Sei all'estero, in ufficio, sono le 11 eppure hai bisogno della luce artificiale perché quella naturale non è abbastanza, pur essendo primavera, guardi la finestra e fuori c'è un grigiore esteso che abbassa i tuoi livelli d'allegria, inizia a piovere, di nuovo, per l'ennesima volta, ed ecco che sta per venir fuori, in modo quasi spontaneo e un po' liberatorio, il commento, la battuta, il lamento o la constatazione amichevole della tua meteorologia sfasata. Aspetta. Non lo fare. Trattieni. Prima controlla che:
1. Lo dici non per lamentarti ma perché vuoi soltanto dire qualcosa, in realtà non hai nulla da dire, ma per rompere il silenzio, per apparire simpatico o semplicemente per prenderti una pausa di qualche minuto, sei lì a ricordare a tutti che il tempo è una merda, ma allora perché non dire qualcosa di più originale?
2. Pensa al collega a fianco, è belga/irlandese/tedesco/eschimese, se lo sente dire da tutti gli stranieri almeno una volta al giorno, che il tempo è una merda: immagina che palle. Immaginati, per un attimo, in Italia con colleghi stranieri (colleghi stranieri, in Italia?) che si lamentano ogni giorno della politica, della corruzione o dell'assuefazione a una certa inciviltà. Ecco, hai capito.
3. Lo dici perché meravigliato di questo tempo, di merda. Davvero? Non te lo aspettavi un tempo così nel nord Europa? Pensavi alle città del nord Europa con il sole 9 mesi l'anno? Non lo sapevi che l'estate è maggio e che agosto è tra i mesi più piovosi dell'anno o che ad ogni modo è uno dei compromessi da digerire? Aspetta, pensavi anche di trovare un leprecanto alla fine dell'arcobaleno con il vaso colmo d'oro?
4. Hai sbirciato il tempo che fa in Italia e ovviamente ci sono quei 10 gradi in più che non ti cambiano la vita ma rallegrano l'umore. Perché lo hai fatto? Ti sfiora anche l'idea dei confronti, della qualità apportata dal tempo, un certo orgoglio di venire dal paese del sole ti solletica il sorriso. Perché non ci torni?
5. Pensa che la pioggia è poesia, puoi farcela. Coraggio.
In una tazza di caffè
Il ragazzo maltese si presenta alla porta dell'ufficio con in mano l'oggetto tanto atteso, una caffettiera piccola ma pregiata, e non tutti capiscono il segnale, perché la macchinetta del caffè è il simbolo della setta creatasi in tempi arcani, e lui, il collega maltese, quasi non dice una parola, mentre tu lasci la scrivania d'impegni e finzioni insieme al ragazzo spagnolo, silenziosi. Poi alla prossima porta, di nuovo, la macchinetta del caffè quasi non si vede, ma gli occhi attenti capiscono il segnale, ed ecco che il ragazzo polacco e quello austriaco vi seguono. Nel corridoio in fila indiana, tutti dietro al ragazzo maltese, incomincia la processione con in testa il totem tanto venerato, l'oggetto che libera le papille gustative dalle torture degli intrugli vomitati dal distributore meccanico, lì, nell'atrio, il totem che diffonde quell'odore che sveglia olfatto e sorrisi persi tra le eco di tastiere stonate e monitor inerti.
Quasi senza dir una parola, i membri della setta giungono nella cucina al piano di sotto, dove ritrovano la ragazza belga e quella svedese. E il rito ha inizio. Il ragazzo maltese, proprietario dell'unica caffettiera in quell'ammasso di cemento e vetri, procede alla preparazione minuziosa del caffè e c'è sempre chi lo osserva con gli occhi da bambino, chi ne segue ogni gesto curioso, anche il più elementare, nell'attesa di ricevere la propria dose quotidiana di caffeina raffinata, felice di non rassegnarsi ai rumori metallici e al segnale poco poetico del distributore dell'atrio, ancora una volta. Tu in realtà non dovresti far parte della setta, perché il caffè non lo bevi quasi mai, da quando vivi all'estero, non perché intento a spogliarti d'italianità supposte, ma per la mancanza di un rito, in tanti anni, come quello a cui assisti in quel momento, mentre lei, la caffettiera, inizia a riscaldarsi non solo delle fiamme piccole però numerose del fornello, ma anche e soprattutto di quel momento sociale, di quella tribù quasi segreta di bisognosi di una pausa aromatizzata. Il collega maltese scambia con te qualche parola in italiano, prima di tornare alla sua lingua abituale, l'inglese, un po' per rispetto verso gli altri, un po' perché preferisce così, dice, nella paura di sbagliare. I suoi lineamenti arabi quasi ti confondono, lui che potrebbe essere italiano quanto te, proveniente da un'isola geograficamente più vicina anche di Lampedusa, ma con altra bandiera, altra cultura, altra patria, teoricamente molto più vicino a te della collega belga, eppure avvolto da una misteriosa ignoranza, l'ignoranza di chi ha vissuto anni senza mai dover saper nulla di quell'isola, quasi come se non esistesse, dove però si parla anche la tua lingua e c'è tutto un mondo di connessioni da scoprire.
