Ma che davvero per la nuova legge controesodo, così, di colpo, adesso tutti gli italiani all'estero decideranno di tornare? Per quelle righe acclamate come un regalo di Natale, come una presa di coscienza, come un atteso passo verso il rientro di quella massa di cervelli in fuga, capitale economico in uscita nei conti dei numeri e del progresso? Peccato che, quel decreto, venga proprio da una classe politica che fino a pochi giorni prima aveva dimostrato per l'ennesima volta la sua materia prima, la sua corruzione, la sua svendita fisica e morale; peccato che ad eleggerla sia stato proprio quell'insieme gelatinoso d'insani rappresentanti della democrazia e detentori del volere degli italiani, sì proprio loro, e anche di quelli emigrati.
Ma che davvero per la nuova legge controesodo, così, di colpo, adesso tutti gli italiani all'estero decideranno di lasciare tutto quello creato altrove in anni di sacrifici, battaglie, compromessi, sconfitte e soddisfazioni? Come se di colpo bastassero tre anni di benefici fiscali a cambiare un paese, una mentalità, un'attitudine culturale, un equilibrio sociale che magari fu davvero causa della partenza, della valigia e dell'emigrazione? O bastano davvero tre anni di sgravi fiscali per ridurre di colpo l'equazione di benessere risolta in un altro posto, per disincantare piaceri ed emozioni scoperte in qualche altro intorno nel mondo e richiamare alla patria, al portafoglio e la dichiarazione dei redditi? Peccato che una legge non è magia e anche se ci sarà quel 30% in meno per lei, quel 20% in meno per lui, fuori per la strada, in ufficio o in coda alla posta, sarà esattamente lo stesso e se s'era lasciato per cambiare, il controesodo cambia poco.
Ma non sarebbe stato più utile ed efficace un cambiamento più pratico e reale, una bella dimissione di massa, una rinuncia di chi è colluso con la mafia, di chi ha cambiato parte ignorando l'elettorato dimenticato, di chi sa gridare solamente al razzismo e l'intolleranza, di chi lascia crollare mura antiche pompeane, di chi vorrebbe arrestare già nella culla chiunque domani possa scendere in piazza e gridare al dissenso, di chi s'inchina alle istituzioni medioevali e papali e chi sorride davanti all'ennesimo plastico di Vespa o detta le notizie di propaganda e insipidità ai telegiornali unilaterali, ecco, non sarebbe stato un miglior regalo di Natale?
Ma che davvero gli italiani all'estero non aspettavano altro che qualche soldo in più in Italia per tornare a casa, rientrare nei confini di lingua e sole, volare indietro e non lasciare più pasta, pizza e busta paga? E tu, tu davvero tornerai ringraziando col sorriso il controesodo? Io no, ma quel provvedimento è diventato l'ennesimo pretesto familiare per rinforzare la classica domanda "ma quando torni?" perché adesso ci sono anche gli sgravi fiscali, c'è la coscienza delle cose, il governo ti aiuterà a rientrare (ma chi aveva chiesto aiuto? Ha bisogno d'aiuto chi è in difficoltà non chi sta bene altrove... ) e più che un regalo è servito ad inquinare umori altrimenti migliori. Succede anche questo, il giorno di Natale.
La fuga dei cervelli al sapor di cioccolato
Così dopo una sosta a Roma e prima del ritorno a casa, il rientro dell'emigrante fa una tappa oramai tradizionale all'università, per il pranzo natalizio del laboratorio dove hai lavorato a due tesi di laurea, dove poi hai continuato con un contratto di un annetto e dove a malincuore hai deciso di non tentare un dottorato di ricerca per umori allora poco stabili scaturiti poi nella partenza per Dublino.
Quando il professore scarta la scatola dei famosi cioccolatini belgi che hai portato nella valigia mai troppo piena per certi pensieri, tra il laboratorio affollato, la tavola bandita a festa e le tante voci, forchette e sorrisi, c'è chi non aspetta altro che provare una pralina e mischiarne al ripieno i mille sapori già assaggiati. Ed ecco che il prof si lascia andare ad una battuta che irrimediabilmente farà echo tra gli sguardi persi nel finestrino del treno lungo il viaggio di ritorno:
Fuga di cervelli - urla alla folla affaccendata, con la scatola di praline tra le mani - e rientro di cioccolata... beh non so se lo scambio valga davvero la pena...
Quella cioccolata - pensi - potrà essere (e sicuramente sarà stata) anche dolcissima per il palato, ma che retrogusto amaro avrà avuto scendendo in gola dopo quelle parole...
Quando il professore scarta la scatola dei famosi cioccolatini belgi che hai portato nella valigia mai troppo piena per certi pensieri, tra il laboratorio affollato, la tavola bandita a festa e le tante voci, forchette e sorrisi, c'è chi non aspetta altro che provare una pralina e mischiarne al ripieno i mille sapori già assaggiati. Ed ecco che il prof si lascia andare ad una battuta che irrimediabilmente farà echo tra gli sguardi persi nel finestrino del treno lungo il viaggio di ritorno:
Fuga di cervelli - urla alla folla affaccendata, con la scatola di praline tra le mani - e rientro di cioccolata... beh non so se lo scambio valga davvero la pena...
Quella cioccolata - pensi - potrà essere (e sicuramente sarà stata) anche dolcissima per il palato, ma che retrogusto amaro avrà avuto scendendo in gola dopo quelle parole...
I pensieri dei calvi
Ti chiama alla sua scrivania, il collega responsabile della documentazione e di chissà quale altro compito noioso, un parigino sulla cinquantina o forse più, dalla fronte stempiata da età e natura, ed inizia a vomitare un fiume di parole, specifiche e protocolli, come fosse (e sicuramente lo era) cantilena già ripetuta, macinata e bestemmiata. E mentre quella fiumana di regole e imperativi si riversa per l'ennesima volta nell'aria, tu ti fissi involontariamente sulle forme della sua fronte, tra le rughe ed i segni del tempo, partendo dalle sopracciglia folte e percorrendola fin dove la calvizia lascia spazio a qualche capello sporadico, testimone sopravvissuto di un passato remoto. Lui non può seguire il tuo sguardo perché troppo intento a non saltare nessuna procedura, a non dimenticare nessun particolare di tutto quello che sicuramente non farai prima delle vacanze di Natale e forse neanche dopo, perché le priorità non son affatto per la documentazione e già lo sai.
Ma devi stare lì, ad ascoltare, magari con un po' più di concentrazione, anche se non ci riesci, quel cranio calvo ti richiama. I pensieri dei calvi - pensi - non hanno nascondiglio, non possono rifugiarsi all'ombra di un ricciolo o dietro una ciocca di capelli maldestra, stanno lì, in balia del sole, della pioggia, della polvere. D'inverno, probabilmente, con questo freddo, senza una chioma a coprirli, devono star tutti vicini a riscaldarsi a vicenda, saranno pochi quei pensieri solitari, quelli un po' soli, distanti dagli altri, quelli spesso ribelli. Ecco, i calvi non saranno mai rivoluzionari d'inverno. D'estate, invece, non potranno mai stare tutti insieme, lì, in balia del sole, senza un ciuffo a fargli ombra, dovranno evitare gruppi troppo affollati, tanti pensieri diversi magari storditi dal caldo ed il rosso della pelle abbronzata. Ecco, i calvi d'estate saranno sempre un po' più pazzi. In primavera - ma certo, pensi - in primavera i calvi avranno i pensieri migliori.
E se qualcuno prova a leggergli la mente, ad un calvo, è tutto più facile, non deve filtrare i mille intrecci di capelli e ricci, le tele di pettinature spettinate, no, deve soltanto attraversare la pelle e leggere quei pensieri, senza protezione, senza scudi pelosi. Non c'è davvero un nascondiglio - e invece no, eccolo - se non le orecchie - e gli fissi di colpo le orecchie, ma certo le orecchie - dove i pensieri più lesti possono rifugiarsi, per non essere letti. Ad esempio, leggesti che i problemi matematici sono spesso risolti nella parte prefrontale della corteccia cerebrale, mentre la corteccia visiva primaria, dietro, lì, vicino al collo, è dove l'immaginazione prende piede. Ma certo - quasi esulti - le fantasie saranno sempre al sicuro, lì, vicino al collo c'è sempre un po' di chioma rimasta viva, i calvi sapranno immaginare in modo perfetto tutto l'anno. Quando un giorno sarò calvo - pensi e sorridi -, perché prima o poi succederà, non avrò di che preoccuparmi, la mia fantasia sarà al sicuro. L'ho scientificamente dimostrato - ti complimenti con te stesso, quando ad un certo punto ti accorgi che il collega ti fissa con aria turbata.
lui: "Hai capito quello che ti ho appena spiegato?"
tu: "Sì, sì, nessun problema".
lui: "Bene, allora ripetimelo".
Ecco, adesso prova a spiegargli tutte quelle teorie, prova a ringraziarlo per il risultato scientifico ottenuto, tutto grazie alla sua calvizia, tutto mentre avresti dovuto impegnarti sulle specifiche e quelle sigle da memorizzare... provaci un po' terminando in qualche modo quel "Ehmmm" appena iniziato.
Ma devi stare lì, ad ascoltare, magari con un po' più di concentrazione, anche se non ci riesci, quel cranio calvo ti richiama. I pensieri dei calvi - pensi - non hanno nascondiglio, non possono rifugiarsi all'ombra di un ricciolo o dietro una ciocca di capelli maldestra, stanno lì, in balia del sole, della pioggia, della polvere. D'inverno, probabilmente, con questo freddo, senza una chioma a coprirli, devono star tutti vicini a riscaldarsi a vicenda, saranno pochi quei pensieri solitari, quelli un po' soli, distanti dagli altri, quelli spesso ribelli. Ecco, i calvi non saranno mai rivoluzionari d'inverno. D'estate, invece, non potranno mai stare tutti insieme, lì, in balia del sole, senza un ciuffo a fargli ombra, dovranno evitare gruppi troppo affollati, tanti pensieri diversi magari storditi dal caldo ed il rosso della pelle abbronzata. Ecco, i calvi d'estate saranno sempre un po' più pazzi. In primavera - ma certo, pensi - in primavera i calvi avranno i pensieri migliori.
