To make it short

"Anche se i bambini da un anno a tre anni possono essere molto attratti l'uno dall'altro, non hanno ancora le abilità sociali necessarie per giocare insieme. Anzi, i tentativi di giocare insieme e di condividere i giocattoli sono spesso difficoltosi, date le "regole di proprietà del bambino" a quell'età, che sono: 1) se lo vedo io, è mio; 2) se è tuo e io lo voglio, è mio; 3) se è mio, è mio per sempre."
Da "Intelligenza emotiva per un figlio", John Gottman

p.s. Corollario: tutti i dittatori (e non solo) sono rimasti a quella fase, da un anno ai tre anni, per tutta la vita.

Quello che resta

Ci hai pensato quando tua moglie ti ha chiesto di togliere le molliche dalla tavola, ha chiesto come si dice questa cosa, sacudir el mantel, in italiano. E all'improvviso ti sei bloccato. Non lo sapevi più dire. Hai fatto ricorso al tuo dialetto, a quel scutuliare, probabilmente perché quell'espressione, di togliere le molliche dalla tavola, tra le mura domestiche l'hai sempre ascoltata in dialetto, fin dall'infanzia; o probabilmente perché spesso il dialetto è un rifugio, nell'intimità di ricordi che s'amplificano solo attraverso la pronuncia di certe parole. (Ma è un affacciarsi temporaneo da una finestra che poi chiudi senza troppa nostalgia). Scu-tu-lia-re, ti sei ripetuto, cercandone la controparte in italiano che non conoscevi più. Hai chiesto ad amici, di tradurti scutuliare il, volevi scrivere mesale, hai scritto mantello, scutuliare il mantello, direttamente dallo spagnolo; volevi dire tovaglia - e avresti fatto bene - ma non lo hai detto perché tovaglia, in spagnolo, vuol dire asciugamani e allora hai temuto l'ennesima trappola linguistica dei false friends. Ti hanno risposto scuotere, gli amici, scuotere la tovaglia, ma non andava bene, era ancora innaturale. Sbattere. Alla fine è uscito sbattere.

Ci hai pensato quando hai scritto ad un amico di aver trovato la suocera con le mani nella farina, ti sei fermato, ti sei corretto. O meglio, hai provato a correggerti, perché sapevi che non si usa la farina, in quell'espressione. Ma non sapevi quale altra sostanza, ingrediente, cosa andava al posto della farina. Di nuovo, qualcosa t'avvertiva dell'innaturalità di quel suono, di quella frase, ma si fermava lì sulla soglia di un dubbio a metà, tra frustrazione e rinuncia. Alla fine te l'han dovuto dire: marmellata, con le mani nella marmellata. E un Ah tra l'ovvio e la vittoria ha sbloccato l'ennesimo nodo neurale di connessioni culturali e linguistiche, senza però evitare che se ne creino altri, di nuovi, di risolti ma lasciati in un angolo buio per troppo tempo, di combinazioni di fatti, luoghi, proverbi, abitudini e memorie.

E ci hai pensato quando un amico a Bruxelles ha nominato in chissà quale contesto Jerry Calà. Aspetta, chi era? Hai esitato, guadagnandoti sguardi perplessi. Hai pensato fosse romagnolo, hai pensato fosse Umberto Smaila, hai pensato a film di Cristian De Sica, e poi una scintilla neuronale ha riaperto bauli polverosi di cultura impantanata e hai detto, come se lo avessi sempre saputo, No aspetta, libidine, doppia libidine, libidine coi fiocchi!

Siamo tutti esperimenti culturali, hai pensato, soprattutto quando si vive all'estero per un tempo abbastanza lungo, distaccati a sufficienza dalla cultura natia ed esposti, continuamente, ad altri balli d'alfabeti, modi di dire, fare, pensare. Ognuno insomma diventa un'isola culturale dove approdano in modo casuale influenze dall'altri mondi, si creano ponti su terre straniere, a volte lunghissimi e resi stabili solo dal tempo, dalla frequenza dei percorsi. Ma ahimè l'isola non basta per accogliere e trattenere, per arricchirsi e accumulare, e qualcosa si perde, nella silenziosa evoluzione del paesaggio, nel nuovo quotidiano che diventa abitudine. Però quello che resta vale la pena essere esplorato, rimescolato, vissuto, perché potrà sembrare un altro, un nuovo, un temporaneo, (una insalata?), ma quello che resta sei semplicemente tu.

