Questione di stile, dicono

Una lettera su Italians di oggi punta il dito contro i flussi migratori di questi giorni ed ecco il confronto con quelli nostrani, con gli italiani emigranti di un tempo, che "con regolare passaporto" e "con molto decoro e dignità" arrivavano in paesi stranieri con "tutt'altro livello qualitativo", perché gli italiani emigranti, secondo il sig. Cataldo, avevano un altro stile, nell'idea romantica dell'eroe italiano, sempre migliore perché proveniente dalla stessa patria, mentre i protagonisti degli sbarchi dalla Tunisia o dalla Libia sono "veri straccioni, senza manco una bottiglia d'acqua" e "nella migliore delle ipotesi andranno a raccogliere pomodori". Ecco, non so se Servegnini abbia apprezzato la lettera o l'abbia pubblicata per lasciarla sulla gogna pubblica, ma una risposta semplice ed esaustiva potrebbe essere la seguente:

"Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".
(Relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912).

Sull'autenticità dubbia del brano ne ha già parlato ampiamente Paolo Attivissimo, noto scopritore di bufale internaute, che espose alcuni studi riguardanti l'epoca, affermando infine che "vera o fasulla che sia, insomma, la citazione rispecchia comunque fedelmente il sentimento dell'epoca. Se è inventata, è perlomeno verosimile". E se proprio non vogliamo andare così lontano nel tempo, fino al 1912, e così lontano nello spazio, fino agli Stati Uniti, basta domandare ai propri nonni, basta andare a 50 anni fa, Germania, e scoprire che gli italiani dormivano in letti sempre caldi e c'era poco di romantico ed eroico, c'era poco di stile alto e qualitativamente superiore, perché, come dice vinz, "questo è il volto sgradevole e poco iconografico della povertà". Niente di più, purtroppo, ma come capita spesso, chi non ricorda bene il proprio passato finisce col mal interpretare il presente e inventare, fantasticare, giudicare e sbagliare.

Cristoforo Colombo era belga

Capita così, per caso, che al corso serale di francese si parli di Don Giovanni e la ragazza statunitense ne domandi le origini e quasi in coro la ragazza spagnola affermi che sia spagnolo mentre quella italiana affermi che sia italiano, tra Don Giovanni e Don Juan esce fuori il conflitto di appartenenza e allora spontaneamente esclami:
- Non ne verremo mai a capo, è come la storia di Cristoforo Colombo!
- Cristoforo Colombo è italiano! Afferma l'argentina.
- Ma Cristoforo Colombo non è spagnolo? Domanda la polacca.
- Cristoforo Colombo è italiano! Ricorda l'italiana.
- Cristoforo Colombo è spagnolo! Risponde la spagnola.

E non è una semplice questione di conoscenze sbagliate, come per esempio considerare Magellano italiano (e invece era portoghese) o S.Antonio da Padova italiano e di Padova (e invece era portoghese e di Lisbona), quella della nascita (e quindi della nazionalità?) di Colombo sembra essere una questione abbastanza complessa, c'è chi lo considera italiano, chi spagnolo, chi catalano, chi galiziano (chi addirittura greco, croato o inglese), mentre in Italia si insegna che fosse italiano, in Spagna che fosse spagnolo (provate a domandarlo al vostro amico spagnolo) e così si arriva a quei conflitti di appartenenza, perché la patria passa anche per quei personaggi, quell'orgoglio di poter affermare che un tale personaggio venga dalla propria terra, dal proprio paese, anche se quel paese non esisteva 500 anni prima o almeno non nella stessa concezione. Basti pensare che per noi non era italiano, ma della Repubblica di Genova, che non era Italia quando Italia non esisteva ancora, ma poi diviene italiano, oggi, perché l'Italia esiste e siamo italiani, e 500 anni prima come oggi un giovane ha dovuto emigrare per trovare fondi per le proprie ricerche. Simpatica la cosa. Certo, come Annibale per Benigni, c'è sempre da capire quanto italiano (o spagnolo, va bene) sia stato Colombo all'epoca.

- Cristoforo Colombo era belga! Mette a tacere tutte le discordie, la prof francese, ricordando che in fondo un belga è un mezzosangue, nella speranza che essere belga metta tutti d'accordo, visto che un belga non fa male a nessuno. Domandatelo a un congolese.

Assange crocifisso all'Espresso

Dal sito dell'Espresso si possono inviare domande che potrebbero esser poste a Julian Assange, famoso fondatore di Wikileaks, durante un'intervista del giornale. Al di là dell'inglese abbastanza maccheronico ma in gran parte passabile e a parte le solite domande sulle scie chimiche, il nuovo ordine mondiale e Atlantide, ci son domande sugli UFO, sulle Lega e presunti fondi dei nazi, sul dio Anunnaki, e sulle banche che usano i politici che usano i media che usano la Libia che al mercato mio padre comprò: Julian è come il Cristo crocifisso, ce lo si trova di fronte e gli si chiede qualsiasi cosa e infatti io adesso vado a domandare come finirà il prossimo derby di Milano, anche se già lo so.