E se qualcuno prova a leggergli la mente, ad un calvo, è tutto più facile, non deve filtrare i mille intrecci di capelli e ricci, le tele di pettinature spettinate, no, deve soltanto attraversare la pelle e leggere quei pensieri, senza protezione, senza scudi pelosi. Non c'è davvero un nascondiglio - e invece no, eccolo - se non le orecchie - e gli fissi di colpo le orecchie, ma certo le orecchie - dove i pensieri più lesti possono rifugiarsi, per non essere letti. Ad esempio, leggesti che i problemi matematici sono spesso risolti nella parte prefrontale della corteccia cerebrale, mentre la corteccia visiva primaria, dietro, lì, vicino al collo, è dove l'immaginazione prende piede. Ma certo - quasi esulti - le fantasie saranno sempre al sicuro, lì, vicino al collo c'è sempre un po' di chioma rimasta viva, i calvi sapranno immaginare in modo perfetto tutto l'anno. Quando un giorno sarò calvo - pensi e sorridi -, perché prima o poi succederà, non avrò di che preoccuparmi, la mia fantasia sarà al sicuro. L'ho scientificamente dimostrato - ti complimenti con te stesso, quando ad un certo punto ti accorgi che il collega ti fissa con aria turbata.
lui: "Hai capito quello che ti ho appena spiegato?"
tu: "Sì, sì, nessun problema".
lui: "Bene, allora ripetimelo".
Ecco, adesso prova a spiegargli tutte quelle teorie, prova a ringraziarlo per il risultato scientifico ottenuto, tutto grazie alla sua calvizia, tutto mentre avresti dovuto impegnarti sulle specifiche e quelle sigle da memorizzare... provaci un po' terminando in qualche modo quel "Ehmmm" appena iniziato.
Il problema dell'emigrante
Il problema dell'emigrante è che egli non c'è, non c'è e non può esserci perché è semplicemente altrove, è andato via, è scappato, è soltanto emigrato, è andato a provare, ha iniziato a viaggiare, ha detto che torna presto, poi però rimane un altro anno e un altro e un altro ancora e alla fine rimane altrove, mentre nel suo paese non c'è, tra i suoi amici, a casa sua: non c'è. Ed è questo il problema dell'emigrante. Perché mentre vive all'estero e si ubriaca d'emozioni, di esperienze, cade, si rialza, piange, esulta, nei mille compromessi, tra difficoltà e vittorie, certo ci son tanti problemi da affrontare, da risolvere, a cui adeguarsi, ma uno tra tutti è quello dell'assenza, l'assenza dalle mura domestiche, dagli abbracci di chi ha condiviso la propria infanzia con lui ed i luoghi non più semplici oggetti ma parti del proprio essere, perché quando si cresce in un luogo poi se ne diventa parte e un muretto, una panca, un giardinetto o una piazza non son più semplici muretti o strade ma contenitori di ricordi, immagini e memorie.
E l'emigrante non c'è, non c'è tra le abitudini ed i compromessi in cui sono immersi tutti quelli che ha lasciato, non c'è in quell'intorno, non ne subisce le conseguenze, gli influssi ed i cambiamenti, non si deve adattare a cose poi divenute nel frattempo naturali per chi lì ha continuato ad esserci. E se per qualcuno questa assenza da schemi che siano politici, economici, sociali, se per qualcuno possa essere un vantaggio, una liberazione, una meta ambita e raggiunta, poi per altri si traduce in una sensazione, un sentimento strano al rientro, quel sentirsi quasi straniero a casa, davanti alla tv, tra i manifesti per la strada, durante una fila ad uno sportello. Stranieri. Perché non c'è stato, l'emigrante non c'è stato mentre questo cambiava e quello si adattava e l'altra cosa ancora nuova, in quel modo, e allora così e non in altra maniera; mentre lui scopriva un altro mondo, altri modi di pensare, di vedere le cose; e cambiava. E non è soltanto il proprio armadietto che magari la mamma ha adibito a qualche altro uso spostando il resto della sua roba da qualche altra parte, non è solo il senso unico sotto casa che ha cambiato direzione di marcia e lo fa sentire stranito mentre parcheggia, è anche quello ma c'è dell'altro, c'è che magari la coppia di amici adesso non sta più insieme, il gruppo di ragazzi si è diviso perché lui ha litigato con l'altro e lei ha cambiato abitudini; c'è che nel frattempo i genitori sono invecchiati, inesorabilmente, e ritrovarli a qualche mese di distanza poi fa un certo effetto; c'è che i nonni, sì i nonni stanno per morire e durante gli ultimi anni lui non c'è stato, è stato all'estero, è stato altrove, li ha visti a Natale, un pranzo estivo e forse a Pasqua. Quando arriverà quella chiamata, perché sì, prima o poi arriverà, ad annunciare la morte del nonno, tutti i sorrisi, le gioie, le soddisfazioni raccolte in anni all'estero cadranno come sabbia tra le mani, perché nel frattempo a casa la vita andava avanti, inevitabilmente, e lui non c'era, non c'era a vivere gli ultimi anni del nonno così come i primi anni del nipote, non c'era mentre il babbo aumentava i capelli bianchi e la mamme le rughe sulle mani. Non c'era e non potrà tornare indietro.
Certo, lo stesso problema può essere comune a chi parte da Catania per andar a lavorare a Milano, e anche lui è un emigrante, è andato altrove; ma la cosa magari diventa più marcata per chi deve contare le distanze in migliaia di chilometri, per chi spesso non può tornare a casa per un fine settimana ma ha bisogno di più giorni e spesso le vacanze a lavoro sono da schedulare minuziosamente per organizzare rientri e vacanze che non siano rientri. Certo può arginare il problema, può cercare di aumentare la frequenza dei ritorni, può telefonare più spesso con chiamate che non siano la solita filastrocca "che fai, come stai, che hai mangiato, che tempo fa", come lo potrebbe fare il catanese andato a Milano, ma sull'emigrante pesa ancora un altro fattore: è andato via, un via che oggi dovrebbe sembrare più leggero, ma che spesso pesa per non essere rimasto nei confini nazionali, in un intorno allora comune, in una scelta per alcuni addirittura egoista ma che invece non è altro che un fenomeno naturale sicuramente agevolato dai progressi moderni.
E l'emigrante non c'è, non c'è tra le abitudini ed i compromessi in cui sono immersi tutti quelli che ha lasciato, non c'è in quell'intorno, non ne subisce le conseguenze, gli influssi ed i cambiamenti, non si deve adattare a cose poi divenute nel frattempo naturali per chi lì ha continuato ad esserci. E se per qualcuno questa assenza da schemi che siano politici, economici, sociali, se per qualcuno possa essere un vantaggio, una liberazione, una meta ambita e raggiunta, poi per altri si traduce in una sensazione, un sentimento strano al rientro, quel sentirsi quasi straniero a casa, davanti alla tv, tra i manifesti per la strada, durante una fila ad uno sportello. Stranieri. Perché non c'è stato, l'emigrante non c'è stato mentre questo cambiava e quello si adattava e l'altra cosa ancora nuova, in quel modo, e allora così e non in altra maniera; mentre lui scopriva un altro mondo, altri modi di pensare, di vedere le cose; e cambiava. E non è soltanto il proprio armadietto che magari la mamma ha adibito a qualche altro uso spostando il resto della sua roba da qualche altra parte, non è solo il senso unico sotto casa che ha cambiato direzione di marcia e lo fa sentire stranito mentre parcheggia, è anche quello ma c'è dell'altro, c'è che magari la coppia di amici adesso non sta più insieme, il gruppo di ragazzi si è diviso perché lui ha litigato con l'altro e lei ha cambiato abitudini; c'è che nel frattempo i genitori sono invecchiati, inesorabilmente, e ritrovarli a qualche mese di distanza poi fa un certo effetto; c'è che i nonni, sì i nonni stanno per morire e durante gli ultimi anni lui non c'è stato, è stato all'estero, è stato altrove, li ha visti a Natale, un pranzo estivo e forse a Pasqua. Quando arriverà quella chiamata, perché sì, prima o poi arriverà, ad annunciare la morte del nonno, tutti i sorrisi, le gioie, le soddisfazioni raccolte in anni all'estero cadranno come sabbia tra le mani, perché nel frattempo a casa la vita andava avanti, inevitabilmente, e lui non c'era, non c'era a vivere gli ultimi anni del nonno così come i primi anni del nipote, non c'era mentre il babbo aumentava i capelli bianchi e la mamme le rughe sulle mani. Non c'era e non potrà tornare indietro.
Certo, lo stesso problema può essere comune a chi parte da Catania per andar a lavorare a Milano, e anche lui è un emigrante, è andato altrove; ma la cosa magari diventa più marcata per chi deve contare le distanze in migliaia di chilometri, per chi spesso non può tornare a casa per un fine settimana ma ha bisogno di più giorni e spesso le vacanze a lavoro sono da schedulare minuziosamente per organizzare rientri e vacanze che non siano rientri. Certo può arginare il problema, può cercare di aumentare la frequenza dei ritorni, può telefonare più spesso con chiamate che non siano la solita filastrocca "che fai, come stai, che hai mangiato, che tempo fa", come lo potrebbe fare il catanese andato a Milano, ma sull'emigrante pesa ancora un altro fattore: è andato via, un via che oggi dovrebbe sembrare più leggero, ma che spesso pesa per non essere rimasto nei confini nazionali, in un intorno allora comune, in una scelta per alcuni addirittura egoista ma che invece non è altro che un fenomeno naturale sicuramente agevolato dai progressi moderni.
L'emigrante lo sapeva, sapeva tutto questo prima di partire, ma ha prevalso la voglia di provarci, quel foglio bianco da riempire, magari la rabbia verso insoddisfazioni continue o soltanto quel bisogno incontrollabile di scoprire, di confrontarsi e condividere; e se non sapeva, se lo ignorava, se non pensava fosse così, poi con il tempo ne avrà compreso la presenza. E per quanto possa gioire, per quanto possa confermare la volontà di continuare, di rimanere altrove, perché è felice, perché sta bene, perché sta meglio, l'emigrante porterà sempre con se quel senso di assenza, costretto tra una smorfia amara, una lacrima passeggera o semplicemente una consapevolezza digerita, a convivere con esso.
