Maledetto

Poi sei lì immerso in una lettura coinvolgente, mentre il treno sfreccia tagliando lungo una diagonale la città stordita da ondate di calore inattese, e i personaggi della trama ti si materializzano intorno, parlando con la voce dei tuoi pensieri concentrati, vestendosi della tua immaginazione contagiata, aiutati da parole e descrizioni che ti proteggono dai rumori meccanici del vagone ferroso, la musica di chi preferisce rompersi i timpani pur di condividere le proprie preferenze musicali, il paesaggio che periodicamente l'occhio controlla per non mancare la tua fermata, in automatismi oramai naturali. Esiste solo il libro, nel piacevole rapimento di paragrafi che si susseguono gustosi, pur non promettendo finali rivoluzionari e colpi di scena sconvolgenti, a volte è semplicemente la forza del linguaggio che ti trascina, conquistatore. Poi, quando il vagone sta per richiudere le sue porte dopo l'ennesima fermata disinteressata e le vibrazioni cigolanti passano veloci dalle pagine ai personaggi lì sospesi a mezz'aria, tra realtà e fantasia, ecco che il collega appena entrato ti saluta con la sua espressione felicissima, felicissimo d'aver trovato un compagno di viaggio per gli ultimi 10 minuti di tragitto. Maledetto. I tuoi denti orchestrano un sorriso d'occasione sibilando bestemmie in dialetti lontani, le mani chiudono il libro in uno sforzo di fatiche mitologiche mentre un pollice resiste cercando d'immolarsi a segnalibro disperato, manifestando la voglia di continuare, invano. Le parole del collega felicissimo ti attaccano veloci senza alcuna difesa, sotto bombardamenti di discorsi noiosissimi sul clima ti arrendi inerme a buone maniere indulgenti. Il collega parla e tu pensi che si dovrebbe aggiungere qualcosa a quei luoghi comuni, a quelle usanze, quelle espressioni secolari, come quando la mamma dice "non accettare caramelle dagli sconosciuti" così dovrebbe aggiungere "e non rompere le balle agli amici che leggono il Topolino, disturba solo quelli che giocano a calcetto"; il collega parla e tu pensi che si potrebbe aggiungere un nuovo comandamento a religioni quindi di colpo più efficaci, cose del tipo "undicesimo comandamento, non rompere le balle a chi sta già leggendo un libro"; il collega parla e tu vedi i cadaveri dei personaggi della tua lettura decomporsi repentini, intorno, svanire, mutarsi in fantasmi che alloggeranno in qualche parte del tuo cervello per tutto il giorno, fino al treno del ritorno, a meno che il tuo collega felicissimo non t'incrocerà all'uscita dell'ufficio, felice di andar ad attendere il treno con te e commentare ancora una volta il clima e le ferrovie e i già e i va beh che diventano colpi nell'aria come mani ad allontanare mosche. E invece non son mosche, ma i fantasmi dei personaggi del tuo libro, lì in un'agonia soffocante, in attesa di resurrezioni dolorose. E invece già. Va beh. Può darsi.

E mentre s'incoronava un nuovo re in Belgio

C'era anche chi in direzione contraria se ne scappava al mare.
Confermando che ai fiamminghi della monarchia (francofona) non interessa poi molto.
Foto scattata qui, più o meno.

No grazie la patria mi rende nervoso

Poi qualcuno manda una lettera a Italians e la rete gli fa fare boom, sorprendendo lo stesso Servegnini, che con l'amaro in bocca cerca di masticarne qualche conclusione, dimenticando però che la rete è fatta così: non segue logiche predefinite e santifica e dimentica nel giro di qualche click. Dimentica anche che lo stesso messaggio ce lo portiamo da anni nell'aria, come eco sottile, abilmente interpretato in una delle scene più famose de La meglio gioventù, quella del professore e della terra dei dinosauri, un posto bello e inutile, con la stessa allusione, la medesima esortazione a partire, a scappare, a lasciare un paese senza futuro, come diceva anche Montanelli in una delle sue ultime interviste, un paese che non può avere un domani, senza memoria, imprigionato in una statica quanto letale contemporaneità. Dimentica anche che oggi, con frontiere e costi abbattuti, la possibilità di provare altrove diventa ancora più appetibile che un tempo e allora quella eco, quel messaggio, quella opzione, assume un aspetto più accessibile e realistico.