Quando domandi della cremina, noti lo sguardo interrogativo dei membri della setta e ne decifri mancanze inammissibili. Veloce prendi un bicchiere di plastica e lo riempi di qualche cucchiaino di zucchero, aspetti paziente le prime gocce di nettare nero ed inizi a sbattere forte fino ad avere una crema che in effetti non riesce mai come volevi, ma poco importa, perché tutti son lì ad osservarti curiosi, intenti a scoprire cosa possa mai celarsi dietro quell'eccezione al rito. Quando sciogli un cucchiaino di crema nella tazza del ragazzo maltese, quasi ti guarda con ammirazione, con gli occhi di chi ha scoperto terra dopo mesi di navigazione sofferta, con l'espressione di chi ha ricevuto un gelato dopo ore di giochi al parco, quello strato sottile di schiuma marroncina che si crea sulla superficie del suo caffè, quasi fosse al bar italiano in un giorno di vacanza a Napoli, riempie di gioia il suo sorso ad occhi chiusi. Non è più caffè, è quasi amore.
La collega svedese sorride quasi condividendo un imbarazzo, che lei, quella scena, quegli occhi chiusi e un po' tutto quel rito, lo trova sì simpatico ma senza esagerazioni, altrimenti si rischia di cadere nel ridicolo, lascia intendere. Attenta però a sottovalutare una tazza di caffè, ragazza svedese, perché una tazza di caffè può essere anche amore, sai? Ti racconto una storia d'amore e caffè, ragazza svedese. C'era una volta un uomo che amava una donna, ma lei, la donna tanto desiderata, era sempre ostile, diremmo quasi amara. Ma l'uomo sapeva che dietro quelle ostilità c'era una dolcezza da scoprire, dello zucchero da assaporare. E proprio come tu adesso, ragazza svedese, stai girando quel cucchiaino per mescolare lo zucchero sul fondo della tazza, così quell'uomo sapeva bene che provando e riprovando, che continuando e perseverando, avrebbe trovato sotto quell'apparenza amara della dolcezza, anche in quella donna, e che lo zucchero sarebbe potuto arrivare finalmente alla sue labbra.
Ecco, ragazza svedese, perché non bisogna sminuire una tazza di caffè, che può essere un rito, una delizia o semplicemente dell'acqua nera. Poi, ti fermi un attimo e ci scopri una poesia, se c'è chi lo prepara con una caffettiera, chi ancora lavora alla cremina e chi poi ti racconta storie d'amore e caffè.
Quasi senza dir una parola, i membri della setta giungono nella cucina al piano di sotto, dove ritrovano la ragazza belga e quella svedese. E il rito ha inizio. Il ragazzo maltese, proprietario dell'unica caffettiera in quell'ammasso di cemento e vetri, procede alla preparazione minuziosa del caffè e c'è sempre chi lo osserva con gli occhi da bambino, chi ne segue ogni gesto curioso, anche il più elementare, nell'attesa di ricevere la propria dose quotidiana di caffeina raffinata, felice di non rassegnarsi ai rumori metallici e al segnale poco poetico del distributore dell'atrio, ancora una volta. Tu in realtà non dovresti far parte della setta, perché il caffè non lo bevi quasi mai, da quando vivi all'estero, non perché intento a spogliarti d'italianità supposte, ma per la mancanza di un rito, in tanti anni, come quello a cui assisti in quel momento, mentre lei, la caffettiera, inizia a riscaldarsi non solo delle fiamme piccole però numerose del fornello, ma anche e soprattutto di quel momento sociale, di quella tribù quasi segreta di bisognosi di una pausa aromatizzata. Il collega maltese scambia con te qualche parola in italiano, prima di tornare alla sua lingua abituale, l'inglese, un po' per rispetto verso gli altri, un po' perché preferisce così, dice, nella paura di sbagliare. I suoi lineamenti arabi quasi ti confondono, lui che potrebbe essere italiano quanto te, proveniente da un'isola geograficamente più vicina anche di Lampedusa, ma con altra bandiera, altra cultura, altra patria, teoricamente molto più vicino a te della collega belga, eppure avvolto da una misteriosa ignoranza, l'ignoranza di chi ha vissuto anni senza mai dover saper nulla di quell'isola, quasi come se non esistesse, dove però si parla anche la tua lingua e c'è tutto un mondo di connessioni da scoprire.