Lo scienziato folle
Lo scienziato folle... (perché folle? Vi dirò perché divenne folle). Laureato, premiato, stimato, questo scienziato studiò l’amore, quando un un giorno s’era innamorato d’una fanciulla dal dolce calore. Eccitato, strambo, imbarazzato, abbandonò le ricerche sul gene dedicandosi al sentimento nato, ma senza sapere delle future pene. Sempre rinchiuso nei suoi studi non conosceva il mondo di fuori, contro gli altri non aveva scudi né immaginava imminenti dolori. La ragazza lo trasse in inganno per scoprire i ritrovati segreti, causando al cuore gran danno fra menzogne e mirabili reti. Presto lo scienziato capì tutto: fu tradito e poi abbandonato. Ora il sentimento era distrutto e il suo pianto rimase isolato. Nel laboratorio aveva un amico, un robot che costruì in passato: - Compagno mio, sai che ti dico? L’amore è sofferenza, m’ha dato sorrisi e lacrime, voli e impatto. Sto male, amico mio, sto male! Mi rapì il cuore… senza riscatto. Era meglio essere altro animale o forse un robot anch'io, sicuro, immune all’amore! Devo tentare!
Divenne folle, dedicando il futuro allo strambo progetto: cambiare, smettere d’essere umano: Bene! Anch'io un robot! Senza cuore! Dimenticherò lei e le altre iene, così non proverò mai più dolore!
Lavorò mesi e mesi al progetto, sino a giungere a buoni risultati: aveva silicio e microchip nel petto e i cinque sensi tutti elettrizzati. Finalmente terminò il suo lavoro: era felice di non poter mai più amare o forse illuso d’aver spento il coro che nel cuore sa far innamorare. Ma l’amore non si regola in un tasto, non si scinde dal suo sito naturale, pur se c’è di carne e ferro impasto e la mente divien sede demenziale. D’improvviso infatti sfogò in un pianto, quando vide una foto della ragazza:
- No! – urlò malato – Che schianto! Non credevo davvero… Impazza ancora, in me, l’amore… Adesso? Lo scan disk per trovar l’errore! Ecco cosa fare: subito! Che fesso! Devo analizzare questo cuore…
Lo scienziato folle... (Perché folle? Divenne folle per amore). Collegando al computer generale il cuore ormai mezzo robotizzato, eseguì estesa scansione globale: Tutto perfetto, era tutto ordinato. Lo scienziato soffriva d’amore: - Oh, computer, ti prego, aiuto! Ora... Deframmentami il cuore. Oppure... un virus sconosciuto innesta nel sistema e danneggia ogni cosa, ogni circuito, presto! Sento quel coro, dentro echeggia e non smette, anzi si fa più lesto!
Prima di arrestare il povero matto (non era più umano né congegno) il computer con un calcolo esatto lo collegò al web e in tutto il regno, su ogni pc in rete apparve l’amore: ogni sito presentò la triste storia, tutto internet si riempì del dolore dello scienziato folle senza gloria. Anch'ella lo rivide nello schermo, la ragazza che lo ferì per gioco: s’osservarono: lui rimase fermo e in entrambi si riaccese il fuoco. Ma troppo tardi! Destino beffardo! Dal cielo si scagliò un forte lampo che colpì il laboratorio come dardo nel bersaglio: non ci fu più scampo. Esplose il computer e il complesso, ogni sogno crollò in quel momento non appena il disastro fu trasmesso alla metà robotica del cuore spento. La ragazza rimase così ad osservare, piangendo sul modem, senza ritorno: ma troppo tardi! Era tardi per amare e tornare indietro, fino a quel giorno...
Non un battito né un output rovinato: lo scienziato folle era morto dal dolore e dal processore nel petto installato scivolò una lacrima: frammento d’amore. Lo scienziato folle... (Perché folle? Quando il cuore si nutre di follia...).
P.s. Perché questo post? Niente, ho ritrovato questa favoletta che scrissi nel 2001 (quando avevo 19anni) e ho pensato di condividerla. Ce ne sarebbero tante altre, ma c'ho vergogna.
Divenne folle, dedicando il futuro allo strambo progetto: cambiare, smettere d’essere umano: Bene! Anch'io un robot! Senza cuore! Dimenticherò lei e le altre iene, così non proverò mai più dolore!
Lavorò mesi e mesi al progetto, sino a giungere a buoni risultati: aveva silicio e microchip nel petto e i cinque sensi tutti elettrizzati. Finalmente terminò il suo lavoro: era felice di non poter mai più amare o forse illuso d’aver spento il coro che nel cuore sa far innamorare. Ma l’amore non si regola in un tasto, non si scinde dal suo sito naturale, pur se c’è di carne e ferro impasto e la mente divien sede demenziale. D’improvviso infatti sfogò in un pianto, quando vide una foto della ragazza:
- No! – urlò malato – Che schianto! Non credevo davvero… Impazza ancora, in me, l’amore… Adesso? Lo scan disk per trovar l’errore! Ecco cosa fare: subito! Che fesso! Devo analizzare questo cuore…
Lo scienziato folle... (Perché folle? Divenne folle per amore). Collegando al computer generale il cuore ormai mezzo robotizzato, eseguì estesa scansione globale: Tutto perfetto, era tutto ordinato. Lo scienziato soffriva d’amore: - Oh, computer, ti prego, aiuto! Ora... Deframmentami il cuore. Oppure... un virus sconosciuto innesta nel sistema e danneggia ogni cosa, ogni circuito, presto! Sento quel coro, dentro echeggia e non smette, anzi si fa più lesto!
Prima di arrestare il povero matto (non era più umano né congegno) il computer con un calcolo esatto lo collegò al web e in tutto il regno, su ogni pc in rete apparve l’amore: ogni sito presentò la triste storia, tutto internet si riempì del dolore dello scienziato folle senza gloria. Anch'ella lo rivide nello schermo, la ragazza che lo ferì per gioco: s’osservarono: lui rimase fermo e in entrambi si riaccese il fuoco. Ma troppo tardi! Destino beffardo! Dal cielo si scagliò un forte lampo che colpì il laboratorio come dardo nel bersaglio: non ci fu più scampo. Esplose il computer e il complesso, ogni sogno crollò in quel momento non appena il disastro fu trasmesso alla metà robotica del cuore spento. La ragazza rimase così ad osservare, piangendo sul modem, senza ritorno: ma troppo tardi! Era tardi per amare e tornare indietro, fino a quel giorno...
Non un battito né un output rovinato: lo scienziato folle era morto dal dolore e dal processore nel petto installato scivolò una lacrima: frammento d’amore. Lo scienziato folle... (Perché folle? Quando il cuore si nutre di follia...).
P.s. Perché questo post? Niente, ho ritrovato questa favoletta che scrissi nel 2001 (quando avevo 19anni) e ho pensato di condividerla. Ce ne sarebbero tante altre, ma c'ho vergogna.
L'amore il 14 dicembre
lui: Scusa ho fretta... devo andare, devo andare...
l'altro: Andare dove?
lui: Ma che non lo sai?
l'altro: Che?
lui: C'è la fiducia il 14, bisogna fare in fretta che il mercato è aperto!
l'altro: Ah sì, al governo, ma... la fiducia bisogna guadagnarsela nella vita, mi diceva il nonno...
lui: Ma più che guadagnarsela, bisogna venderla, mi diceva il ragioniere...
l'altro: In che senso? No aspetta, io intendevo... verso il paese, verso i cittadini, dobbiamo guadagnarci la loro fiducia, altrimenti che senso ha?
lui: Ha il senso che guadagni, che per il consenso c'è tempo, ma non ora... adesso è tempo di comprare, o meglio... di vendersi
l'altro: In che senso?
lui: Che se mi compri adesso, già mi fido di te, subito, adesso, all'istante, ti voto la fiducia!
l'altro: Ma come fai? Se ieri hai detto che non ti saresti mai fidato... se ieri avevi detto di non scendere a compromessi... che mai e poi mai con loro, e lo hai detto pubblicamente, tutti lo sanno, perderai la loro fiducia!
lui: Lo so, ma c'è chi si compra la mia, guarda, se mi compri già ti amo!
l'altro: E ti innamori così?
lui: Ma che non lo sai? L'amore è così, ti colpisce all'improvviso!
l'altro: Ma che davvero così veloce?
lui: Praticamente il tempo di una transazione,
l'altro: L'amore è proprio qualcosa di strano e veloce, lo diceva sempre il nonno...
lui: Sì, lo dice anche il mio ragionere, e pensa che mica lo conosceva a tuo nonno...
l'altro: Andare dove?
lui: Ma che non lo sai?
l'altro: Che?
lui: C'è la fiducia il 14, bisogna fare in fretta che il mercato è aperto!
l'altro: Ah sì, al governo, ma... la fiducia bisogna guadagnarsela nella vita, mi diceva il nonno...
lui: Ma più che guadagnarsela, bisogna venderla, mi diceva il ragioniere...
l'altro: In che senso? No aspetta, io intendevo... verso il paese, verso i cittadini, dobbiamo guadagnarci la loro fiducia, altrimenti che senso ha?
lui: Ha il senso che guadagni, che per il consenso c'è tempo, ma non ora... adesso è tempo di comprare, o meglio... di vendersi
l'altro: In che senso?
lui: Che se mi compri adesso, già mi fido di te, subito, adesso, all'istante, ti voto la fiducia!
l'altro: Ma come fai? Se ieri hai detto che non ti saresti mai fidato... se ieri avevi detto di non scendere a compromessi... che mai e poi mai con loro, e lo hai detto pubblicamente, tutti lo sanno, perderai la loro fiducia!
lui: Lo so, ma c'è chi si compra la mia, guarda, se mi compri già ti amo!
l'altro: E ti innamori così?
lui: Ma che non lo sai? L'amore è così, ti colpisce all'improvviso!
l'altro: Ma che davvero così veloce?
lui: Praticamente il tempo di una transazione,
l'altro: L'amore è proprio qualcosa di strano e veloce, lo diceva sempre il nonno...
lui: Sì, lo dice anche il mio ragionere, e pensa che mica lo conosceva a tuo nonno...