Al consolato italiano a Bruxelles (atto II)

Al consolato italiano a Bruxelles questa volta trovi una profondissima calma, mentre altrove, davanti ad altri consolati italian in Belgio, si manifesta contro la loro chiusura, perché altrimenti gli italiani all'estero si sentono abbandonati. Senza consolato. Davvero?
Al consolato italiano a Bruxelles questa volta hai l'appuntamento, ma proprio perché hai l'appuntamento non c'è fila come l'altra volta. Si chiamano leggi di Murphy e trovano sempre conferma. Sul pianerottolo delle scale c'è il Servizio per il pubblico, dici Buongiono e il tizio ti risponde in labbiale, ti fa segno, il microfono non funziona e il vetro è talmente spesso che non riesci a sentire la sua voce. E allora tu parli e lui risponde in labbiale. Carino. Dici di aver un appuntamento e lui apre la porta magica, quella per entrare dentro, dentro al consolato italiano a Bruxelles. Lo vedi che muove le labbra ma non senti nulla, avrà detto abbracadabra per aprire la porta, di sicuro. E la porta si aprì.

Vai alla sala degli uffici dove aspetti qualche minuto mentre dai un'occhiata al listino dei prezzi per i vari documenti. Al consolato italiano a Bruxelles i prezzi sono ancora in lire, tra parentesi il prezzo in euro. Nel 2011, c'è sempre spazio per la nostalgia.
Poi arriva un signore distinto e chiama il tuo cognome, perché hai l'appuntamento, ti invita a seguirlo e a chiudere la porta dell'ufficio. La maniglia della porta ti rimane quasi in mano, ma con nonchalance. Il tizio sembra nervoso, anzi scontroso, anzi scocciato: risposte secche e senza aggettivi. Al consolato italiano a Bruxelles avranno davvero un sacco di lavoro per essere così poco amichevoli. Però è anche colpa tua, che sei andato a Dublino e non hai detto niente, non eri registrato, che poi sei andato a Bruxelles e non hai detto niente, non eri registrato, e allora l'emigrazione in Belgio è stata la prima e non la seconda, perché la prima non era registrata. Insomma, bastava dirlo prima, anche se prima avevi detto "mamma, vado un anno in Irlanda e torno" e infatti poi sei in Belgio e son passati 3 anni e mezzo. Qualche fuori programma.

Al consolato italiano a Bruxelles hai finalmente fatto l'iscrizione all'AIRE, poi però il tizio ti dice che non sa se bisognava farla per rinnovare la patente, tuo primo intento, e ti manda in un altro ufficio, anche se in principio ti avevan detto di sì, prima l'AIRE poi la patente. Prima di entrare nell'altro ufficio senti dire al telefono "No signora, senza appuntamento qui non si viene, si viene solo con l'appuntamento". Ecco, e tu l'appuntamento non ce l'hai, allora bussi discretamente e chiedi solo per informazioni, al muro è appesa la prima pagina de "Il metodo antistronzi" che non incoraggia, ma questa volta c'è gentilezza, ti fanno entrare, ti ascoltano, ti aiutano. Facile: bisogna inviare un fax alla motorizzazione in Italia, aspettare l'invio di un documento, il consolato lo traduce in francese e aggiunge un timbro magico, con il documento tradotto si va al comune di Bruxelles e si ottiene una patente belga (europea), che non scade mai.
- Quale motorizzazione?
- Salerno.
- Salerno?
- Sì, Salerno.
Una smorfia di dolore accompagna le sue parole - Conoscendoli... aspetterai un'eternità, mi dispiace!
Dispiace anche a te e lo fai capire con una smorfia che un po' vuol dire "non è una novità" e un po' "per un attimo mi sento quasi a casa"

Esci fuori ed un signore sulla cinquantina si avvicina, ha pochi denti in bocca ed uno zaino sulle spalle:
- Sei italiano?
- Sì...
- Anch'io! Senti, mi serve un aiuto...
- Cosa è successo?
- Mi daresti 8 euro?

Cose (a)tipiche brussellesi

O meglio, dieci cose che qui a Bruxelles son tipiche ma che per un italiano in visita potrebbero essere atipiche o forse no.

1. Soldi per andar al bagno. Non importa se avete pagato già l'ingresso della discoteca o del cinema o se al bar avete già consumato diverse consumazioni, molto spesso all'ingresso del bagni qui a Bruxelles troverete una signora con un tavolino ed un piattino, un cartello vi indicherà se il vostro bisogno naturale costa 30, 50 o più centesimi. I lati positivi di quest'usanza sono che 1. i bagni saranno sempre abbastanza puliti e curati e 2. non dovete sentirvi obbligati a consumare al banco del bar, potete andare direttamente al bagno, sono come due entità distinte nello stesso edificio. Il lato negativo è che se non avete spiccioli in quel momento che già si trattiene a stento... beh, ve la fate sotto.

2. Soldi ai buttafuori. All'uscita di numerosi locali notturni spesso l'uomo alla porta vi guarderà facendo risuonarsi tra le mani qualche spicciolo e non sarà l'esplicita richiesta di un'elemosina, ma il richiamo alla mancia, sì, anche per gli uomini alla porta, che ovviamente può essere rifiutata e magari la prossima volta non si ricorderanno la vostra faccia o forse sì e chissà se vi faranno entrare.