Quando domandi della cremina, noti lo sguardo interrogativo dei membri della setta e ne decifri mancanze inammissibili. Veloce prendi un bicchiere di plastica e lo riempi di qualche cucchiaino di zucchero, aspetti paziente le prime gocce di nettare nero ed inizi a sbattere forte fino ad avere una crema che in effetti non riesce mai come volevi, ma poco importa, perché tutti son lì ad osservarti curiosi, intenti a scoprire cosa possa mai celarsi dietro quell'eccezione al rito. Quando sciogli un cucchiaino di crema nella tazza del ragazzo maltese, quasi ti guarda con ammirazione, con gli occhi di chi ha scoperto terra dopo mesi di navigazione sofferta, con l'espressione di chi ha ricevuto un gelato dopo ore di giochi al parco, quello strato sottile di schiuma marroncina che si crea sulla superficie del suo caffè, quasi fosse al bar italiano in un giorno di vacanza a Napoli, riempie di gioia il suo sorso ad occhi chiusi. Non è più caffè, è quasi amore.
La collega svedese sorride quasi condividendo un imbarazzo, che lei, quella scena, quegli occhi chiusi e un po' tutto quel rito, lo trova sì simpatico ma senza esagerazioni, altrimenti si rischia di cadere nel ridicolo, lascia intendere. Attenta però a sottovalutare una tazza di caffè, ragazza svedese, perché una tazza di caffè può essere anche amore, sai? Ti racconto una storia d'amore e caffè, ragazza svedese. C'era una volta un uomo che amava una donna, ma lei, la donna tanto desiderata, era sempre ostile, diremmo quasi amara. Ma l'uomo sapeva che dietro quelle ostilità c'era una dolcezza da scoprire, dello zucchero da assaporare. E proprio come tu adesso, ragazza svedese, stai girando quel cucchiaino per mescolare lo zucchero sul fondo della tazza, così quell'uomo sapeva bene che provando e riprovando, che continuando e perseverando, avrebbe trovato sotto quell'apparenza amara della dolcezza, anche in quella donna, e che lo zucchero sarebbe potuto arrivare finalmente alla sue labbra.
Ecco, ragazza svedese, perché non bisogna sminuire una tazza di caffè, che può essere un rito, una delizia o semplicemente dell'acqua nera. Poi, ti fermi un attimo e ci scopri una poesia, se c'è chi lo prepara con una caffettiera, chi ancora lavora alla cremina e chi poi ti racconta storie d'amore e caffè.
Bruxelles
3 anni a Bruxelles, celebriamoli con un disegno che mi ha tenuto impegnato un bel po' di tempo, chi legge il blog dall'inizio o quasi, probabilmente riconoscerà la città pur non essendoci mai stato, ma in fondo Bruxelles non è neanche questa, in continua contraddizione ed evoluzione, un po' come queste pagine virtuali insomma. |
Fugacemente importanti
Quindi, c'è questo flusso di ragazzi e meno ragazzi che da tempo ormai va via dall'Italia e ci sono statistiche, numeri e dati da sparare in titoloni e polemiche a seconda del messaggio o della voglia di protagonismo, e loro, i dati, non sono mai semplici numeri ma colonne, torte e grafici da mettere a confronto, illuminare sotto una luce diversa e leggere in un certo modo, il loro modo. Ed ecco che se una volta sono ragazzi dai piedi leggeri da lodare e romanzare, un'altra diventano lo strumento attraverso il quale criticare ed accusare, per trasformarsi poi in acclamati eroi salvatori della patria o addirittura in consulenti a distanza auspicando un ritorno di quell'investimento educativo e strutturale fatto come paese sui loro cervelli. Già, perché sono cervelli in fuga, dicono, e c'hanno tartassato con questa etichetta, trasformandola in stereotipo e dimenticando che spesso ci sono anche neuroni mancanti, abusando dell'espressione ma discriminando poi quando si arriva al punto cruciale: al governo, ai giornali, alla tanto decantata patria, non interessa molto dell'italiano emigrato a Londra e finito a far il cameriere né dell'altro andato ad Amsterdam impegnato in complessi calcoli da commercialista, tanto meno interessa loro dell'emigrata in America che fa la segretaria in carriera o dell'altro in Australia che si è aperto una gelateria, se pur con sforzi e sacrifici, con il pensiero alla casa lontana e qualche gusto amaro in gola. Certo, i loro wall su facebook magari son pieni di foto bellissime e si spera abbiano trovato tutti un equilibrio, un sorriso, altrove, ma sbagliano se si identificano anche loro nei cervelli in fuga, solo perché materialmente in fuga e coscienti possessori di un cervello. Siamo numeri, per i giornalisti in cerca del pezzo da riempire o in mano al politico che deve vendere la sua frase ad effetto. Niente più.