Rincoglionito
Così poi esci di fretta dal corso serale di francese, perché sono le 9menoqualcosa e dopo una giornata in ufficio di riunioni, decisioni e design pattern, dopo le quasi tre ore di accenti francesi sbagliati e risate isteriche, ecco non vedi l'ora di prendere la metro, tornare a casa, staccare la spina, al caldo, mangiare, che c'è anche la ragazza che ti aspetta per cena, che brava, e allora forza, senza perdere tempo, prendi la metro, fai il cambio di linea, riprendi la metro e rimani vicino al portellone, per poi essere uno dei primi ad uscire, per fare in fretta, tornare a casa, il riposo, cenare, soltanto due fermate e sarai quasi arrivato. E mentre la metro corre e corre per portarti a destinazione il più rapidamente possibile, ti rivedi riflesso nel vetro un po' sporco del vagone e incominci a pensare, ti perdi in qualche labirinto cerebrale, di quelli sempre pieni di qualche sorta di buco nero mentale, che si attraversano, ti risucchiano, ti portano lontano, e rimbalzi da un dubbio ad un'immagine, da un ricordo a qualche riflessione, fino ad arrivare ad un pensiero, fisso, chiaro, irrisolto. Poi d'improvviso qualcuno ti spintona per sbaglio, perché sei sempre lì, a lato del portellone, pronto per uscire, tornare a casa, e torni alla realtà. La gente esce, esci anche tu e non riconosci la fermata, ti accorgi che qualcosa non va, non capisci dove sei, alzi gli occhi e leggi con le pupille dilatate "Gribaumont". Che? Sì, ti accorgi che casa tua era CINQUE fermate fa. Chiudi gli occhi, vorresti non fosse vero, c'era la fretta, c'era il desiderio del caldo, di casa, di cena, lei che ti aspetta. Niente, ti sei distratto per quel pensiero. Che poi - ti domandi - che stavo pensando? Eh sì, te lo sei pure dimenticato. Ma che rincoglionito.
Storielle napoletane a Bruxelles
Così si decide che la solita insalata giornaliera oggi proprio non sarebbe andata giù né il panino del salumiere calabrese a pochi minuti a piedi dall'ufficio e allora si va nella stazione vicina, la più grande di Bruxelles, Gare du Midi, a vedere cosa ci sia in giro e si finisce in coda per una porzione di pasta, sì di quella pasta che ti servono in un recipiente di cartone (o di tetrapak, non saprei), quella pasta che molti italiani guarderebbero con occhi distaccati, con la puzza sotto al naso, con lo sguardo pontefice di chi accusa d'eresia. Ma l'aspetto e l'odore non sembrano male e allora che male c'è, si prova.
Mentre sei in fila un tipo sulla trentina ti fissa di lato, gli ricambi lo sguardo ma poi ti distrai altrove.
lui: Scusa - e a volte basta davvero soltanto uno scusa per capire da dove si proviene, quel tipo veniva di sicuro da Napoli e dintorni - sei italiano?
io: Come? - E pensi quanto facile sia leggerti la nazionalità sulla faccia - Sì, perché?
lui: Scusa, ho il treno che parte tra dieci minuti... non mi funziona più il bancomat e mi mancano giusto 5 euro per il biglietto, me lo puoi dare un euro per cortesia?
A quel punto sorrdi, perché quella filastrocca l'avrai sentita almeno un centinaio di volte ma in un'altra stazione, quella Centrale di Napoli, e non l'ascoltavi da almeno qualche anno e mai ti saresti aspettato di ascoltarla di nuovo soprattutto lì, a Bruxelles, in Gare du Midi, da un napoletano chissà come finito da quelle parti in cerca di spiccioli; e ti saresti quasi fermato e chiedergli perché, ascoltare la sua storia, magari capire i come, i quando, in che modo, ma avrebbe avuto poco senso e magari sarebbe stato un inutile monologo senza frutti. E allora sorridi, perché quella filastrocca ti ha riportato alla memoria tante cose, alcune amare altre davvero piacevoli che quasi lo ringrazi.
io: Guarda, lo so che non c'è nessun treno che parte tra dieci minuti - e cerchi di avere un'aria seria, ma tanto non ti riesce - ma tieni, ho giusto un euro, ecco qua.
lui: No, no, ma che hai capito, quello il treno parte per davvero! Grazie, grazie, ciao!
E scompare tra qualche passo dondolante mentre la fila che avanza e lo stomaco che brontola ti richiamano alla pasta, che poi in fondo non era mica tanto male e chi se ne lamenta, di quelle paste commerciale, di quel profano uso di pasta e cartone, magari a casa, da solo, chissà quante volte si sarà mangiato anche di peggio.
Mentre ti allontani rivedi il tipo della filastrocca approcciare un altro signore nella fila e ripetere la scena. La tentazione è troppo forte, qualcosa gliela devi dire.
io: Uè, ma il treno?
lui: Ah, ciao! Eh... l'ho perso, mannaggia, l'ho perso!
io: Ahahahaah, chissà quanti ne perdi ogni giorno, eh?!
E lui ti congeda con un occhiolino e un saluto con la mano, un po' se la ride un po' risponde al tuo sorriso. Ma guarda un po' - pensi - cosa ti può succede anche a Bruxelles!
Mentre sei in fila un tipo sulla trentina ti fissa di lato, gli ricambi lo sguardo ma poi ti distrai altrove.
lui: Scusa - e a volte basta davvero soltanto uno scusa per capire da dove si proviene, quel tipo veniva di sicuro da Napoli e dintorni - sei italiano?
io: Come? - E pensi quanto facile sia leggerti la nazionalità sulla faccia - Sì, perché?
lui: Scusa, ho il treno che parte tra dieci minuti... non mi funziona più il bancomat e mi mancano giusto 5 euro per il biglietto, me lo puoi dare un euro per cortesia?
A quel punto sorrdi, perché quella filastrocca l'avrai sentita almeno un centinaio di volte ma in un'altra stazione, quella Centrale di Napoli, e non l'ascoltavi da almeno qualche anno e mai ti saresti aspettato di ascoltarla di nuovo soprattutto lì, a Bruxelles, in Gare du Midi, da un napoletano chissà come finito da quelle parti in cerca di spiccioli; e ti saresti quasi fermato e chiedergli perché, ascoltare la sua storia, magari capire i come, i quando, in che modo, ma avrebbe avuto poco senso e magari sarebbe stato un inutile monologo senza frutti. E allora sorridi, perché quella filastrocca ti ha riportato alla memoria tante cose, alcune amare altre davvero piacevoli che quasi lo ringrazi.
io: Guarda, lo so che non c'è nessun treno che parte tra dieci minuti - e cerchi di avere un'aria seria, ma tanto non ti riesce - ma tieni, ho giusto un euro, ecco qua.
lui: No, no, ma che hai capito, quello il treno parte per davvero! Grazie, grazie, ciao!
E scompare tra qualche passo dondolante mentre la fila che avanza e lo stomaco che brontola ti richiamano alla pasta, che poi in fondo non era mica tanto male e chi se ne lamenta, di quelle paste commerciale, di quel profano uso di pasta e cartone, magari a casa, da solo, chissà quante volte si sarà mangiato anche di peggio.
Mentre ti allontani rivedi il tipo della filastrocca approcciare un altro signore nella fila e ripetere la scena. La tentazione è troppo forte, qualcosa gliela devi dire.
io: Uè, ma il treno?
lui: Ah, ciao! Eh... l'ho perso, mannaggia, l'ho perso!
io: Ahahahaah, chissà quanti ne perdi ogni giorno, eh?!
E lui ti congeda con un occhiolino e un saluto con la mano, un po' se la ride un po' risponde al tuo sorriso. Ma guarda un po' - pensi - cosa ti può succede anche a Bruxelles!
Changing colours
In meno di un mese siamo passati dal bellissimo giallo autunnale all'altrettanto bello bianco di neve e neve. E Bruxelles cambia colori. Poi dopo la pioggia ininterrotta di questa notte anche il bianco sarà scomparso per cambiare l'ennesimo colore. Foto scattate qui. |
Buongiorno Isabella
Da una ragazza italiana ed una ragazza spagnola a Dublino è nata Isabella e non sto qui a pensare a tutti quegli stupidi divieti di stati laici e conservatori, di religioni dalla falsa morale e dalle concezioni spesso medioevali, dei pregiudizi e delle sentenze di chi è cresciuto nella facile propaganda e non sa accettare perché una famiglia non può essere così e allora non deve, per la mancanza di una figura ritenuta essenziale, per i compromessi, perché semplicemente rompe l'abitudine e lascia perplessi, soltanto perché diverso, soltanto perché nuovo, no, no, quello che penso - e che vedo - è soltanto l'unica cosa essenziale che c'è e che fondamentalmente dovrebbe essere perno di ogni famiglia, perché motore inesauribile che non bada a forme né a schemi né tanto meno a tradizioni secolari: ed è lì, tra loro tre, e si chiama amore.
Ballando con Toto Cotugno, a Bruxelles
Così ti ritrovi sabato sera ad un party a casa di ragazzi dalla maggioranza tedeschi e d'improvviso la playlist spara a massimo volume una canzone che non ti saresti mai aspettato di ascoltare lì, per via delle circostanze, perché ci sono cose che sono decisamente fuori luogo, perché ogni cosa ha una collocazione ben precisa in natura e si tratta di equilibri sottilissimi, spesso quasi impercettibili, ma l'equilibrio è caos e allora ecco quelle parole: è Toto Cotugno - sì, proprio lui - che canta L'italiano, quella sorta di inno, di canto popolare, di ricordo della televisione della nonna, magari di un tormentone estivo quando di tormentoni ancora non si parlava. E mentre torni alla realtà perché magari la birra ti aveva un po' disorientato, vedi i ragazzi tedeschi ballare e cantare in coro, proprio quel coro "Lasciatemi cantare con la chitarra in mano, lasciatemi cantare.. sono un italiano", con un accento magari non italianissimo ma poco conta perché i ragazzi ridono felici, magari sono già sbronzi, magari la canzone piace davvero, magari l'han messa soltanto per farti piacere, pensando che ti sarebbe piaciuta.
E tu stai lì, un po' scioccato dalla cosa, paralizzato tra imbarazzo e incomprensione, ma i ragazzi ti invitano a ballare e non puoi voltare le spalle, non puoi fare come quelli che "no io la pasta la mangio soltanto da me" o "no, la pasta è buona soltanto in Italia", perché magari poi ti ritrovi a cena dall'amico straniero che ha cucinato la pasta proprio per farti piacere e non importa se l'ha fatta cuocere 28 minuti e magari s'è pure dimenticato di mettere il sale nell'acqua, è pasta, sì non sarà come quella di casa, non sarà pasta all'italiana, ma non puoi torcere il naso tra orgoglio e abitudini, soltanto perché sei italiano, soltanto perché la pasta è sacra, perché magari per un italiano è come l'ambrosia per degli dei e o la si mangia per bene o la si rifiuta categoricamente: ma no dai, l'amico l'ha fatta per te, prendi la forchetta e ingoia, tanto è talmente scotta che si scioglie in bocca.