3. Parlare italiano. E non con ragazzi italiani magari turisti del momento o ragazzi che vivono qui da poco o addirittura da qualche anno, ma a Bruxelles vi può capitare di parlare italiano con il commesso della farmacia o il ragazzo del negozio di telefonia o barista in una piazzola lontana dal centro; e saranno tutti belgi, ma di origini italiane, felici di poter praticare la lingua del nonno e magari facilitarvi la conversazione nel caso il vostro francese non sia impeccabile. Questo non significa pensare di venir a Bruxelles e cavarsela soltanto con l'italiano, ma che di italiano se ne parla più del previsto.

4. Mangiare coni di patatine fritte. E non chiamatele patatine fritte, sono frites, è diverso, sono fritte due volte e non con olio ma nello strutto. E sono buonissime, anche se un po' dure a digerire. A Bruxelles vi capiterà di vedere gente in fila per un cono di frites, la tradizione è di mangiarle in un cono di carta, con tanto sale e salse a scelta. Non chiedetele soltanto con il ketchup come ho fatto io, i belgi vi rideranno dietro, frites con il ketchup? Eddai, non siamo mica a New York.

5. Si fuma dentro. Come in un mondo alla rovescia, vi ritroverete a dover uscir fuori dal bar per respirare un po' d'aria fresca e non per fumare, perché qui in Belgio nei locali pubblici è ancora permesso fumare, almeno dove non si possano servire cibo (e fino al 2014, forse il 2012, forse dal prossimo luglio, chissà). Significa, da quel punto di vista, tornare all'Italia di qualche anno fa? Sì e vi renderete conto (se non siete fumatori) di quanta importanza abbia un po' d'aria fresca.

6. Cani ovunque. Bruxelles è la città dei cani e magari ve ne accorgerete calpestando un bel ricordino su qualche marciapiede perché sembra che non tutti raccolgano quello che gli amici domestici vanno seminando, però basterà andare in uno dei trenta e più parchi cittadini per vedere cani di ogni tipo e dimensione e non solo: in diversi bar potrete addirittura trovare in un angolino una ciotola con dell'acqua pronta per servire il cane di qualche cliente, perché a Bruxelles il cane si porta ovunque, anche nei ristoranti (salvo espliciti divieti).

7. A luci rosse. A Bruxelles come ad Amsterdam c'è un quartiere a luci rosse dove le ragazze sono in vetrina cercando di richiamare clienti e sguardi maliziosi. Rispetto a quella olandese, la zona non è molto turistica ed è un po' appartata dal centro della città (ma neanche troppo lontano), nei pressi della stazione nord. Un certo degrado e l'abbondanza di topi che attraversano le strade nella notte magari ne sconsigliano la visita.

8. Niente lavatrici. Girando per affittare un appartamento o una camera, ci si rende conto che spesso non c'è la lavatrice: nessun dramma, qui a Bruxelles le lavanderie sono comunissime, se ne trovano ad ogni angolo ed oramai gli stranieri son abituati così, chi non può permettersi una lavatrice o chi preferisce risparmiarsi quei soldi, magari perché considerandosi temporaneo (e invece poi ci rimane anni), inizia ad usare le laundry più vicine. Il compromesso migliore è offerto spesso da una o due lavatrici nel seminterrato comune, da condividere con gli altri appartamenti dell'edificio, che spesso a Bruxelles non ha più di quattro piani.

9. Che bella l'Art nouveau. Bruxelles non è soltanto Grand Place ed Atomium ma tanto, tanto altro, e spesso proprio davanti ai propri occhi: l'architettura delle case brussellesi è tipicamente d'Art nouveau e qui sembra la normalità, spesso passeggiare in una delle aree ad alta concentrazione di quello stile diventa una visita ad un museo a cielo aperto. Dopo una tale boccata d'arte, vedere il quartiere della istituzioni europee e pensare a quanti edifici (ed arte) son stati distrutti e sacrificati per uffici e burocrazia, è un'amarezza infinita.

10. Precedenza a destra, sempre. Sarà capitato ai turisti in giro per Bruxelles noleggiando una macchina o ai primi arrivati in cerca d'abituarsi alla nuova città, c'è sempre quella sorpresa iniziale, perché a Bruxelles non importa quanto grande ed importante sia la strada che stai percorrendo, devi sempre, sempre dare precedenza a destra, perché nelle mille viuzze che sfociano poi sulle arterie principali non c'è quasi mai un diritto di precedenza o addirittura uno stop e allora bisogna fermarsi, lasciar passare, perché chi ha la precedenza non rallenterà troppo nel cercar di capire se conosciate le regole oppure no.

