare difficoltà e problemi di ben più ampie dimensioni."
I diritti reclamati da Samia sono gli stessi che hanno poi spinto Human Rights Watch ad alzare la voce non appena il parlamento belga qualche giorno fa ha approvato all'unanimità (un vero e proprio plebiscito direi: 136 voti favorevoli, 2 astenuti, 0 contrari) il divieto di circolare in spazi pubblici con il volto coperto o mascherato con qualsiasi capo d'abbigliamento che non renda identificabili, da cui ovviamente ne deriva il divieto di burqa e niqāb. Dal canto loro, i politici rilanciano la campagna per i diritti delle donne, perché il burqa rappresenta un controllo inaccettabile della sessualità e della propria identità, orgogliosi di lanciarsi a prima nazione in Europa ad approvare un tale cambiamento. Diritti che si scontrano con i diritti di religione e libertà d'espressione secondo Amnesty International. Insomma, chi ha ragione? Burqa si' o burqa no?
Le preoccupazioni sulla sicurezza negli ambienti pubblici potrebbero sembrare ragionevoli almeno per giustificare l'esistenza dei tanti sistemi di sorveglianza presenti nella metro, poste, banche, bancomat ed in tanti altri luoghi di vita quotidiana, il cui scopo verrebbe enormemente compromesso non potendo identificare un individuo (e con un casco da motociclista o un burqa risulterebbe molto difficile); e come afferma un opinionista del NYT, siamo liberi fin tanto che siamo individui responsabili che possono essere accusati (leggi, identificati) per le proprie azioni davanti ai nostri simili. Tutto il polverone però sembra esagerato a molti, per via dei problemi ben più gravi cui la nazione deve rispondere e considerando le statistiche inesistenti di reati legati al burqa e addirittura la presenza di tali pratiche in Belgio: in un anno a Bruxelles avrò visto non più di 5 donne con il burqa in giro per il centro (certo, non posso assicurare che siano state sempre diverse, per ovvi motivi, ma sicuramente la loro frequenza è più elevata in altre zone della città); la BBC addirittura stima che non siamo più di 30 le donne che indossino il burqa in tutto il Belgio. Quindi un provvedimento del tutto simbolico? In nome dei diritti delle donne? O di una incombente necessità di sicurezza? Paura di un'Eurabia o tentativo di accaparrarsi i consensi più estremisti?
Di tutto e di niente. Se davvero è cosi' ristretto il numero di burqa, sarebbe stato più sensato creare servizi sociali, di integrazione, di supporto, addirittura di dialoghi individuali nel nome dei diritti della donna, non di certo il proibizionismo che non risolve affatto la questione, anzi ne crea un'altra: la ghettizzazione. Pensare che quelle donne d'improvviso cambino idea e si adattino alla gente è alquanto sciocco; la conseguenza immediata è vederle relegate in casa. Se davvero il tasso di criminalità è cosi' alto da giustificare un provvedimento del genere, non si risolve molto con questo divieto ne' si colpiscono alcune tipologie ben determinate di crimini. Se si voleva rubare l'esclusiva europea di una tale norma ai cugini francesi (che dal 2004 già lo vietano in tutte le scuole pubbliche), sarebbe stato meglio provarci in condizioni di governo normali e non nel bel mezzo dell'ennesima crisi di identità.
Intanto la polemica continua ed i diritti diametralmente opposti difficilmente troveranno punti d'incontro.
Gothic atmosphere
Particolare della cattedrale di Saints Michel et Gudule qui a Bruxelles. Foto scattata qui. |
Iscriviti a:
Post (Atom)