Ed è lo stesso per Toto Cotugno, che non avresti mai ballato dalle tue parti, che se lo dici a qualche amico magari ti guarda con un sopracciglio inclinato e la bocca acchiappamosche, ma tra un Buongiorno Italia e un Buongiono Maria, tra un partigiano come Presidente e troppa America sui manifesti, i ragazzi sono sempre lì, in attesa che ti unisca al ballo. E magari gli emigrati italiani di una volta la cantavano ed esportavano così, come una ballata allegra e spensierata, cantando di quell'Italia lasciata con il cuore in gola, urlando l'orgoglio per quella patria che probabilmente si sentivano nel sangue come il sole sulla pelle; e così parallelamente, con meno sciovinismi e senza troppo folklore, ti ritrovi in un party a decenni di distanza ed i ragazzi tedeschi sono sempre là. E allora che fai? Beh, c'è poco da esitare, alla fine balli.
E tu stai lì, un po' scioccato dalla cosa, paralizzato tra imbarazzo e incomprensione, ma i ragazzi ti invitano a ballare e non puoi voltare le spalle, non puoi fare come quelli che "no io la pasta la mangio soltanto da me" o "no, la pasta è buona soltanto in Italia", perché magari poi ti ritrovi a cena dall'amico straniero che ha cucinato la pasta proprio per farti piacere e non importa se l'ha fatta cuocere 28 minuti e magari s'è pure dimenticato di mettere il sale nell'acqua, è pasta, sì non sarà come quella di casa, non sarà pasta all'italiana, ma non puoi torcere il naso tra orgoglio e abitudini, soltanto perché sei italiano, soltanto perché la pasta è sacra, perché magari per un italiano è come l'ambrosia per degli dei e o la si mangia per bene o la si rifiuta categoricamente: ma no dai, l'amico l'ha fatta per te, prendi la forchetta e ingoia, tanto è talmente scotta che si scioglie in bocca.
Ed è lo stesso per Toto Cotugno, che non avresti mai ballato dalle tue parti, che se lo dici a qualche amico magari ti guarda con un sopracciglio inclinato e la bocca acchiappamosche, ma tra un Buongiorno Italia e un Buongiono Maria, tra un partigiano come Presidente e troppa America sui manifesti, i ragazzi sono sempre lì, in attesa che ti unisca al ballo. E magari gli emigrati italiani di una volta la cantavano ed esportavano così, come una ballata allegra e spensierata, cantando di quell'Italia lasciata con il cuore in gola, urlando l'orgoglio per quella patria che probabilmente si sentivano nel sangue come il sole sulla pelle; e così parallelamente, con meno sciovinismi e senza troppo folklore, ti ritrovi in un party a decenni di distanza ed i ragazzi tedeschi sono sempre là. E allora che fai? Beh, c'è poco da esitare, alla fine balli.
Wikileaks
Non tanto le importantissime rivelazioni che per la maggior parte hanno solo confermato cose che ben o male erano largamente risapute, almeno per il momento (di spionaggi, di festini e capi di stato permalosi, roba davvero inquietante.. che comunque dovrebbe far riflettere sulle associazioni di idee, ma in fondo è più un sunto di quanto detto finora tra blog e satira, in contraddizione alla propaganda quotidiana di Minzolini e company), quanto un particolare abbastanza rilevante dovrebbe farci riflettere: il New York Times americano, il The Guardian britannico, il Der Spiegel tedesco, Le Monde francese e El Paìs spagnolo sono stati contattati con anticipo per la diffusione a livello mondiale. Non manca qualcosa? Le pagine web dei giornali italiani ieri riportavano gli screenshot di quelli stranieri, erano costretti a copiare perché per quelli di Wikileaks erano di seconda fascia, ennesima conferma della considerazione all'estero della nostra stampa. Secondo voi, tra Belpietro e Feltri, chi ci sarà rimasto più male?
I'll meet you in a cloud
Fa decisamente freddo e questa mattina la finestra era coperta d'un po' di neve, sciolta poi in fretta sotto un sole inaspettato che rende decisamente più bella tutta Bruxelles. Foto scattata qui. |
E si va avanti
Sarò monotono e antipatico, ma volevo sottolineare una cosa: se in un paese normale una trasmissione in prima serata su una delle reti principali afferma ripetutamente che il presidente del consiglio ha avuto strette relazioni con la Mafia, io il giorno dopo mi aspetterei dalle testate principali del paese una tra le seguenti reazioni:
1. Titoloni riprendendo quelle affermazioni, gridando ai legami con la mafia, chiedendo spiegazioni, ponendo (lo so, fa ridere) domande.
2. Titoloni accusando quelle affermazioni, gridando allo scandalo, chiedendo spiegazioni su come una trasmissione possa dichiarare questo del primo ministro del paese.
Oggi ho visitato le pagine dei principali quotidiani nazionali, ho cercato un po' su Google: niente, niente di niente, se non ovviamente qualche blog e qualche sito di giornalismo partecipativo. Nessuna delle due reazioni, nessun titolone, nemmeno titolino, solo il silenzio. Perché? Perché non si è detto niente di nuovo in fondo - penso - e quelle cose si sapevano già, di Mangano, di Dell'Utri, di Berlusconi e della Mafia, non fa più notizia, è risaputo, è accettato. Ecco, lo so, ci sono notizie gravi da sottolineare, c'è una crisi globale da affrontare, etc., ma nel frattempo paradossalmente sembra si accetti che il presidente del consiglio in carica sia colluso con la mafia. E si va avanti.
1. Titoloni riprendendo quelle affermazioni, gridando ai legami con la mafia, chiedendo spiegazioni, ponendo (lo so, fa ridere) domande.
2. Titoloni accusando quelle affermazioni, gridando allo scandalo, chiedendo spiegazioni su come una trasmissione possa dichiarare questo del primo ministro del paese.
Oggi ho visitato le pagine dei principali quotidiani nazionali, ho cercato un po' su Google: niente, niente di niente, se non ovviamente qualche blog e qualche sito di giornalismo partecipativo. Nessuna delle due reazioni, nessun titolone, nemmeno titolino, solo il silenzio. Perché? Perché non si è detto niente di nuovo in fondo - penso - e quelle cose si sapevano già, di Mangano, di Dell'Utri, di Berlusconi e della Mafia, non fa più notizia, è risaputo, è accettato. Ecco, lo so, ci sono notizie gravi da sottolineare, c'è una crisi globale da affrontare, etc., ma nel frattempo paradossalmente sembra si accetti che il presidente del consiglio in carica sia colluso con la mafia. E si va avanti.
Quasi meglio di un raggio di sole
E poi d'improvviso ecco che la pioggerellina mattutina inizia a perdere velocità e mutare forma e moto, lenta e uniforme a colorarsi di un bianco inatteso ed i ragazzi dell'ufficio avvicinarsi alla finestra e come bimbi ai primi fiocchi, ogni anno la stessa storia, ad osservare la prima neve come una magia di strani sospiri e non importa se si scioglierà veloce al tatto con l'asfalto sporco e trafficato, non importa se non è ancora di quella da colorare paesaggi, lasciare orme al passaggio, né tantomeno importa che quei bimbi siano cresciuti e non scenderebbero a lanciarsi palle di neve e sorrisi spontanei, per via del lavoro continuo da sbrigare, perché fuori non c'è un prato ma macchine e progresso, perché magari basta così, stare lì ad osservare i primi fiocchi invernali, come un incantesimo annuale per un fenomeno ogni volta immancabile e bastano pochi secondi, senza troppo pensare, semplicemente a perdersi per qualche attimo tra i fiocchi nuovi e perciò da osservare, per saziarsi della loro danza soffice e pacata, prima che diventino monotoni, prima che tutto si ricopra di bianco, da qui a qualche infreddolita settimana, e alla finestra non si affacci più nessuno, risucchiati inermi dallo schermo lampante e le scadenze accumulate.
Ed è sempre così la prima neve, quasi meglio di un raggio di sole, immersi nello stupore della sorpresa inattesa, senza pensare al freddo lì fuori, quello del fiato che crea nebbia ad ogni sospiro, come se stessimo ogni volta fumando pensieri, gli stessi che lasciamo sul vetro appannato adesso, perché troppo vicini ad osservare la neve.
Ed è sempre così la prima neve, quasi meglio di un raggio di sole, immersi nello stupore della sorpresa inattesa, senza pensare al freddo lì fuori, quello del fiato che crea nebbia ad ogni sospiro, come se stessimo ogni volta fumando pensieri, gli stessi che lasciamo sul vetro appannato adesso, perché troppo vicini ad osservare la neve.
Selezioni aziendali (e razziali)
Così quando meno te lo aspetti scopri che ci sono selezioni nell'azienda in cui lavori che vanno ben oltre le semplici conoscenze tecniche e rivalutano molto quelle parole di qualche tempo fa in cui si esortava alla non importanza della propria provenienza.
io: Quindi sono stati preparati alcuni questionari per tastare un po' le conoscenze Java ai colloqui?
il manager: Sì, ma saranno utilizzati nei prossimi mesi, per il momento siamo ancora all'approccio classico.
io: Hm, va bene. Il nuovo ragazzo belga mi sembra in gamba.
il manager: Sì, si erano presentati altri due ragazzi prima di lui, ma li abbiamo scartati.
io: Come mai?
il manager: A dir la verità - e abbassa leggermente il tono di voce - non avevano origini europee, erano marocchini e... sai...
io: ...
il manager: Insomma, non li abbiamo presi per mantenere l'ambiente omogeneo, evitare contrasti troppo forti di cultura ed abitudini, per evitare di avere qualcuno diverso in ufficio che possa creare incomprensioni.
io: Ah... beh... ma siamo già abbastanza misti... - credevo - credevo...
il manager: 4 francesi, 2 italiani e 2 belgi? Ah già, e un cinese, ma praticamente è invisibile per quanto è timido.
io: Beh... è un po' silenzioso, è vero, ma è davvero un bravo ragazzo.
il manager: Certo, certo, nessun dubbio. - Si guarda l'orologio e già intuisco le prossime parole - Ah, senti, devo andare dal cliente. A dopo.