Anche questo è Europa, credo

In un pub australiano a Madrid durante l'ultimo fine settimana, mentre l'amica della tua ragazza viene approcciata da un tipo alto e splendente, l'amico, l'altro, che splendente sembra meno, ti si avvicina per sapere se ci son possibilità di quagliare e ci prova prima in spagnolo, ma balbetta appena, poi passa velocemente all'inglese e poi addirittura all'italiano: è un belga, di Leuven, e si meraviglia di incontrare un italiano a Madrid ma che viene da Bruxelles; ti chiede subito che lingua avrai mai scelto di studiare, il francese, ovvio, ci rimane male, ti chiede qualche parola d'olandese, gli dici due delle tre che conosci e già gli si illuminano gli occhi, due parole sono meglio di un silenzio, in certi casi. E lui ti parla in italiano, ha vissuto anni a Varese e quando parla lo fa benissimo, con un accento del nord Italia inconfondibile, poi ti dice d'essere da un anno a Napoli, d'esserne innamorato, del cuore della gente. Napoli è così, c'è chi la odia e chi la ama e c'è chi la odia e la ama a giorni alterni, a ore alterne, perché ci son motivi per entrambi i sentimenti, tanti, e a riassumere il tutto c'è solo una parola: Napoli.
E insomma in un pub australiano a Madrid, un campano venuto da Bruxelles parla con un belga venuto da Napoli e quando il tizio gli si avvicina dopo un po' per salutarlo, gli dice con un forte accento varese "il mio amico ci rinuncia, noi andiamo, m'aggia rutt 'o cazz qua". E tu ad ascoltarlo vorresti quasi morire. L'Europa è anche questo, credo.

Le luci della città (viste da lassù)

Mentre l'aereo inizia a perdere quota nei quindici minuti che precedono l'atterraggio, venerdì sera, ecco Madrid che si avvicina alla virata, mille luci da lontano, al finestrino ipnotizzato, quando fuori la notte, nell'apparente silenzio, e quei bagliori interminabili, quei disegni splendenti d'estensoni umane nell'oscurità, la città che delinea le sue forme attraverso tinte elettriche e intermittenti, in un paesaggio quasi magico, che affascina ogni volta, ad ogni atterraggio, ogni destinazione, le luci della città si lasciano scrutare, nel loro incanto. E sarà perché con gli occhi le si vorrebbe raggruppare tutte in un solo sguardo, sarà perché mentre cento si spengono per alcuni istanti altre mille nascono veloci, ma quella danza frenetica, quel vibrare di luci e movimenti finisce sempre con l'ipnotizzare, quando nella mente il nulla, nessun pensiero, perché la mente si perde nelle luci della città, mentre la testa appoggiata al finestrino dell'aereo e l'aereo che ti porta lì, sempre più vicino, a scoprire la fonte delle luci, ad accenderne di altre.
Dicono che loro, le luci, attraggano per natura, attraggano perché lei, la luce, ricorda il sole al nostro subconscio, e lui, il sole, è la fonte di vita per ogni essere del mondo e allora noi, deboli istinti, ne siamo attratti, sempre, ovunque, come il seno ed il latte materno. E allora ti ammalia, la luce, perché la luce è vita, lo dice la scienza, (anche se poi quando nella notte in Libia s'avvisteranno i bagliori di nuovi bombardamenti, la luce sarà morte). E la scienza, impassibile, riesce a sgretolare anche quel momento di ipnosi al finestrino, quell'attimo di mente vuota, apparente, magari persa negli interruttori infiniti di quell'immagine lontana, delle luci della città, ogni luce una vita immersa nella propria macina quotidiana, mentre l'aereo ti avvicina ad esse, per prender parte al mosaico, muoverti nella danza e sembrare un'altra lucciola, lontana, alla prossima testa poggiata a un finestrino del prossimo aereo che sorvolerà le luci della città.

Dei sogni altrui

Nacque tutto in un mattino di marzo, lei aveva sognato lui ma lui era lontano e lei, lei voleva tanto raccontargli il sogno, anzi voleva lo vedesse, voleva lo vivesse. Allora lei lo commentò ad un amico che ne rise con un conoscente che ne discusse con un tizio e alla fine dopo qualche mese iniziarono a comparire sul mercato i primi registratori di sogni.
All'inizio era tutto così strano, dicevano di dover ingoiare una pillola prima di andar a letto e di accendere sul comodino il registratore di sogni, funzionava a distanza e registrava i tuoi sogni, qualsiasi cosa, i tuoi sogni, appunto.
I primi sperimentatori ne parlavano come di qualcosa di sorprendentemente innovativo, qualcuno disse amazing, perché bastava addormentarsi e sognare ed il mattino seguente rivedere tutto sullo schermo LCD del registratore di sogni. E i sogni erano lì, in una scatola, intrappolati, loro che di solito preferiscono apparire dalla nebbia e terminare in un sospiro improvviso, adesso erano registrati per sempre tra metallo e stati magnetici. Molti furono gli scettici iniziali, qualcuno si rifiutò di provarlo, altri preferivano sognare e poi magari dimenticarsi dei percorsi onirici o risvegliarsi con sfumati ricordi senza certezze. Molti altri amarono da subito l'idea, "Ecco, te lo regalo, è un sogno che ho fatto ieri notte, c'eri anche tu" era il motto della pubblicità che sapeva conquistare.