Poi però, quando si parla (ah, che bella utopia) di ripescare gli espatriati per creare una nuova classe politica e dirigente per ricostruire il paese o si pensa ad una rete di cervelli per sfruttare in qualche modo le capacità di italiani emigrati (diabolico genio italico), si parla di dati e percentuali e flussi in uscita ma in realtà si pensa a pochi ma buoni, ai cervelloni in fuga, quasi fosse una discriminazione sulle capacità acquisite altrove (e grazie a servizi e infrastrutture offerte altrove) o come se per la patria siano più importanti certi italiani all'estero e non gli altri, la massa, che pur serve per i periodici titoloni (e a niente più). Non ti esaltare allora, tu italiano all'estero, che leggi l'articolo sui cervelli in fuga, che leggi di progetti e ti senti quasi citato, lo condividi con gli amici, ne parli in pausa pranzo, perché il più delle volte si usa la categoria ma probabilmente tu non sei il target; lo so, ti si gonfia un po' il petto, è la patria che ti chiama - pensi - è la patria che ti accarezza, ma dietro la maschera di patria c'è il politico il turno o il giornalista frettoloso che non pensava a te in quella frase o nella parola in grassetto (e forse è meglio così). Né probabilmente i veri target sarebbero disposti a rompere equilibri e soddisfazioni create altrove e sacrificare tutto in nome della patria, come se bastasse qualche promessa o qualche cifra in più a fine mese per lasciar tutto e rientrare, eroi salvatori, geni incompresi ma finalmente accolti a braccia aperte. E che braccia.
Poi però, quando si parla (ah, che bella utopia) di ripescare gli espatriati per creare una nuova classe politica e dirigente per ricostruire il paese o si pensa ad una rete di cervelli per sfruttare in qualche modo le capacità di italiani emigrati (diabolico genio italico), si parla di dati e percentuali e flussi in uscita ma in realtà si pensa a pochi ma buoni, ai cervelloni in fuga, quasi fosse una discriminazione sulle capacità acquisite altrove (e grazie a servizi e infrastrutture offerte altrove) o come se per la patria siano più importanti certi italiani all'estero e non gli altri, la massa, che pur serve per i periodici titoloni (e a niente più). Non ti esaltare allora, tu italiano all'estero, che leggi l'articolo sui cervelli in fuga, che leggi di progetti e ti senti quasi citato, lo condividi con gli amici, ne parli in pausa pranzo, perché il più delle volte si usa la categoria ma probabilmente tu non sei il target; lo so, ti si gonfia un po' il petto, è la patria che ti chiama - pensi - è la patria che ti accarezza, ma dietro la maschera di patria c'è il politico il turno o il giornalista frettoloso che non pensava a te in quella frase o nella parola in grassetto (e forse è meglio così). Né probabilmente i veri target sarebbero disposti a rompere equilibri e soddisfazioni create altrove e sacrificare tutto in nome della patria, come se bastasse qualche promessa o qualche cifra in più a fine mese per lasciar tutto e rientrare, eroi salvatori, geni incompresi ma finalmente accolti a braccia aperte. E che braccia.
Quando torni
E quanto torni? Domanda il conoscente, come se fosse naturale tornare, dopo un po', dopo qualche anno, come se fosse scontato, ovvio, non potrebbe essere diversamente, come se fosse un'obbligazione, un imperativo legato indissolubilmente all'esser nati in quel paese e dove quindi si debba ritornare, quasi un mantra inevitabile, altrimenti etichettati come infedeli, disertori, vigliacchi o egoisti. Quando torni è per il conoscente la domanda consueta, sotto la quale difendersi da eventuali confronti, sotto la quale nascondere silenzi interminabili, dietro la quale aleggiare giudizi stereotipati o semplicemente l'ingenua leggerezza di una conclusione spensierata.
Allora, quando torni? Domanda l'amico, spinto dall'inesauribile affetto, che non può trattenere, che non sa nascondere, nella voglia di condividere ancora tanto insieme, nei ricordi d'avventure trascorse che si potrebbero ripetere, non si ripeteranno, nell'amarezza di conoscere già la risposta e grazie al tempo che costruisce abitudini e scolpisce consapevolezze, ma non come fosse un castigo, non come se fossi costretto altrove dalla crisi godzilliana, da un lavoro incomparabile o imprigionato in uno schema conseguenza di una partenza lontana. E quasi preferisce che non torni, l'amico, ché c'è piacere anche a viverla così, l'amicizia a distanza, in ritorni concentrati in cui si salta insieme nel passato, come se gli anni fossero segnati soltanto in qualche ruga ed in gran parte marcata dai sorrisi.
Ma torni? Domanda la nonna, che voleva soltanto vederti a pranzo da lei, osservarti mangiare quello che lei avrebbe preparato con tanta cura, come sempre, inconfondibilmente uguale ma puntualmente inimitabile, come pegno del suo amore sanguigno, per sfamarti, come quando eri piccolo, come se il tempo non fosse passato, in un egoismo temporaneo averti lì, ancora un po', ancora bisognoso di una carezza, un ritornello memorizzato, un intercalare necessario. Ma torni? è la domanda che inumidisce gli occhi, alla nonna, conoscendo già la risposta, preparando già l'ennesimo saluto, cercando di canalizzare sentimenti in contrasto e lasciarti partire, ancora una volta.