Quindi meglio europei, meglio simili, magari anche a scapito delle capacità e non importa se poi per una battuta (va bene, una battuta da nerd, lo so) devo stare a spiegare al collega francese chi sia James Gosling, nonostante vanti anni di esperienza in Java (che sarebbe un po' come capitarvi di dover spiegare Dio a un prete da diversi anni in attività, va bene, non dubito che possa accadere, sono d'accordo), insomma meglio così, per evitare incomprensioni con il diverso. Peccato che adesso quello che si sente un po' diverso rispetto a prima son io e anche alquanto pieno d'incomprensioni a dir il vero.
io: Quindi sono stati preparati alcuni questionari per tastare un po' le conoscenze Java ai colloqui?
il manager: Sì, ma saranno utilizzati nei prossimi mesi, per il momento siamo ancora all'approccio classico.
io: Hm, va bene. Il nuovo ragazzo belga mi sembra in gamba.
il manager: Sì, si erano presentati altri due ragazzi prima di lui, ma li abbiamo scartati.
io: Come mai?
il manager: A dir la verità - e abbassa leggermente il tono di voce - non avevano origini europee, erano marocchini e... sai...
io: ...
il manager: Insomma, non li abbiamo presi per mantenere l'ambiente omogeneo, evitare contrasti troppo forti di cultura ed abitudini, per evitare di avere qualcuno diverso in ufficio che possa creare incomprensioni.
io: Ah... beh... ma siamo già abbastanza misti... - credevo - credevo...
il manager: 4 francesi, 2 italiani e 2 belgi? Ah già, e un cinese, ma praticamente è invisibile per quanto è timido.
io: Beh... è un po' silenzioso, è vero, ma è davvero un bravo ragazzo.
il manager: Certo, certo, nessun dubbio. - Si guarda l'orologio e già intuisco le prossime parole - Ah, senti, devo andare dal cliente. A dopo.
Quindi meglio europei, meglio simili, magari anche a scapito delle capacità e non importa se poi per una battuta (va bene, una battuta da nerd, lo so) devo stare a spiegare al collega francese chi sia James Gosling, nonostante vanti anni di esperienza in Java (che sarebbe un po' come capitarvi di dover spiegare Dio a un prete da diversi anni in attività, va bene, non dubito che possa accadere, sono d'accordo), insomma meglio così, per evitare incomprensioni con il diverso. Peccato che adesso quello che si sente un po' diverso rispetto a prima son io e anche alquanto pieno d'incomprensioni a dir il vero.
I colori degli altri
L'altra sera mentre ancora non si sa perché s'era finiti in uno dei pub di Place du Luxemburg, d'improvviso ascolto alle mie spalle due ragazzi italiani urlare tra loro (urlare per via della musica assordante, che è un po' come bisbigliare in un silenzio profondo) ed uno dei due rompe i timpani dell'altro con un "guarda quella bionda con il ragazzo di colore" e allora mi volto anch'io, d'istinto ma distinto, a fissare quella bionda con un ragazzo di colore e siccome era davvero un sacco di tempo che non sentivo quell'espressione, ragazzo di colore, mi son fermato un attimo a fissare quei colori e alla mente m'è risalito subito un ricordo opaco (e quindi dai colori sfogati), di una poesia dei tempi credo del catechismo, una poesia in cui un bambino nero si rivolgeva ad un bambino bianco e faceva più o meno così:
"tu amico bianco, perché chiamare me di colore? io quando son nato ero nero, quando son cresciuto: nero, quando vado al sole: nero, quando malato: nero, quando spaventato: nero, quando morirò sarò ancora nero; ma tu, amico bianco, quando nato eri rosa, quando cresciuto: bianco, quando malato: giallo, quando abbronzato: rosso, quando spaventato: verde, quando morto sarai viola; allora, amico bianco, perché chiamare me di colore?"
E quella poetica domanda finale, di quel ricordo opaco, che qualcuno avrebbe riassunto in uno di quei già inconcludenti che spesso chiudono un discorso come risposta affermativa ma svogliata, mi girava tra la testa mentre fissavo i colori degli altri, tra le luci notturne del bar che nel frattempo cambiavano i colori a tutti, al ritmo di qualche combinazione musicale, pensando che di colori in fondo ne siam pieni, basterebbe soltanto fissarli quei colori: il tizio dell'ufficio a fianco, per esempio, spesso è davvero nero (pur essendo bianco) tra stress e nervosismo, per poi illuminarsi d'una luce gialla viva quando esplode in quel suo sorriso che richiama tutte le rughe a dilatarsi; il collega belga, invece, alla scrivania a sinistra è arancione delle sue lentiggini fiamminghe ma spesso si colora d'azzurro quando parla francese e non vuole; il vicino ugandese, pur essendo di pelle nera (e quindi di colore), lo percepisco in constante verde, sarà perché quando parla trasmette davvero tanta speranza o più semplicemente per il colore brillante degli occhi; e il signor Tony, al mercato del venerdì, è sempre d'un rosso splendente e non ne ho idea se sia vero, ma son sicuro che gli piaccia il vino, rosso. E in fondo siam in continuo arcobaleno, noi tutti, basterebbe soltanto guardarli un po' meglio, quei colori degli altri, e non fissarci soltanto sulla bionda con il ragazzo di colore.
"tu amico bianco, perché chiamare me di colore? io quando son nato ero nero, quando son cresciuto: nero, quando vado al sole: nero, quando malato: nero, quando spaventato: nero, quando morirò sarò ancora nero; ma tu, amico bianco, quando nato eri rosa, quando cresciuto: bianco, quando malato: giallo, quando abbronzato: rosso, quando spaventato: verde, quando morto sarai viola; allora, amico bianco, perché chiamare me di colore?"
E quella poetica domanda finale, di quel ricordo opaco, che qualcuno avrebbe riassunto in uno di quei già inconcludenti che spesso chiudono un discorso come risposta affermativa ma svogliata, mi girava tra la testa mentre fissavo i colori degli altri, tra le luci notturne del bar che nel frattempo cambiavano i colori a tutti, al ritmo di qualche combinazione musicale, pensando che di colori in fondo ne siam pieni, basterebbe soltanto fissarli quei colori: il tizio dell'ufficio a fianco, per esempio, spesso è davvero nero (pur essendo bianco) tra stress e nervosismo, per poi illuminarsi d'una luce gialla viva quando esplode in quel suo sorriso che richiama tutte le rughe a dilatarsi; il collega belga, invece, alla scrivania a sinistra è arancione delle sue lentiggini fiamminghe ma spesso si colora d'azzurro quando parla francese e non vuole; il vicino ugandese, pur essendo di pelle nera (e quindi di colore), lo percepisco in constante verde, sarà perché quando parla trasmette davvero tanta speranza o più semplicemente per il colore brillante degli occhi; e il signor Tony, al mercato del venerdì, è sempre d'un rosso splendente e non ne ho idea se sia vero, ma son sicuro che gli piaccia il vino, rosso. E in fondo siam in continuo arcobaleno, noi tutti, basterebbe soltanto guardarli un po' meglio, quei colori degli altri, e non fissarci soltanto sulla bionda con il ragazzo di colore.
Kiss me at the Grand Place
Della bellissima Grand Place non bisogna lasciarsi scappare neanche un dettaglio. Foto scattata qui. |
Il buco della memoria
"E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. "Chi controlla il passato" diceva lo slogan del Partito "controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato." [..] La storia era un palinsesto che poteva essere raschiato e riscritto tutte le volte che si voleva. In nessun caso era possibile, una volta portata a termine l'opera, dimostrare che una qualsiasi falsificazione avesse avuto luogo. [..] In realtà, pensò Winston mentre rimetteva a posto le cifre fornite dal Ministero dell'Abbondanza, non si trattava neanche di falsificazione, ma solo della sostituzione di un'assurdità con un'altra.[..] Le statistiche, tanto nella loro versione originaria che in quella rettificata, erano un puro e semplice parto della fantasia. In molti casi ve le dovevate cavare dal cervello da soli. [..] Da qualche parte stavano i cervelli pensanti, rigorosamente anonimi, che coordinavano il tutto e fissavano le linee politiche che imponevano di preservare, falsificare o distruggere un determinato frammento del passato. [..] A quel punto la menzogna prescelta sarebbe passata nell'archivio permanente e sarebbe diventata verità. [..] Il Compagno Ogilvy, neanche immaginato fino a un'ora prima, era adesso realtà. Gli parve una cosa curiosa che si potessero creare i morti e non i vivi: il Compagno Ogilvy, che nel presente non era mai esistito, esisteva ora nel passato e, una volta che fosse caduto nell'oblio l'atto di falsificazione che lo riguardava, avrebbe posseduto la stessa concretezza, autentica e documentata, di Carlo Magno o Giulio Cesare."
Ecco, questo insieme di brani tratti da 1984, il celebre romanzo di George Orwell, riassume il concetto di quello che lui immaginava come il "buco della memoria", in quel mondo ambientato in un futuro non troppo lontano in cui il regime totalitario comunista controllava praticamente tutto, addirittura la modifica del passato, in una ristampa continua di tutti i testi esistenti in modo da allineare ogni cosa al pensiero del Grande Fratello.
Ecco, ovviamente il romanzo porta al limite alcune situazioni, ma non c'è bisogno di estremizzare così tanto quando è palese che il buco della memoria, nel suo piccolo, esiste ed è pratica comune d'ogni regime, dalla censura alla disinformazione. Se pensiamo alla riabilitazione mediatica della figura di Craxi, alle continue menzogne del tg1 di Minzolini, ai Mangano eroe, al problema immondizia, all'Aquila e alla crisi (ma potremmo andare avanti per ore) o all'ultimo caso, l'articolo di NewsWeek che criticava il fenomeno Berlusconi ed il maschilismo cronico della cultura italiana contemporanea, e che il tg2 ha trasformato in una lista di personaggi femminili stimati a livello internazionale (cioè esattamente l'opposto), beh ecco che l'assurdità inizia a colorarsi di realtà. Certo, ci sono i giornali, ci sono i blog ed i link condivisi sui social network, ma quando soltanto una bassa percentuale della massa acquista quotidiani o si informa attraverso la rete, mentre il resto si ciba passivamente della propaganda presente e della memoria riciclata del passato, ecco che l'assurdità inizia a dipingersi di realtà, perché, per esempio, chi informerà quei milioni di telespettatori che il servizio del tg2 era pura finzione? Nessuno. I miei genitori, i miei amici, crederanno a me, il ragazzo venuto dall'estero che vuole fare la morale o torna soltanto a lamentarsi, o alla madre televisione che inventa, produce e diffonde?
E ancora più demoralizzante è il buco della memoria personale, oramai comune, come se avessimo un dimenticatoio a presa rapida, ed uno scandalo dura pochi giorni, il tempo di qualche titolone sui giornali, di qualche chiacchiera al bar o una battuta di Crozza a Ballarò, poi il giorno dopo ognuno immerso nella propria vita, nella propria macina temporale, priorità e necessità, il resto è dimenticato perché meno importante e tutto continua immutato in una staticità quasi irreale.