Dopo qualche mese comparvero sul mercato nuovi tipi di registratori con controlli avanzati, era possibile programmare i propri sogni, scegliere la scena, i personaggi, la trama, appena prima di andar a dormire, per poi rivedere le creazioni delle connessioni celebrali in quella scatola dannata. Una nuova forma d'arte per alcuni, che vendevano i propri sogni agli altri, il creato non più da impulsi nervosi e immagini aleatorie; una nuova vita per altri, notturna, ideale, perfetta. Irreale.
Da nuovi modelli del registratore di sogni si poteva addirittura mandare in streaming il proprio sogno su Youtube, altri pagavano per avere programmi dedicati, contenuti speciali e personalizzazioni sempre più dettagliate. In rete nascevano veri e propri repository di sogni, molto scaricavano sogni illegali e spesso succedeva come quando decidesti di scaricare un concerto degli Smashing Pumpking e invece era un video porno (che poi non hai cancellato), solo che qui si trattava di sogni. Alcuni tentarono di fare un overclocking del trasmettitore di sogni e finirono col bruciarsi il cervello, mentre altri si accontentavano di scaricarsi le demo gratuite di alcuni sogni, che spesso terminavano all'improvviso, sul più bello, proprio mentre lei... Fine.
La fantasia si adoperava per fabbricare i sogni degli altri. Il papa dichiarò che peccare in sogni programmati equivaleva a peccare nel reale, riempendo così qualche titolone dei giornali, per qualche giorno, ancora una volta.

Il registratore di sogni era oramai in tutte le case, tutti ne avevano uno, i genitori moderavano i sogni dei propri figli, le coppie si programmavano a vicenda i propri o controllavano quelli del partner, in tv venivano trasmessi sogni da poter poi comprare con qualche offerta eccezionale. Nel giro di pochi anni chi non utilizzava un registratore di sogni veniva visto come qualcuno che volesse nascondere qualcosa. Alcuni tipi di sogni erano diventati vere e proprie droghe e perciò proibite, il governo applicava severi controlli sui registratori di sogni e molti lamentavano violazioni di privacy e diritto al proprio sogno controllato. Le nuove generazioni non riuscivano più a capire cosa mai avesse voluto dire Randy Pausch con il suo "Achieving your childhood dreams". C'era chi urlava alla fine del mondo mentre le fabbriche dei sogni altrui continuavano a produrre fantasie artificiali.

Poi una notte, il suo registratore di sogni era quasi scarico quando d'improvviso mancò la corrente elettrica in casa ed il trasmettitore di sogni si fermò. E lei sognò.
Il giorno dopo incontrò lui che le raccontava dei suoi sogni programmati, di loro due e di una passeggiata sulla Luna sotto pioggia di stelle e mentre parlava puntava il dito al suo trasmettitore di sogni portatile e ad alcune stelle che aveva scelto con dedizione. Lei invece non ricordava bene il sogno, non lo aveva pianificato e non poteva mostrarlo, non ne aveva traccia se non in qualche immagine confusa che ancora riaffiorava alla mente, ma qualcosa le suggeriva che nel sogno ci fosse stato anche lui e non importavano altri dettagli, si era svegliata serena, la mente aveva prodotto sogni e benessere e non importava altro, quelle emozioni avrebbero potuto viverle nel reale, nell'imprevisto, negli istinti e le passioni, insieme.
E lui le disse: Ma io vorrei tanto conoscere quel sogno!
Baciami - gli rispose - e proverò a trasmetterlo.

La bozza dell'illustrazione che poi non ho fatto (per pigrizia), in cui si vede
il trasmettitore di sogni in opera sul blogger andima che in realtà non dorme
mai così beatamente, questo disegno è una menzogna.

Le formiche e quei I'm proud to be Italian

L'altra sera al pub la ragazza americana parla dell'Europa come fosse un solo paese, perché loro, gli statunitensi, vanno in vacanza in Europa anche se poi si fermano solo a Parigi e sono stati in Europa anche dopo una settimana a Londra; e parla anche degli europei, lei, come fossero un solo popolo, come fosse una sola razza.

Ma scusa - le domanda la ragazza spagnola - per te non c'è nessuna differenza tra gli europei?
No! - Risponde lei - E per di più siete tutti bianchi! Per me siete tutti uguali!
No, aspetta - intervieni tu - ma davvero tra un irlandese ed un greco o tra uno svedese ed un portoghese - giusto per prendere qualche opposto - non vedi nessuna differenza?
No, no... - ti risponde lei, sincera - davvero...

Nel frattempo la ragazza giapponese ascolta silenziosa, lei che non parla mai tantissimo e sicuramente avrà per la testa cose più serie a cui pensare. E proprio fissando lei per qualche secondo pensi che in fondo neanche tu sapresti distinguere tra un giapponese ed un coreano, tra un cinese ed un vietnamita e invece magari per loro, tra di loro, ci son tante differenze, come per te tra uno scozzese ed un siciliano, ma anche tra un siciliano ed un calabrese. Abitudini e punti di vista.
E se domani sbarcasse un alieno sulla terra - pensi - non ci sarebbero tante differenze per lui, saremmo tutti umani, due braccia, due zampe, due occhi e tanti versi, senza troppe differenze tra un cileno e un turco o un canadese e un somalo. E anche una formica, che ci guarda da laggiù, non vedrà mica tutte quelle differenze, saremmo tutti uguali, due grossi piedi da scansare e tanto cemento da evitare.