E quando anche un altro articolo del genere fa boom, ecco che si schierano sempre due plotoni di grida e consensi, quello un po' disfattista del ha ragione, meglio andare via e provarci altrove, fa bene, ha capito tutto, questo paese non ci merita; e quello un po' eroico del è facile andar via, vigliacco, voltagabbana, se tutti se ne andassero, bisogna restare e lottare, amo questo paese e rimango, etc. Ogni plotone ha le sue buone dosi di qualunquismo e stereotipi da tirare verso l'altro, attaccandosi o difendendosi, fino a terminare in un già, un mah, un va beh, seppure partendo entrambi magari inconsapevolmente da un principio comune: il peso della patria.
Perché è proprio il peso personale che diamo alla patria, intesa come insieme di cultura, lingua, legami, compromessi, abitudini, memorie e progetti, che ci fa schierare in un plotone o nell'altro, non è patriottismo di quelli storici, di quelli politici o di presunte appartenenze di sangue, ma il peso personalissimo che ognuno deve dare al sacrificio richiesto della propria dignità, dei propri sogni, dei propri sforzi universitari, lavorativi, familiari, un sacrificio che fa stringere i denti, partendo o restando, e che si vuole rispettare in nome di un'idea, una meta, una scommessa. Appunto, quanto vale davvero questa scommessa che facciamo, questa speranza di poter partecipare ad un ipotetico miglioramento? Quanto è importante il miglioramento personale e quanto quello collettivo? Siamo davvero disposti a rimanere e lottare, credere davvero che in cima alla montagna di Vendola ci sia poi un'Italia migliore, come ritiene in una scena di Italy love it or leave it, o vogliamo liberarci di tutto ciò in nome d'un obiettivo privato, che può essere altrove?

Ecco, il punto è questo. Ognuno deve semplicemente darsi le proprie risposte, assegnando i propri pesi. E poi partire. O restare. Nessuno sbaglia, nessuno vince, perché sono pesi personali, come le scelte che ne derivano. Ed ecco perché non c'è nessuna my country, right or wrong, non ci sono eroi né vigliacchi, né tanto meno disertori, come istericamente farfugliava Camilleri, in un presunto dovere di restare, di non abbandonare il paese, di non lasciare il proprio posto a ciò da cui stiamo scappando. Semmai, il dovere dobbiamo averlo nei nostri confronti, nei confronti di quei progetti, quei sacrifici, quella scommessa: è il dovere di cercare di essere felici, tutto qui. Senza sperare nella rivoluzione di Monicelli o ripetersi detti antichi di Nemo profeta in patria né tantomeno dover poi rompere equilibri creati faticosamente altrove per il mero principio di tornare, come diceva Renzo Piano, ma semplicemente pensare a quel dovere che parte dall'inseguimento di un sorriso: potete trovarlo in patria, o potete trovarlo altrove, perché la vostra felicità è soprattutto dove vivete. O dove vivrete.
Se restando avrete rispettato quelle promesse, attraverso quei sacrifici, per vincere quella scommessa, allora ne sarete soddisfatti, allora grazie patria. E bravi. Se partendo avrete scelto altri sacrifici, facendovi altre promesse e inseguendo altri progetti, per poi realizzarli, allora grazie valigia, grazie partenza. E bravi pure voi. La patria? No, grazie.

Cose sulla scrivania di un collega

Un collega britannico. Così, a sorpresa.
Non conoscevo la serie e adesso son proprio curioso di leggerla.
E poi leggere quella sugli italiani..

Poi, casomai ti andasse male

- Cosa dicono in paese di me?
- Son contenti che ti sia andata male, perché così si sentono più soddisfatti di vivere qui...
Da El arte de Volar, ca-po-la-vo-ro di Antonio Altarriba e Kim. Si trova anche in italiano e vale davvero la pena leggerlo, secondo me.