Non lo sa il conoscente né probabilmente gli importa, lo sa bene l'amico che ti saluta col sorriso e se n'è convinta la nonna che ha digerito una speranza iniziale, che non torni perché sei felice dove sei, tutto qua.
Allora, quando torni? Domanda l'amico, spinto dall'inesauribile affetto, che non può trattenere, che non sa nascondere, nella voglia di condividere ancora tanto insieme, nei ricordi d'avventure trascorse che si potrebbero ripetere, non si ripeteranno, nell'amarezza di conoscere già la risposta e grazie al tempo che costruisce abitudini e scolpisce consapevolezze, ma non come fosse un castigo, non come se fossi costretto altrove dalla crisi godzilliana, da un lavoro incomparabile o imprigionato in uno schema conseguenza di una partenza lontana. E quasi preferisce che non torni, l'amico, ché c'è piacere anche a viverla così, l'amicizia a distanza, in ritorni concentrati in cui si salta insieme nel passato, come se gli anni fossero segnati soltanto in qualche ruga ed in gran parte marcata dai sorrisi.
Ma torni? Domanda la nonna, che voleva soltanto vederti a pranzo da lei, osservarti mangiare quello che lei avrebbe preparato con tanta cura, come sempre, inconfondibilmente uguale ma puntualmente inimitabile, come pegno del suo amore sanguigno, per sfamarti, come quando eri piccolo, come se il tempo non fosse passato, in un egoismo temporaneo averti lì, ancora un po', ancora bisognoso di una carezza, un ritornello memorizzato, un intercalare necessario. Ma torni? è la domanda che inumidisce gli occhi, alla nonna, conoscendo già la risposta, preparando già l'ennesimo saluto, cercando di canalizzare sentimenti in contrasto e lasciarti partire, ancora una volta.
Non lo sa il conoscente né probabilmente gli importa, lo sa bene l'amico che ti saluta col sorriso e se n'è convinta la nonna che ha digerito una speranza iniziale, che non torni perché sei felice dove sei, tutto qua.
Quanto sei pericolosa, Bruxelles
Si torna a parlare di criminalità a Bruxelles, negli ultimi giorni, dopo lo spiacevole evento di sabato, con il supporto di qualche statistica eclatante. Cosa è successo: un supervisore dei trasporti pubblici è stato linciato a morte dopo un diverbio scoppiato a causa di un incidente tra un autobus ed un'automobile. Fatti di cronaca, che purtroppo possono accadere un po' ovunque, ma che qui hanno scatenato scioperi e discussioni infinite che pur simbolizzano qualcosa: l'intolleranza alla violenza, la non abitudine a certi eventi, la voglia di evitare che si ripeti. Certo, quasi cinque giorni di fila con tutti i servizi di trasporto pubblico bloccati in una capitale europea, beh è certamente esagerato, senza fornire un servizio minimo e confermando ancora una volta la forza impressionante dei sindacati in Belgio, però si è riusciti nello scopo di scuotere l'opinione pubblica e centralizzare l'attenzione. Sebbene certe richieste non risolverebbero affatto il problema (come piazzare agenti alle fermate di metro e tram o installare telecamere ovunque), si è continuato nell'interruzione dei servizi ed il dialogo sulla criminalità nella capitale si è riaperto. Se per Le Soir, maggiore testate (francofona) belga, qualche mese fa si trattava più di una percezione che di reale pericolosità della città, adesso si sventola l'ultima statistica da titolone: Bruxelles sarebbe la quinta capitale più pericolosa d'Europa. Esagerazione? La percezione di chi ci vive direbbe di sì, è un'esagerazione clamorosa dell'ennesima classifica da prendere con le pinze, il dato dell'aumento del 3% dei crimini in Belgio negli ultimi anni rimane comunque un dato ed in quanto tale difficilmente negabile. Nella classifica stilata si vedono città dell'est Europa al top (Vilnius e Tallin) ma al seguito altre apparentemente non da top10 della criminalità, eppure Lussemburgo, Amsterdam, Bruxelles e Dublino riempiono le prime dieci, evidenziando Madrid e Roma tra le più sicure. Certo, si parla di capitali e non di città in generale, ecco perché dalla lista non sbucano le varie Glasgow, Marsiglia o Napoli, ma basta e avanza a scatenare di nuovo il dibattito, infuocato dalla cronaca recente.
Altri dati parlano chiaro: mentre la criminalità sembra in diminuzione un po' ovunque in Europa, in Belgio è in controtendenza crescente. Certo, da non interpretare come una città di furti, violenze o coprifuochi, ma nemmeno come lo stereotipo surreale di una città del nord fatta d'ordine e pulizia, sicurezza e sorrisi: i quartieri malfamati esistono qui come un po' ovunque e la crescita della popolazione ha sconvolto diversi equilibri negli ultimi anni, ma all'italiano pronto ad emigrare all'estero con Bruxelles come destinazione non direi mai di spaventarsi, di portare la tuta da Rambo o l'assicurazione sulle vita obbligatoria: si chiama città, nel 2012, cos'altro bisogna sapere?