Di competizioni e farmacie

Quando la farmacista ha detto quella parola, diarrea, in risposta al ragazzo giapponese che non riusciva ad esprimersi alla perfezione, lì nel centro di Valencia, tu in attesa della sua collega momentaneamente scomparsa hai accennato ad un sorriso, non per il povero giapponese, che non son cose per cui gioire, ma perché certe parole son più simpatiche d'altre e fan sempre un po' ridere, come cacca, pipì, solletico. Sarà che risvegliano il bambino che c'è in noi. Poi, quando dopo diversi altri gesti e verbi non coniugati e tante altre parole lanciate in aria con pronunce maldestre nella speranza di farsi capire, la farmacista al tuo lato finalmente indovina, eritema solare, dice, in una Valencia colpita dalla forte ondata di calore dell'anno 2015, mentre tu aspetti all'altra cassa la collega che ancora non si sa dov'è. Allora pensi, diarrea ed eritema, beh il giapponese non se la starà passando proprio benissimo. E siccome sei quasi obbligato a quel teatro, del samurai nipponico in cerca della traduzione risolutiva, e della farmacista valenciana dalle espressioni un po' crucciate, non puoi far a meno d'ascoltare l'ennesima richiesta, la più lunga, difficile da spiegare, complicata da capire, fin quando la ragazza quasi grida un Ah liberatorio, è la pillola del giorno dopo. Poraccio, pensi, il giapponese in vacanza in Spagna se la ricorderà per un pezzo quest'estate sicuramente non fortunatissima, d'improvviso l'osservi quasi con compassione e nascondi lo sguardo sui tuoi piedi, non sia mai che qualcuno potesse leggere i tuoi pensieri. Eppoi, ostaggio di quell'attesa imprevista, per la collega inghiottita da archivi di farmaci mutanti, pensi che sicuramente, senza dubbio alcuno, quei malori orientali avranno valso la vittoria giornaliera, forse anche quella mensile, alla farmacista che ha collezionato in un sol colpo diarrea, eritema e pillola. Chissà quanti punti, in quella competizione che sicuramente, senza dubbio alcuno, avranno tra loro i farmacisti, a chi becca il caso umano peggiore e accumula punti, per ogni malanno, per ogni prescrizione. Pensi, quel Ah liberatorio forse era anche esultanza, oramai padrona della vittoria schiacciante. Pensi, certo con la collega che scompare per tempi così lunghi però, la competizione non deve esser poi così impossibile. Ecco perché un farmacista non gioisce mai per una scatola di cerotti. O uno spazzolino. Un pacchetto di zigulì. (Si vendono ancora - ti domandi - le zigulì?). Son tutte cose che valgono quasi zero punti. Son tutte cose che non aiutano, nella scalata alla classifica generale.
E mentre certi pensieri s'intrecciano rapidamente con la loro chiarezza cristallina, e mentre il giapponese lascia la farmacia con il suo bottino di medicine risolutive ed un sorriso di pene già alleviate, mentre la farmacista annota i punti guadagnati sullo scontrino che userà come prova della sua vittoria, ecco che riemerge la collega dall'apnea in mondi alieni. E tu, quasi con un pizzico d'imbarazzo, nella consapevolezza di lasciar briciole di punti, chiedi il tuo collirio sottovoce, che una congiuntivite non varrà quasi nulla in classica, pensi, e con la coda dell'occhio vedi l'altra farmacista già gioire. Mi dispiace, mimi con lo sguardo, quando paghi senza dire una parola. Tranquillo non è grave, sembra dire la farmacista, nel consegnare il collirio a quel cliente quasi depresso.