E per fortuna qui piove

Ma quanto ti piace poi vedere la faccia degli altri, che siano italiani o stranieri, con quell'espressione che ti trasmette chiaramente un "ma questo è pazzo", saresti tu, il pazzo in questione, quando al loro solito lamento sul tempo o all'immancabile confronto tra Bruxelles ed un altro posto, mentre però si vive a Bruxelles, si lavora a Bruxelles, anche se la mente va ubiquamente altrove per nostalgia o per effetto di uno shock culturale sconosciuto o sempre troppo sottovalutato, tu rispondi con fermezza che Bruxelles è tra le migliori capitali dove vivere in Europa. E boom, vedi gli occhi che si gonfiano, fanno un giro e cercano quasi di nascondersi, evitarti, mentre le tue parole gli si fermano in gola quasi fosse un boccone troppo grosso e inaspettato, e tu non sazio insisti e convinto continui, con la tua personalissima tesi che suona ad eresia, usando però la stessa metodologia con cui si ricamavano luoghi comuni e banalità, servendoti di quelle stesse argomentazioni spesso ingrassate di stereotipi e superficialità, per cui Londra sarebbe troppo grande e dispersiva e gli UK troppo distanti dalla nostra cultura facile agli shock, così come Parigi, enorme e cara, eppoi vuoi mettere a star lì a litigare coi francesi, e ci sarebbe poi Madrid, ma di questi tempi e con la crisi, eppoi lavoraci tu a 40 gradi per due mesi con la spiaggia più vicina a 5 ore di macchina, Roma ti prego non me la nominare, bella solo per i turisti, un inferno di traffico ed un salto nel passato non solo per la presenza del Colosseo, e i paesi scandinavi li scartiamo a priori perché troppo freddi e lontani, così come quelli dell'est e dei Balcani, ci rimane Berlino, va bene, ma prima o poi dovrai affrontare il problema del tedesco, eppoi vuoi mettere a star lì a cercare di socializzare con loro, ed ecco che qualsiasi altra città poi avrebbe gli stessi problemi di Bruxelles per quanto riguarda il clima, la lingua, e ti dico che piove di più a Dublino, che non ci fai caso ma a Bruxelles piove pochissimo, è il cielo ad essere sempre grigio, lo so, ma meglio lavorare con temperature basse ed avere i soldi per andare in vacanza che star lì a bestemmiare a 40 gradi e poi guardare le foto degli altri su facebook.
Eppoi dove la trovi un'altra città del nord Europa così mediterranea come Bruxelles?, con i suoi pro e i suoi contro, certo, ma lascia stare queste nuvole, pensa a quanta vita, eventi, attività, pensa a quanto internazionale è una città di appena un milione di persone, pensa alle possibilità che offre, che trovi, che se sei qui è per un motivo, altrimenti saresti altrove, certo che non è perfetta, è sporca e trafficata, inevitabilmente legata a tentacoli politicamente corretti d'anni di litigi nazionali mentre la sua burocrazia kafkiana s'aggiunge al boom demografico non facile d'affrontare e tu sei qui a vivere tutto questo, cerca di capirlo anche un po', è troppo facile etichettarlo come "stupido", qualsiasi cosa diversa da quello che ti aspettavi, da quello a cui eri abituato, non è sbagliato, è semplicemente diverso e se è diverso c'è sempre un motivo dietro, storico, culturale, fortuito, un motivo che non conosci ma che non giustificherà mai le tue conclusioni affrettate sotto a questo cielo estivo solo sul calendario, lo so, torniamo sempre lì, giriamo intorno ad una nuvola che però ci sorregge, non ci lascia sprofondare. Se sei qui è anche perché al sole non sapevi che fare e l'ombrellone al mare non ce l'ha fatta a frenare i tuoi desideri di provare altrove né gli occhiali da sole han migliorato la visione del tuo futuro ipotetico. Ecco, senza occhiali da sole, guarda che sorriso, lo hai trovato qui così come altri lo han trovato a Londra, a Parigi, a Madrid, a Zurigo, si saranno accorti di quanti bei compromessi da bilanciare intorno e avranno abbandonato lamenti e piagnistei. Lascia gli occhiali da sole, ti dico, e osserva questa nuvola e le forme belle che disegna in cielo, smettila di ripetere che non c'è, non c'è il sole, perché il sole non lo trovi solo in cielo, sai? Eppoi - però poi smetto per un po' - con la sciarpa, a luglio, gli occhiali da sole non è che ti stanno poi tanto bene, secondo me.