Ed è bello anche così, ognuno nella sua cultura, tradizioni, lingua e storia, che si crea diversità e ricchezza da condividere, solo che poi troppo spesso ne rimaniamo quasi incastrati, nella nostra (e sono tanti quelli che), ci fermiamo a quello conosciuto, educato, tracannato fin da piccoli, e come un gorilla a marcare il territorio che batte forte i pugni sul petto che diventa un tamburo tribale, così poi la mano al cuore quando parte l'inno nazionale quasi ci fosse un diversificante nel sangue e invece di base siamo tutti uguali, se ne accorgerebbe anche l'alieno stanco del viaggio di anni luce e lo sa anche lei, la formica, che se potesse leggere tutti quei I'm proud to be italian, oggi, su facebook, magari sorriderebbe un po'. E io c'ho passato ore a immaginarmelo, il sorriso di una formica.

Il rugby secondo il collega francese

Appena arrivato in ufficio domando al collega francese (che venerdì non faceva altro che parlarmi dell'incontro di rugby tra Italia e Francia, terminato in una storica quanto inattesa vittoria azzurra):

"Sono rimasto sorpreso anche io, hai visto poi il match di rugby?"
e lui "Sì... sì... "

[secondi di silenzio mentre io lo fisso con un sorriso sottile]

"Ma sai... - poi continua - in fondo anche il Rubin Kazan è riuscito a battere il Barcellona una volta, nello sport è così... "

Il Barcellona. Va beh, meglio così, a rispondere un "son stati bravi gli italiani" gli sarebbe potuta scoppiare qualche vena in fronte. Ma il rugby non era lo sport del fair play?
Poi la gente si meraviglia quando dico che molti preferiscono Bruxelles a Parigi...

La coscienza (degli acquisti) che ci manca

Torniamo da poco da un centro Oxfam, dove abbiamo lasciato due sacchi di tutto: jeans, giacche, t-shirt, maglioni e anche una cravatta; è incredibile quante cose escono fuori da un armadio, cose quasi dimenticate, cose prima amate e poi scartate, colori neanche troppo sbiaditi ma parte di un tempo passato o soltanto di un gusto cambiato, ma cose praticamente quasi nuove, lì, lasciate per mesi, a volte anche un anno, magari soltanto perché associate ad un ricordo, un periodo o quell'immancabile scrupolo del dire "poi qualche volta lo indosserò". E invece poi rimangono lì.
Abbiamo riempito due sacchi e li abbiamo portati ad un centro Oxfam nei paraggi: raccolgono vestiti di ogni tipo, quelli in buono stato vengono lasciati alla vendita di seconda mano, tutto ciò in stato deteriorato viene inviato al riciclaggio. I ricavi vengono investiti in progetti umanitari. Lì abbiamo trovato delle signore gentilissime ad accoglierci con un sorriso sereno, già impegnate a selezionare da una montagna di articoli d'abbigliamento. Ci siam fatti un giro tra tutto quello che era in vendita di seconda mano ed è impressionante vedere quanto vestiario praticamente nuovo sia stato accumulato (facile il cliché, ma la maggioranza era abbigliamento femminile, bisogna dirlo). A saperlo prima, avrei comprato lì tutto l'occorrente per andare a sciare e probabilmente anche qualcosa di più.

Nell'era di H&M, di Zara e delle tante altre catene di abbigliamento a basso costo, è facile comprare e comprare e comprare, quando qualcosa non costa praticamente nulla in relazione al proprio stipendio e spesso si compra senza la coscienza degli acquisti, magari soltanto per qualche mese, spesso pensando di indossarlo soltanto un paio di volte ma il prezzo ne vale la pena e allora subito alla cassa, specialmente nella pazzia dei saldi e così si accumula materiale senza la coscienza dell'ambiente, dell'impatto dei 10 euro spesi per una maglietta in più e di tanto altro di cui magari non se ne avrebbe davvero bisogno.
Proprio mentre stiamo per uscire dal centro Oxfam, una signora entrata dopo di noi prende un maglioncino appena aggiunto alla selezione di seconda mano: è il mio, 9 euro in saldi da Zara, messo non più di tre volte in un anno, praticamente nuovo. Magari lo avrà comprato, magari no, ma almeno non è più in un armadio a far compagnia al silenzio e forse chissà, verrà venduto e contribuirà ad un progetto umanitario. Mica male.
Un negozio non tanto differente da quelli super conosciuti, ma questo aiuta gli altri.
Foto scattata qui.

Come due milioni di alieni

Certe notizie bisogna darle con un certo tatto, altrimenti poi c'è chi si spaventa. Ecco, dice il Welfare che servono due milioni di immigrati in dieci anni. Dice che servono per il fabbisogno di manodopera, per reggere il sistema, ma senza panico: viste le stime di crescite interne i numeri dicono che bisognerà aprirsi soltanto a poco meno di due milioni di lavoratori stranieri. E che sacrificio. L'importante è che vengano a pulire la scrivania la sera, che raccolgano i rifiuti la mattina presto e che non si radunino in gruppi in qualche bar o inizino a mangiare kebab per strada o addirittura chiedano il diritto a professare la propria religione in luoghi di culto, diritto addirittura previsto dall'articolo 19 della Costituzione, ma la Costituzione è italiana, si sa, che valga allora per gli italiani - direbbe qualcuno oggi al governo - e non per l'Italia.