L'editoriale di ieri de Le Soir parla abbastanza chiaramente: ma sì, come in tutte le altri grandi città, le relazioni si son tese, l'aggressività si è installata, la violenza si è impiantata. E questi conduttori, supervisori, controllori della Stib (ndb. la società di trasporti a Bruxelles) che sono costretti a passare nei quartieri difficili, ad ore sensibili, che non hanno la scelta d'evitarli, subiscono l'evoluzione di una città in piena mutazione. Ma, inoltre, li si raccoglie sul fondo del boom demografico (200.000 abitanti in piu in 10 anni senza contare i flussi migratori concentrati sulla nostra capitale), la crisi economica (35% di disoccupati in alcuni quartieri) e le difficoltà dei finanziamenti (malgrado alcuni aiuti). Non è facile, in questo contesto, di lotta contro la frattura sociale, recuperare dei gruppi ed alcuni quartieri alla deriva, migliorare la sicurezza, l'insegnamento, la mobilità, la qualità della vita. E no che non è facile, ma la consapevolezza e le intenzioni sono chiare. I fatti, poi, ci daranno le conclusioni, come sempre.
Altri dati parlano chiaro: mentre la criminalità sembra in diminuzione un po' ovunque in Europa, in Belgio è in controtendenza crescente. Certo, da non interpretare come una città di furti, violenze o coprifuochi, ma nemmeno come lo stereotipo surreale di una città del nord fatta d'ordine e pulizia, sicurezza e sorrisi: i quartieri malfamati esistono qui come un po' ovunque e la crescita della popolazione ha sconvolto diversi equilibri negli ultimi anni, ma all'italiano pronto ad emigrare all'estero con Bruxelles come destinazione non direi mai di spaventarsi, di portare la tuta da Rambo o l'assicurazione sulle vita obbligatoria: si chiama città, nel 2012, cos'altro bisogna sapere?
L'editoriale di ieri de Le Soir parla abbastanza chiaramente: ma sì, come in tutte le altri grandi città, le relazioni si son tese, l'aggressività si è installata, la violenza si è impiantata. E questi conduttori, supervisori, controllori della Stib (ndb. la società di trasporti a Bruxelles) che sono costretti a passare nei quartieri difficili, ad ore sensibili, che non hanno la scelta d'evitarli, subiscono l'evoluzione di una città in piena mutazione. Ma, inoltre, li si raccoglie sul fondo del boom demografico (200.000 abitanti in piu in 10 anni senza contare i flussi migratori concentrati sulla nostra capitale), la crisi economica (35% di disoccupati in alcuni quartieri) e le difficoltà dei finanziamenti (malgrado alcuni aiuti). Non è facile, in questo contesto, di lotta contro la frattura sociale, recuperare dei gruppi ed alcuni quartieri alla deriva, migliorare la sicurezza, l'insegnamento, la mobilità, la qualità della vita. E no che non è facile, ma la consapevolezza e le intenzioni sono chiare. I fatti, poi, ci daranno le conclusioni, come sempre.
Let your Italian out, ma anche no
Spot della Fiat 500 per gli US, giocando sullo stereotipo un po' cafone
per stimolare le vendite certo non da record. Ma Marchionne si riferiva
a questo quando parlava di rispetto reciproco?
Never again
Trasporti chiusi a Bruxelles per 3 giorni. Un addetto della Stib è stato linciato in seguito ad una lite scoppiata a causa di un incidente tra un autobus ed un'auto. Cose da capitale, ma anche no, non si accetta un tale assassinio e si cercherà di trovare una soluzione affinché non accada mai più in futuro (sì, ma come?). Foto scattata qui. |
Estetismi metropolitani
Bella la metro, quando entra la ragazza curate e disinvolta e passando a pochi centimetri lascia sul tuo naso una dolce scia di profumo e leggerezza. Brutta la metro, quando entra il signore barbuto e passando a pochi centimetri lascia sul tuo naso odori forti di strada e vagabondaggi. Bella la metro, quando il ragazzino si nasconde dietro le gambe del padre e ti fa un sorriso, una smorfia, e tutto intorno illumina contagioso. Brutta la metro, quando il ragazzino porge il bicchiere in cerca di qualche spicciolo e ripete parole memorizzate, litanie, e tutto intorno per un attimo gela silenzioso. Bella la metro, quando ti siedi senza troppa confusione e di fronte a te c'è il signore distinto che legge un libro, dai sempre una sbirciata al titolo come fosse la sua presentazione agli altri e quasi lo invidi in quella sua immersione alienante. Brutta la metro, quando rimani in piedi tra gambe e braccia e davanti a te c'è il ragazzo che ascolta musica dal cellulare, obbligando tutti intorno a quel rumore di ferraglia e grida, forte del suo fare da duro e lo sguardo minaccioso. Bella la metro, quando il vagone mezzo vuoto ti lascia spazio per pensare, ti rivedi nel riflesso del finestrino e viaggia