Di neonati e scarafaggi

Te lo sei ripetuto spesso, mentre il ventre di tua moglie si trasformava magicamente e l'attesa s'indolciva di progetti e preparativi. Te lo sei ripetuto soprattutto quando vedevi i bambini degli altri, piccolissimi, fragilissimi, tanto issimi. Hai cercato anche di spiegarlo a tua moglie, cercando di trovare i momenti giusti, dove la simpatia potesse incontrare il raziocinio condito di delicatezza, che di fronte alla creatura appena nata, di fronte al risultato di quel lungo percorso di vita, bisognava restare oggettivi su alcuni aspetti, lucidi, senza lasciarsi trasportare dai soliti sentimentalismi cinematografici, senza cadere in schemi di frasi ripetute e contrazioni del viso già viste, osservate, immaginate. Ma lei non capiva. Pensavi capisse. Ma lei non capiva, non capiva perché continuassi a ripetere che i bambini appena nati, quel dono divino che arriva ad irradiare la vita di coppia con sorrisi, luce e tanti pannolini, appena nati son quasi sempre brutti, alcuni bruttissimi, ma per un principio di sopravvivenza della specie non lo ammetteremmo mai, non lo capiamo, non lo vediamo. Quando un amico ti mostra la foto di suo figlio appena nato, lo pensi subito, che brutto, ma rispondi con qualche aggettivo molto coccolone per la gioia del papà e lo svincolo dall'imbarazzo. La sincerità spesso deve sacrificarsi in nome dell'ordine sociale, del quieto vivere, della pigrizia del dover dar poi spiegazioni troppo lunghe e che comunque sai già non verrebbero capite. La pigrizia spesso è alla base della pace nel mondo. Che i neonati siano quasi sempre brutti per te è quasi un dato di fatto e hai cercato più volte di spiegare quella frase a tua moglie, quel ogni scarrafone è bello a mamma soja, ma già solo l'accostamento di uno scarafaggio, sia pure con una metafora, ad un neonato no, non le piaceva. Le hai fatto ascoltare la canzone, ma un po' il dialetto non facile da capire per lei, un po' la premessa che ne aveva già inquinato l'ascolto, non hanno cambiato il suo sguardo crucciato.

Poi è nato vostro figlio. E lei ha detto che è bellissimo, con gli occhi lucidi dall'emozione, tu pure eri emozionato, ovviamente, ma brutto era brutto, lì ancora macchiato di sangue, con la pelle dal colore ancora violaceo, rugoso, gli occhi gonfi per il parto e il pianto liberatorio. Non hai detto che era brutto, per non rovinare il momento idilliaco, ma non hai detto neanche che fosse bellissimo. Hai annuito, convinto che l'emozione giustificasse anche la mancanza di parole. Eppoi pensavi a tante altre cose, alla salute, a lei, a lui, alle infermiere, al da farsi. Due giorni dopo era già bellissimo, non volevi staccargli gli occhi di dosso. Una settimana dopo era il più bello del mondo, non smettevi di mandare foto ai tuoi amici. Un mese dopo hai rivisto le foto di quando aveva due giorni, di quando aveva una settimana, e paragonandolo al bambino del presente sì, era più brutto. Quello del presente però era bellissimo. Hai mostrato la foto a tua moglie, di quando aveva tre o quattro giorni, sperando che ammettesse che sì, non era poi questo neonato bellissimo che gli occhi di genitori vedevano in quel momento. Era ancora bellissimo invece, per lei. Le hai ripetuto che giustamente, ogni scarafaggio è bello agli occhi di sua madre. Ti ha licenziato con un gesto un po' stizzito della mano ed è tornata alle sue faccende, mentre tu fissavi la foto sul cellulare continuando a ripetere che bisognava essere oggettivi, uscire dal ruolo di genitori e provare a vederlo con freddezza. Ieri hai proposto di portarlo a provini per pubblicità per bambini, perché a nove mesi è troppo bello, è il bambino più bello del mondo, convintissimo che non avrebbero mai potuto negarlo, rifiutarlo. Lei hai detto che forse esageravi un po'.

La cronoagenzia, linkata

Ce l'avevi in mente da tempo, come un puzzle di pensieri da incollare con qualche avverbio e congiunzione e trasformare in conclusione, poi all'improvviso leggi tutto qui e allora - per il principio stesso di quel post, e per coerenza necessaria - abbandoni tutto e aggiungi il link. Sperando di rimediare, in qualche modo.