Il Welfare dice che servono per l'economia, anche se l'economia è al tracollo e la disoccupazione galoppa, servono altri due milioni di lavoratori e servono disposti a tutto, a quello a cui i laureati italiani non vogliono adeguarsi o a quello che è più facile impiegare. Servono, è il verbo che riassume il tutto, è nel verbo la parola magica, mica per la diversità culturale, tanto meno per migliorare un'elasticità mentale rigida e centenaria, servono per reggere il sistema, ma il sistema è pronto ad altri due milioni di immigrati? Perché magari non servono soltanto due milioni di immigrati ma anche meno populismo spicciolo, meno occhiate maliziose e paure ingiustificate, meno propaganda di esodi biblici e facili strumentalizzazioni quotidiane e soprattutto parità di trattamento, magari acquisendo la coscienza che oggi la società è multiculturale ed i diritti non si basano soltanto sul luogo di provenienza. Che gli altri non son alieni.
E poi, ops... mi chiamano in un meeting, dovrò inventarmi qualcosa nell'ufficio dove lavorano quattro francesi, due italiani, un cinese, una senegalese e due belgi. E siamo a Bruxelles, non conosco il loro articolo 19 ma un immigrato non è alieno e - mi dicono che - si sta bene, nonostante i francesi.

Al consolato italiano a Bruxelles (atto I)

Al consolato italiano a Bruxelles c'è una grande bandiera tricolore esposta fuori ed un grosso portone che funge da entrata per le persone ma anche per le macchine che si dirigono al parcheggio interno. Il portone quindi è sempre aperto. C'è una scalinata di una decina di gradini e lo sportello di Servizio per il pubblico. Lo sportello è esteriore, la fila si fa fuori, sulle scalinate, appena dopo il portone, all'aperto. Non si entra perché le porte sono chiuse, c'è bisogno di un'apertura controllata. Non si entra perché lo sportello è fuori, come quando compri un waffel o un gelato per le strade di Bruxelles.
Al consolato italiano a Bruxelles quando fa freddo, quando fuori c'è la neve, si fa la fila allo sportello, si intende fuori, per le scale, insieme ai pinguini. Però almeno è coperto, non piove. E c'è il rumore della strada, delle macchine, del traffico, perché il portone è sempre aperto e si attende fuori.
Al consolato italiano a Bruxelles non hanno risolto il problema del rumore della strada creando uno sportello in un atrio chiuso, accogliendo gli italiani all'estero in cerca di informazioni e servizi, ma installando un microfono a volume alto allo sportello, in modo da sovrastare i rumori della strada vicino.
Al consolato italiano a Bruxelles non c'è privacy, perché dalle casse del microfono tutti in fila possono ascoltare le questioni della persona di turno allo sportello. Poi l'impiegato ti dice "Ma come! Non avete ascoltato, l'ho appena detto al signore che stava qui prima" e ti accorgi che non ti puoi distrarre in fila al consolato italiano di Bruxelles, bisogna davvero ascoltare i fatti degli altri allo sportello. Siamo nell'era dei social network, in fondo.
Al consolato italiano a Bruxelles, mentre ero in fila alla mia destra ho visto un manifesto del prossimo spettacolo di Beppe Grillo a Bruxelles. Ma c'è qualcosa che mi sfugge: lo sa mica la Brambilla che nell'edificio del consolato italiano a Bruxelles si pubblicizzano spettacoli che sputtanano l'Italia all'estero? No perché le potrebbe prendere un colpo, a saperle certe cose.
Al consolato italiano a Bruxelles ci dev'essere una porta (un portone) spazio temporale all'ingresso, sicuramente (attenzione: segue battuta antipatica e lamento evitabile), no perché d'improvviso mi son sentito in Italia.

Che poi loro, le donne

Quando si finisce su quell'argomento lì, quello meglio lui o meglio lei, c'è sempre lui che caccia la solita storia, quella dei grandi della storia, che storia, che son tutti uomini, loro, e ne esce subito un teorema, la dimostrazione della superiorità dei lui, perché dopo qualche nome di scienziato, scrittore, musicista e campione di gara di rutti, la cosa è palese, evidente, è meglio lui, è peggio lei, anche se c'è sempre quella dimenticanza, quella che grandi lo si può essere nel bene ma anche nel male e bisognerebbe allora elencare anche Hitler, Leopoldo II di Belgio e Baggio che sbagliò il rigore del '94, certo lui potrebbe contrattaccare con Crudelia Demon e la Santanché (che poi non son sinonimi?) ma anche Laura Pausini aggiungerei, però poi contano i numeri, sempre loro, e ci son parecchie croci che si potrebbe contare.
Il problema allora non è decidere chi sia migliore, ma cercare semplicemente di migliorare le cose con il buon senso e allora no, non ci vogliono diritti uguali in tutto, perché lui non è uguale a lei in tutto, è chiaro, sono uguali in parte e in parte son diversi, hanno bisogni diversi, hanno cose che son complementari o si risolvono in modi diversi. Per esempio lei ha il dono della vita, sì, ha bisogno di un aiuto, va bene, poi però fa una magia e dopo nove mesi crea. Crea, mica roba da poco, lei crea. E mentre sta creando non passa soltanto cibo, per di lì, dal cordone ombelicale, ma tanto, tanto altro che si sta studiando di recente, lo studia anche lui, che da lì passa anche lo stress per esempio e può decidere i cambiamenti di una vita, può influenzare tutto il futuro della nuova creatura e allora, lei, è diversa e chi governa dovrebbe tutelarla, perché per quello stress passa anche il futuro di una società, mica poco, ma al governo ci son tanti lui e per di più non son tanto informati di scienza e di ricerche recenti, altrimenti avrebbero già cambiato il modello educativo e tante altre cose che non fanno rima soltanto con denaro. Per fare un esempio.