su sfondi in continuo movimento la tua immagine opaca, appena autografata da graffi e aloni sul vetro, da graffiti e percorsi sullo sfondo. Brutta la metro, quando il vagone pieno oltre ogni prevista capacità sembra un treno di deportati pronti ad essere vomitati alla prossima fermata, mentre devi far attenzione allo zaino e le tasche del cappotto, nel dubbio di uno scippo da evitare. Bella la metro, quando il giovane lascia il posto alla signora anziana mentre alla fermata la gente aspetta che scendi prima di entrar nel vagone e c'è il tempo anche per scegliere, scale mobili o scalata energetica, in base agli umori masticati, le forze riciclate. Brutta la metro, quando il giovane seduto ignora anche la signora incinta, mentre alla fermata c'è la calca per entrare prima ancora che qualcuno abbia provato ad uscire e ci si ritrova in una partita di rugby per arrivare alle scale e riemergere sopravvissuti. Bella la metro, perché è bella e brutta allo stesso tempo, è uno spaccato di vita quotidiana della società trasversalmente rappresentata, in un mosaico di parvenze, di letture e maschere amare. Brutta la metro, sarebbe ancora più brutta senza quella diversità accentuata, quegli scontri d'odori ed umori, quei contrasti di serenate e rumori, per addolcire un ritorno solitario a casa o risvegliare sdegni assopiti e timori dimagriti, nel disincanto di una città da decifrare o nel sorriso di scoperte accumulate. Bella e brutta, la metro, per fortuna.
Adotta anche tu un ragazzo all'estero
Il collega da due settimane in Belgio ti chiede consigli sul dove andar in giro la sera a Bruxelles e tra le righe c'è quasi il messaggio di invitarlo ad uscire con te. Questo non lo adotto, hai pensato. Il ragazzo incontrato l'altra sera al centro, da pochi giorni a Bruxelles, ti domandava suggerimenti sul che fare il fine settimana, su che tipo di persone frequenti e nell'aria c'era la pubblicità subliminale di un invito allo scambio di numeri di telefono. Oggi non adotto nessuno, ti sei detto. Il conoscente dell'amico ti parla con insistenza di tante cose, troppe cose, ma sembra quasi chiaro che stia cercando di incrociare prossime uscite serali. Tutte adozioni mancate.
Quando arrivi in un paese straniero, appena agli inizi in una città sconosciuta, se qualcuno ti adotta succede che ti salva un po' la vita, te la rende molto più facile, introducendoti in un gruppo di sorrisi, inserendoti in un vortice di connessioni sociali che altrimenti magari avresti incontrato ugualmente, ma non così facilmente. Sbarcando in un paese straniero, che sia da Catania a Milano o da Brindisi a Londra, entrare in un buon circolo di reti sociali può cambiare totalmente l'esperienza e gli umori, rendere meno ostile l'adattamento o trasformare uno sforzo in una piacevole esperienza. Se si trova qualcuno che ci adotti, che ci apra le porte di serate organizzate, cene e incontri al parco, ecco all'improvviso mille connessioni altrimenti meno evidenti, si passa dall'obbligarsi ad uscire, magari frequentare qualche corso di lingua o incontrarsi su forum della propria comunità altrove, a ricevere chiamate ed inviti che danno una spinta incredibile al supporto morale, nel rispondere alle classiche domande iniziali o semplicemente nel condividere una risata innocua. Perché da soli non è mai la stessa esperienza e nella maggioranza dei casi in compagnia si migliora, grazie ed attraverso gli altri, ecco perché spesso ci si adotta a vicenda con il ragazzo incontrato in ostello la prima settimana o il connazionale incrociato per caso alla stazione e a cui mai avreste dato il vostro numero di telefono in patria o almeno non con tanta facilità. Si abbassano barriere, si vincono timidezze, si dimenticano avvertenze, nel nome del bisogno di contatti sociali, di una guida, un aiuto, un'adozione.
Poi, prima o poi, ci si ritrova dall'altro lato, quello di chi ha già il circolo di amicizie, l'agenda piena, gli impegni infrasettimanali e il weekend già stracolmo di cose da fare. E a quel punto si capisce che non si può adottare tutti, nella sicurezza dei propri circoli creati, senza quel bisogno di sopravvivenza iniziale, si rialzano le barriere, si ripristinano timidezze, si ricordano avvertenze, e allora una chiacchierata non va più in là di uno scambio di parole così come una bella serata magari non vuol dire necessariamente doversi incontrare di nuovo (o almeno non in modo programmato). Si fa una selezione, né più né meno dei locali, di quelli che in quel posto ci son nati e che spesso scambiamo per freddi e asociali, accusandoli a volte della nostra mancata integrazione o attribuendogli magari stereotipi non meritati.