Benvenuti al sud

Ogni volta che atterri all'aeroporto di Napoli e noleggi l'auto e parti verso il sud, attraversando terre dove la virilità dell'uomo tatuato si misura ancora in numero di sorpassi veloci a destra, dove clacson e fari alti diventano continui messaggi minacciosi di fretta e prepotenza in terza corsia nonostante la velocità già oltre il limite, dove la corsia d'emergenza è la scorciatoia di massa per evitare la coda dei fessi al semaforo, c'è sempre un pensiero che rimbalza tra consuetudini oramai assimilate e consapevolezze che non dovrebbero più trasformarsi in lamenti, non fosse altro che per la loro irriducibile periodicità e la certezza d'una ennesima e puntualissima conferma al prossimo viaggio; quando poi al parcheggio a l'autogrill spuntano dall'ombra personaggi leggendari come i venditori di calzini con fare tra amicizia e ovvietà, o quelli di accendini che non si fermano mai al primo rifiuto e continuano quasi dovessi invitarli per un caffè, quello stesso pensiero diventa prurito che sbuffa, tra un mezzo sorriso di sarcasmo e una testa che scuote una negazione riciclata; ma quando poi passi una prima rotonda con statua grande di Padre Pio ed il messaggio ai turisti sicuramente non internazionali "Benvenuti nel Cilento", e una seconda rotonda con vergine e bambino a ripeterti lo stesso messaggio in mosaico e colori, e ti lasci alle spalle una terza rotonda con Madonna su sfondo di spiaggia e sole a ribadire lo stesso benvenuto, fino a cinque rotonde, una per paese, un padre pio e quattro Marie, ognuna col suo sforzo d'apparire credibile, quasi fosse una competizione a chi riesce a beatificare di più il passaggio, a chi sottolinea di più la religiosità presunta della popolazione e la falsità negli usi e costumi, lasci che quel pensiero e quel prurito si esprimino e sintetizzino in qualcosa di più concreto, pensi davvero che un Benvenuti nel medioevo sarebbe più sincero e attrattivo, almeno certificherebbe consapevolezze ben radicate e allevierebbe aspettative malamente annaffiate di nostalgia.

L'educazione e le barbarie

"La civilizzazione è un insieme di tecniche mediante le quali il cervello del cacciatore-raccoglitore impara a riorganizzarsi. E questo fragile equilibrio tra funzioni cerebrali "alte" e "basse" si rompe quando scoppiano guerre fraticidie nelle quali escono alla luce gli istinti più brutali e primitivi, e il saccheggio, la violenza e l'assassinio si convertono in qualcosa di quotidiano. Posto che il cervello plastico può far in modo che funzioni che han unito ritornino a separare, la regressione alle barbarie è sempre possibile, e la civilizzazione sarà sempre qualcosa di fragile e vulnerabile che bisogna insegnare ad ogni generazione, come se si trattasse ogni volta di qualcosa di nuovo."

Da "Il cervello infinito", Norman Doidge

L'educazione e il poker

"E il talento non è una qualità ereditata? La polemica tra eredità ed educazione è molto antica. È evidente che tutti i bambini nascono distinti, con caratteristiche differenti. Ma secondo l'opinione scientifica più ampiamente accettata, l'intelligenza dipende in parti uguali dall'eredità e dall'educazione. E ciò lascia aperto, in un bambino sano, molto spazio di gioco. Non tutti nascono ugualmente dotati, ma l'importante è che sviluppino al massimo le proprie capacità. Racconto spesso ai miei alunni più giovani che l'intelligenza umana somiglia molto al gioco del poker. Nella vita come nel gioco si distribuiscono carte che non possiamo scegliere a priori. Genetiche, sociali, economiche, in un caso; carte, nell'altro. In entrambi i casi ci son carte buone e carte inutili, ed indubbiamente meglio tener le buone e non le altre. Ma adesso arriviamo alla domanda importante: vince sempre chi aveva le carte migliori? No. Vince chi gioca meglio con quelle che ha. Ecco cosa possiamo fare attraverso l'educazione: insegnare a giocare bene."

Da "L'educazione del talento", José Antonio Marina