Che poi loro, le donne, sono diversità che arricchisce, sono un punto di vista diverso, un approccio alternativo, un'altra empatia che vale sempre la pena di ascoltare, comprendere, condividere e lo dimostrano materialmente, al nord più che al sud, del mondo, quando le distanze son immense non soltanto in termini di chilometri e giorni di sole all'anno. Che poi loro, le donne, son felici quando ricevono il rametto di mimosa ma non dovrebbe concludersi tutto in un sorriso e un ringraziamento, ecco oggi, quando lui ne compra uno o lei lo riceve sorpresa, magari si farebbe bene a dimenticare la storia delle discriminazioni e sottolineare la diversità, che loro, tra loro, son diversi ed è proprio quello il bello, il bello e la sfida (o il bello nella sfida, o il bello della sfida): il bello di guardare le cose in modo diverso e la sfida di risolverle nel modo migliore, ma insieme.
Attenti però quando lui la pensa ancora così o giù di lì:


lui cerca di spiegare a Lui come lei deve essere, secondo lui.

L'union fait la frite

Probabilmente solo in Belgio dei bambini possono sfilare vestiti da cono di
patatine fritte durante il periodo di Carnevale e così è stato oggi a Binche,
paesino famoso per il suo carnevale, addirittura patrimonio UNESCO.
Foto scattata qui.

Dello straniero ovunque

Poi chiami la nonna per sapere come sta e la nonna urla, ma lo fa con amore, urla perché sei a Bruxelles, sei lontanissimo per lei e bisogna urlare per sopperire le distanze con il tono di voce, quella voce che le casse del portatile hanno diffuso a tutto volume per la stanza, che su Skype hai dovuto abbassare il volume al minimo altrimenti il vicino del piano di sotto avrebbe potuto bussare alla porta e chiedere di guardare i film horror a volume più basso. Insomma, la nonna urla, magari perché non ci sente bene, magari perché l'amore si misura anche in decibel o forse perché vuol farsi sentire dal nonno. Il nonno di sicuro starà lì, seduto a pochi metri, sulla sua sedia, ad ascoltare la telefonata della nonna, e lì starà ad ascoltare, il nonno ascolta, mastica le parole, le assapora e poi le lascia scendere piano piano, che una parola per il nonno può essere il senso della giornata, la novità che anima la settimana, il ricordo ed il ritornello del mese. Bisogna masticarle bene alcune parole e solo dopo averle digerite per bene si può poi passare alle prossime. Quindi, la nonna grida e il nonno ascolta. E tu parli.

Allora succede che la nonna grida il suo affetto, lei che ha vissuto 39 anni e un mese in Germania ai tempi in cui gli italiani dormivano in letti sempre caldi e il nonno lo ripete spesso: t-r-e-n-t-a-n-o-v-e son tanti, 10 per ogni lettera, ma t-r-e-n-t-a-n-o-v-e e u-n m-e-s-e sono davvero tantissimi, non lo si può dire in fretta, bisogna prendersi le dovute pause altrimenti sembrano meno e invece sono tanti. Trentanove. E un mese. E vuole farteli pesare anche a te, quei trentanove anni all'estero, tu che sei all'estero da tre e qualche mese, tre lo dici in fretta, sono solo 3 lettere, una per ogni anno, non son mica t-r-e-n-t-a-n-o-v-e, e un mese. E succede che la nonna ti ripete un'altra volta quella frase, quella che oramai suona come "copriti bene che fuori fa freddo" e invece è "Cerca di avvicinarti prima o poi, più prima che poi, che con il tempo rimarrai straniero lì all'estero e ti sentirai straniero anche qui quando tornerai in Italia, eh". E tu avresti preferito l'altra, quella del coprirsi bene, che lì a Bruxelles fa freddo per davvero ultimamente, perché le parole dello straniero ovunque non le digerisci tanto in fretta e te le mastichi sempre un po' troppo, anche se ti fermi poi su quel "eh" finale che vale più di mille aromi, perché con quel "eh" avrà voluto dire (urlare, ovviamente) "hai capito? Te lo dico io che c'ho esperienza, hai capito? E non è la prima volta che te lo dico e non voglio ripeterlo più, eh!" o qualcosa del genere e il nonno, lì seduto a pochi metri, avrà chiuso gli occhi e mosso la testa su e giù, annuendo e approvando. Eh. Ed è anche per questo che li vuoi bene, a tutti e due, ma sottovoce.