A Dublino ci siamo adottati, io ed un ragazzo salentino, vivendo un mese in ostello, per poi adottarne altri ancora, fino a formare un gruppo. A Bruxelles mi ha adottato un amico che già viveva qui, per poi adottarne a mia volta altri, formando diversi gruppi, complementari. Ma se avessi fatto amicizia con tutti gli italiani (e non) conosciuti a Bruxelles, per esempio, non avrei più vita privata né tempo per gli amici iniziali. Selezioni. Ugualmente, se un brussellese facesse amicizia con tutti gli stranieri incontrati al bancone del bar per uno scambio di battute, non avrebbe più vita privata né tempo per gli amici di una vita. Selezioni. Nessun egoismo, nessun razzismo, nessuna discriminazione (o quasi).
Principalmente è uno dei motivi per cui si creano più facilmente gruppi tra nuovi arrivati che tra veterani o locali; o, nel caso peggiore, il perché nonostante un lavoro, un salario, un appartamento perfetto, si vorrebbe tornare a casa, quando non si era disposti a farsi adottare, non ci si è adottati a vicenda o, maledetta sfortuna, hanno adottato quello proprio davanti a te, nella fila disorganizzata alle amicizie.
Quando arrivi in un paese straniero, appena agli inizi in una città sconosciuta, se qualcuno ti adotta succede che ti salva un po' la vita, te la rende molto più facile, introducendoti in un gruppo di sorrisi, inserendoti in un vortice di connessioni sociali che altrimenti magari avresti incontrato ugualmente, ma non così facilmente. Sbarcando in un paese straniero, che sia da Catania a Milano o da Brindisi a Londra, entrare in un buon circolo di reti sociali può cambiare totalmente l'esperienza e gli umori, rendere meno ostile l'adattamento o trasformare uno sforzo in una piacevole esperienza. Se si trova qualcuno che ci adotti, che ci apra le porte di serate organizzate, cene e incontri al parco, ecco all'improvviso mille connessioni altrimenti meno evidenti, si passa dall'obbligarsi ad uscire, magari frequentare qualche corso di lingua o incontrarsi su forum della propria comunità altrove, a ricevere chiamate ed inviti che danno una spinta incredibile al supporto morale, nel rispondere alle classiche domande iniziali o semplicemente nel condividere una risata innocua. Perché da soli non è mai la stessa esperienza e nella maggioranza dei casi in compagnia si migliora, grazie ed attraverso gli altri, ecco perché spesso ci si adotta a vicenda con il ragazzo incontrato in ostello la prima settimana o il connazionale incrociato per caso alla stazione e a cui mai avreste dato il vostro numero di telefono in patria o almeno non con tanta facilità. Si abbassano barriere, si vincono timidezze, si dimenticano avvertenze, nel nome del bisogno di contatti sociali, di una guida, un aiuto, un'adozione.
Poi, prima o poi, ci si ritrova dall'altro lato, quello di chi ha già il circolo di amicizie, l'agenda piena, gli impegni infrasettimanali e il weekend già stracolmo di cose da fare. E a quel punto si capisce che non si può adottare tutti, nella sicurezza dei propri circoli creati, senza quel bisogno di sopravvivenza iniziale, si rialzano le barriere, si ripristinano timidezze, si ricordano avvertenze, e allora una chiacchierata non va più in là di uno scambio di parole così come una bella serata magari non vuol dire necessariamente doversi incontrare di nuovo (o almeno non in modo programmato). Si fa una selezione, né più né meno dei locali, di quelli che in quel posto ci son nati e che spesso scambiamo per freddi e asociali, accusandoli a volte della nostra mancata integrazione o attribuendogli magari stereotipi non meritati.
A Dublino ci siamo adottati, io ed un ragazzo salentino, vivendo un mese in ostello, per poi adottarne altri ancora, fino a formare un gruppo. A Bruxelles mi ha adottato un amico che già viveva qui, per poi adottarne a mia volta altri, formando diversi gruppi, complementari. Ma se avessi fatto amicizia con tutti gli italiani (e non) conosciuti a Bruxelles, per esempio, non avrei più vita privata né tempo per gli amici iniziali. Selezioni. Ugualmente, se un brussellese facesse amicizia con tutti gli stranieri incontrati al bancone del bar per uno scambio di battute, non avrebbe più vita privata né tempo per gli amici di una vita. Selezioni. Nessun egoismo, nessun razzismo, nessuna discriminazione (o quasi).
Principalmente è uno dei motivi per cui si creano più facilmente gruppi tra nuovi arrivati che tra veterani o locali; o, nel caso peggiore, il perché nonostante un lavoro, un salario, un appartamento perfetto, si vorrebbe tornare a casa, quando non si era disposti a farsi adottare, non ci si è adottati a vicenda o, maledetta sfortuna, hanno adottato quello proprio davanti a te, nella fila disorganizzata alle amicizie.
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