"[..] A quanto pareva, vi erano state anche manifestazioni di ringraziamento al Grande Fratello per aver aumentato la razione settimanale di cioccolato, portandola a venti grammi. Ma se appena ieri, pensò Winston, avevano annunciato che la razione di cioccolato doveva essere abbassata a venti grammi! Possibile che potessero mandare giù una balla simile a distanza di ventiquattr'ore? Sì, era possibile."
Ecco, questo insieme di brani tratti da 1984, il celebre romanzo di George Orwell, riassume il concetto di quello che lui immaginava come il "buco della memoria", in quel mondo ambientato in un futuro non troppo lontano in cui il regime totalitario comunista controllava praticamente tutto, addirittura la modifica del passato, in una ristampa continua di tutti i testi esistenti in modo da allineare ogni cosa al pensiero del Grande Fratello.
Ecco, ovviamente il romanzo porta al limite alcune situazioni, ma non c'è bisogno di estremizzare così tanto quando è palese che il buco della memoria, nel suo piccolo, esiste ed è pratica comune d'ogni regime, dalla censura alla disinformazione. Se pensiamo alla riabilitazione mediatica della figura di Craxi, alle continue menzogne del tg1 di Minzolini, ai Mangano eroe, al problema immondizia, all'Aquila e alla crisi (ma potremmo andare avanti per ore) o all'ultimo caso, l'articolo di NewsWeek che criticava il fenomeno Berlusconi ed il maschilismo cronico della cultura italiana contemporanea, e che il tg2 ha trasformato in una lista di personaggi femminili stimati a livello internazionale (cioè esattamente l'opposto), beh ecco che l'assurdità inizia a colorarsi di realtà. Certo, ci sono i giornali, ci sono i blog ed i link condivisi sui social network, ma quando soltanto una bassa percentuale della massa acquista quotidiani o si informa attraverso la rete, mentre il resto si ciba passivamente della propaganda presente e della memoria riciclata del passato, ecco che l'assurdità inizia a dipingersi di realtà, perché, per esempio, chi informerà quei milioni di telespettatori che il servizio del tg2 era pura finzione? Nessuno. I miei genitori, i miei amici, crederanno a me, il ragazzo venuto dall'estero che vuole fare la morale o torna soltanto a lamentarsi, o alla madre televisione che inventa, produce e diffonde?
E ancora più demoralizzante è il buco della memoria personale, oramai comune, come se avessimo un dimenticatoio a presa rapida, ed uno scandalo dura pochi giorni, il tempo di qualche titolone sui giornali, di qualche chiacchiera al bar o una battuta di Crozza a Ballarò, poi il giorno dopo ognuno immerso nella propria vita, nella propria macina temporale, priorità e necessità, il resto è dimenticato perché meno importante e tutto continua immutato in una staticità quasi irreale.
"[..] A quanto pareva, vi erano state anche manifestazioni di ringraziamento al Grande Fratello per aver aumentato la razione settimanale di cioccolato, portandola a venti grammi. Ma se appena ieri, pensò Winston, avevano annunciato che la razione di cioccolato doveva essere abbassata a venti grammi! Possibile che potessero mandare giù una balla simile a distanza di ventiquattr'ore? Sì, era possibile."
No, scusa, io non bacio
Ti è mai capitato di andare in confusione nel salutare una persona di un altro paese, sconosciuta o amica?
Allora ricapitoliamo: tu inizi da sinistra, io inizio da destra ed ecco che non ci incontriamo, forse era meglio una mano, lui abitualmente fa soltanto guancia a guancia e sembra una cosa maldestra mentre lui bacia davvero, forse anche troppo, non so, sarà anche sincero, ma l'ho fatto anch'io ed era talmente sudato che... eppoi il tutto si ripete una sola volta, sono sincero, no, due, no un attimo, tre, non ci credo, questa è una svolta, ma davvero, anche quattro, ma soltanto tra donne, bacio dannato! No anche tra uomini, ma soltanto tra amici, no anche come saluto alla presentazione, no era meglio soltanto una stretta di mano, aspetta dovevi fare più attenzione, si è offeso, come si è offeso? Avrà frainteso, non si aspettava un bacio da uno sconosciuto, ti ha guardato in modo strano, avrà pensato che sei ottuso o magari un maniaco; no aspetta, sei partito dal lato sbagliato, un attimo, gesto profano! Che quasi ci baciavamo sulle labbra, oddio ci mancava solo questo, mi scusi, non volevo, troppo lesto, è che nel mio paese questa è la maniera, mi sono perso, no, nessun incesto, un attimo, mamma che faccia di cera! Come ne ho mancato uno? Ma da noi sono solo due! Ah, scusi, ecco il terzo, come c'è rimasta male? Sì, è rimasta sospesa in aria in attesa del quarto, con gli occhi chiusi ed il collo al cielo, non hai concluso il saluto che quasi le prendeva un infarto, lo so, che eccesso di zelo!
Vabbè ci rinuncio, no dai, scusate io non bacio. Come non baci? Aspetto, sto fermo e aspetto gli altri.
Allora ricapitoliamo: tu inizi da sinistra, io inizio da destra ed ecco che non ci incontriamo, forse era meglio una mano, lui abitualmente fa soltanto guancia a guancia e sembra una cosa maldestra mentre lui bacia davvero, forse anche troppo, non so, sarà anche sincero, ma l'ho fatto anch'io ed era talmente sudato che... eppoi il tutto si ripete una sola volta, sono sincero, no, due, no un attimo, tre, non ci credo, questa è una svolta, ma davvero, anche quattro, ma soltanto tra donne, bacio dannato! No anche tra uomini, ma soltanto tra amici, no anche come saluto alla presentazione, no era meglio soltanto una stretta di mano, aspetta dovevi fare più attenzione, si è offeso, come si è offeso? Avrà frainteso, non si aspettava un bacio da uno sconosciuto, ti ha guardato in modo strano, avrà pensato che sei ottuso o magari un maniaco; no aspetta, sei partito dal lato sbagliato, un attimo, gesto profano! Che quasi ci baciavamo sulle labbra, oddio ci mancava solo questo, mi scusi, non volevo, troppo lesto, è che nel mio paese questa è la maniera, mi sono perso, no, nessun incesto, un attimo, mamma che faccia di cera! Come ne ho mancato uno? Ma da noi sono solo due! Ah, scusi, ecco il terzo, come c'è rimasta male? Sì, è rimasta sospesa in aria in attesa del quarto, con gli occhi chiusi ed il collo al cielo, non hai concluso il saluto che quasi le prendeva un infarto, lo so, che eccesso di zelo!
Vabbè ci rinuncio, no dai, scusate io non bacio. Come non baci? Aspetto, sto fermo e aspetto gli altri.
Tre anni altrove (o anche all'estero)
Curioso compiere tre anni all'estero (un anno e mezzo in Irlanda ed un anno e mezzo in Belgio) su un treno, proprio mentre si attraversa un altro confine, qui al ritorno da qualche giorno tra Strasburgo e Metz (la città gialla), per andare poi a Lussemburgo ed infine rientrare a casa, per ora a Bruxelles. Sarà che tre anni non son stato all'estero, ma semplicemente altrove, altrove da abitudini, conoscenze, familiarità. E capisci, dopo tre anni fuori, quante contraddizioni, quante assurdità esistono sugli emigranti, le nazioni, stereotipi e propagande. Capisci, per esempio, che non ha senso la situazione del collega cinese, sposato con una connazionale che al momento vive in Francia, ma distanti a causa di un visto, per lui, che non riesce ad ottenere, avendo già trascorso due anni in quel paese, un po' di tempo fa. Già, le nazioni, quante burocrazie e quanti limiti, hanno poco senso quando ci si sposta soltanto da un luogo ad un altro e non dal mio paese al tuo paese. Perché tuo?
Capisci che gli altri come te, gli altri immigrati italiani in giro, hanno diversi modi di interagire, di mescolarsi e di confondersi con gli altri e da loro puoi imparare, puoi distinguerti, evitarli o ricercarli, ma senza cadere nell'illusione di una patria altrove che non c'è. Capisci che tutti quei ragazzi italiani emigrati in paesi migliori, tutti quei sorridenti emigranti del nuovo millennio che si manifestano orgogliosi di non vivere più in Italia e d'essere approdati in qualcosa di migliore, ecco spesso sono falsi (probabimente, magari, sì, sì, ovviamente non tutti), sono falsi inconsciamente quando son orgogliosi del paese civile di destinazione (che sia Svezia, che sia Irlanda, che sia qui oppure là), loro che a quel miglioramento sociale non hanno mai partecipato attivamente e che lo contrastano a quello che han lasciato, che non hanno tentato di migliorare attivamente, e sono gli stessi che poi guarderebbero in modo strano quelli che invece son orgogliosi di quello stesso paese d'origine, probabilmente per eventi, primati e monumenti cui a loro volta non hanno mai partecipato attivamente. Perché allora quegli orgogli?
Sarà che quando si ama un luogo, se ne vuole far parte in todo, cultura, storia e soprattutto pregi, ma nessun luogo è un paradiso, se non agli occhi dei propri compromessi, quegli stessi che spesso causano una fuga, un abbandono o la ramificazione di radici sempre più profonde ed inamovibili. Capisci, dopo tre anni fuori, che il viaggio più importante non è attraverso terre, isole e mari, ma dentro di te, perché andando altrove ci si impara a conoscere internamente attraverso il diverso, affrontando esperienze altrimenti rare se non addirittura impossibili tra le quattro mura amiche o nello stesso paese ma tra le solite destinazioni lavorative, che sia Roma, che sia Milano, che sia laggiù o l'altra ancora; perché all'estero poi, quel fuori è fuori dalle proprie abitudini, fuori dalle proprie conoscenze, fuori dal proprio ordinario e allora ci si mette alla prova, in un continuo confronto, tra errori ed esperienze, vittorie e lacrime, in situazioni sicuramente nuove, che sia parlare una lingua straniera o ritrovarsi in un gruppo di ragazzi ed essere l'unico italiano, che sia scontrarsi con culture lontane, spesso sconosciute, o imbattersi nello stereotipo di te nella mentre altrui, soltanto per la tua provenienza, soltanto per essere nato in un luogo e non in un altro, aver assimilato una cultura e non un'altra. Ma non c'è nulla di già scritto, la patria non è mica nel sangue. Ecco, sapevate che un neonato di 30.000 anni fa (sì proprio tanto tempo fa) trasportato qui, nella nostra società globalizzata, dalle caverne al mouse, crescerebbe esattamente allo stesso modo di un suo coetaneo contemporaneo, perché il cervello umano non si è evoluto poi tanto e si adatterebbe in maniera completa al nuovo intorno che nuovo non sarebbe per chi vi crescerebbe dal principio?
Cosa significa? Significa che non è tanto il nascere in un luogo né l'identità dei propri genitori né tantomeno qualcosa di mistico che possa essere nel sangue, ma è il crescere, ricevere un'educazione e assimilare una certa cultura fin da piccoli: è questo che ci rende italiani piuttosto che egiziani piuttosto che canadesi. La patria è soltanto una educazione. Allora io non sono italiano, ma sono soltanto cresciuto in Italia ed ho assimilato la cultura italiana; se fossi cresciuto in Portagallo, avrei assimilato un'altra cultura, altre abitudini e modi di vedere le cose, indipendentemente dal luogo di nascita, dai genitori, dai nonni e dal primo pianto infantile. Semplicemente. E il fatto d'essere nato in Germania da genitori italiani, esser cresciuto poi in Campania, vivere adesso in Belgio con una ragazza spagnola venendo insieme da Dublino, ecco tra le quattro lingue che ogni giorno devo utilizzare per comunicare e condividere un pensiero, capisco quanto quell'idea di patria, di nazione, d'orgoglio d'origini o di destinazioni, quanto tutto ciò sia spesso soltanto un'inutile barriera. Certo il mio aspetto, i miei lineamenti ed i colori, saranno spesso un facile biglietto di visita, ma soltanto per l'apparenza. Se a km di distanza si capisce già che son italiano o alla prima vocale italiana che son campano, o alla prima jota spagnola, suono nasale francese o vocale aspirata inglese si capisce che non son madrelingua, che son straniero, c'è sempre quel bisogno di associazione per gli altri e di identità per noi. Eppure la patria non è in noi, di base siamo tutti uguali: il bambino di 30.000 anni fa, io e voi, potremmo esser cresciuti tutti in un altro paese e identificarci oggi in quella nuova patria, per poi capire che patria è soltanto un'appartenenza, un'etichetta che riassume genericamente pezzi di noi, un'idea politica di propaganda, un contenitore di irrazionalità, d'odi e d'orgogli, una educazione da identificare e capire, nelle origini e nei suoi limiti. Solo così, senza rigetti né crisi d'identità, potremmo intendere che non esistono stranieri, nessun emigrante né immigrato, ma soltanto spostamenti da un luogo ad un altro, condividendo culture senza giusto né sbagliato, ma soltanto un diverso da conoscere ed interpretare; e allora l'estero sarà altrove. Tutto qui.
Tanti, troppi pensieri in 3 anni, lo so. Ma forse (e probabilmente) devo capire ancora tanto e allora 3 anni non son poi abbastanza: niente panico però, non c'è fretta né superbia, c'è solo un viaggio da continuare, fuori e dentro di me. Ah, e grazie tante per la compagnia, davvero.
Capisci che gli altri come te, gli altri immigrati italiani in giro, hanno diversi modi di interagire, di mescolarsi e di confondersi con gli altri e da loro puoi imparare, puoi distinguerti, evitarli o ricercarli, ma senza cadere nell'illusione di una patria altrove che non c'è. Capisci che tutti quei ragazzi italiani emigrati in paesi migliori, tutti quei sorridenti emigranti del nuovo millennio che si manifestano orgogliosi di non vivere più in Italia e d'essere approdati in qualcosa di migliore, ecco spesso sono falsi (probabimente, magari, sì, sì, ovviamente non tutti), sono falsi inconsciamente quando son orgogliosi del paese civile di destinazione (che sia Svezia, che sia Irlanda, che sia qui oppure là), loro che a quel miglioramento sociale non hanno mai partecipato attivamente e che lo contrastano a quello che han lasciato, che non hanno tentato di migliorare attivamente, e sono gli stessi che poi guarderebbero in modo strano quelli che invece son orgogliosi di quello stesso paese d'origine, probabilmente per eventi, primati e monumenti cui a loro volta non hanno mai partecipato attivamente. Perché allora quegli orgogli?
Sarà che quando si ama un luogo, se ne vuole far parte in todo, cultura, storia e soprattutto pregi, ma nessun luogo è un paradiso, se non agli occhi dei propri compromessi, quegli stessi che spesso causano una fuga, un abbandono o la ramificazione di radici sempre più profonde ed inamovibili. Capisci, dopo tre anni fuori, che il viaggio più importante non è attraverso terre, isole e mari, ma dentro di te, perché andando altrove ci si impara a conoscere internamente attraverso il diverso, affrontando esperienze altrimenti rare se non addirittura impossibili tra le quattro mura amiche o nello stesso paese ma tra le solite destinazioni lavorative, che sia Roma, che sia Milano, che sia laggiù o l'altra ancora; perché all'estero poi, quel fuori è fuori dalle proprie abitudini, fuori dalle proprie conoscenze, fuori dal proprio ordinario e allora ci si mette alla prova, in un continuo confronto, tra errori ed esperienze, vittorie e lacrime, in situazioni sicuramente nuove, che sia parlare una lingua straniera o ritrovarsi in un gruppo di ragazzi ed essere l'unico italiano, che sia scontrarsi con culture lontane, spesso sconosciute, o imbattersi nello stereotipo di te nella mentre altrui, soltanto per la tua provenienza, soltanto per essere nato in un luogo e non in un altro, aver assimilato una cultura e non un'altra. Ma non c'è nulla di già scritto, la patria non è mica nel sangue. Ecco, sapevate che un neonato di 30.000 anni fa (sì proprio tanto tempo fa) trasportato qui, nella nostra società globalizzata, dalle caverne al mouse, crescerebbe esattamente allo stesso modo di un suo coetaneo contemporaneo, perché il cervello umano non si è evoluto poi tanto e si adatterebbe in maniera completa al nuovo intorno che nuovo non sarebbe per chi vi crescerebbe dal principio?
Cosa significa? Significa che non è tanto il nascere in un luogo né l'identità dei propri genitori né tantomeno qualcosa di mistico che possa essere nel sangue, ma è il crescere, ricevere un'educazione e assimilare una certa cultura fin da piccoli: è questo che ci rende italiani piuttosto che egiziani piuttosto che canadesi. La patria è soltanto una educazione. Allora io non sono italiano, ma sono soltanto cresciuto in Italia ed ho assimilato la cultura italiana; se fossi cresciuto in Portagallo, avrei assimilato un'altra cultura, altre abitudini e modi di vedere le cose, indipendentemente dal luogo di nascita, dai genitori, dai nonni e dal primo pianto infantile. Semplicemente. E il fatto d'essere nato in Germania da genitori italiani, esser cresciuto poi in Campania, vivere adesso in Belgio con una ragazza spagnola venendo insieme da Dublino, ecco tra le quattro lingue che ogni giorno devo utilizzare per comunicare e condividere un pensiero, capisco quanto quell'idea di patria, di nazione, d'orgoglio d'origini o di destinazioni, quanto tutto ciò sia spesso soltanto un'inutile barriera. Certo il mio aspetto, i miei lineamenti ed i colori, saranno spesso un facile biglietto di visita, ma soltanto per l'apparenza. Se a km di distanza si capisce già che son italiano o alla prima vocale italiana che son campano, o alla prima jota spagnola, suono nasale francese o vocale aspirata inglese si capisce che non son madrelingua, che son straniero, c'è sempre quel bisogno di associazione per gli altri e di identità per noi. Eppure la patria non è in noi, di base siamo tutti uguali: il bambino di 30.000 anni fa, io e voi, potremmo esser cresciuti tutti in un altro paese e identificarci oggi in quella nuova patria, per poi capire che patria è soltanto un'appartenenza, un'etichetta che riassume genericamente pezzi di noi, un'idea politica di propaganda, un contenitore di irrazionalità, d'odi e d'orgogli, una educazione da identificare e capire, nelle origini e nei suoi limiti. Solo così, senza rigetti né crisi d'identità, potremmo intendere che non esistono stranieri, nessun emigrante né immigrato, ma soltanto spostamenti da un luogo ad un altro, condividendo culture senza giusto né sbagliato, ma soltanto un diverso da conoscere ed interpretare; e allora l'estero sarà altrove. Tutto qui.
Tanti, troppi pensieri in 3 anni, lo so. Ma forse (e probabilmente) devo capire ancora tanto e allora 3 anni non son poi abbastanza: niente panico però, non c'è fretta né superbia, c'è solo un viaggio da continuare, fuori e dentro di me. Ah, e grazie tante per la compagnia, davvero.
Quante società multietniche fallite
Qualche settimana fa la Merkel si è lasciata andare in una dichiarazione insolita che ha lasciato un po' stupiti i media tedeschi e non solo: il modello multietnico tedesco è fallito. Fallito perché le maggiori comunità di immigrati (come per esempio quella turca) non tendono ad integrarsi con la cultura ed i valori tedeschi, fallito perché si pensava ad ondate temporanee e a ritorni nei paesi natali (ma davvero pensavano ai ritorni?). La cosa divertente però è che gli stranieri sono ancora benvenuti, perché fondamentali in alcune tipologie di lavori, perché c'è sempre bisogno di manodopera per incrementare la produttività di alcuni settori, perché la popolazione locale non basta o non risulta abbastanza per determinati impieghi.
Beh, probabilmente alla Merkel sarà anche sfuggito che gli immigranti non sono poi mica androidi, che terminato il lavoro (magari sottopagato? magari estenuante?) non si rinchiudono in un armadio in attesa del giorno dopo ma tornano a casa poi, dove c'è una famiglia, dove si parla la propria lingua, si mangiano i sapori di casa e fondamentalmente si tende a mantenere la stessa cultura, in maniera naturale. I problemi di integrazione ci possono essere, è chiaro, a partire dalla lingua, ma richiedono sicuramente tempo e non poco, probabilmente almeno tre generazioni per una integrazione quasi del tutto completa. Se domani mio figlio nascesse in Belgio, sarebbe belga ma soltanto dal punto di vista burocratico; frequentando poi scuole nel territorio e creando relazioni sociali, inizierebbe ad essere belga anche nella cultura, ad integrarsi naturalmente; suo figlio, a sua volta, sarebbe ancora più belga, ma non si può pretendere una integrazione immediata, forzata, ai primi che arrivano e a cui si da il benvenuto per i lavori più umili, si destinano a ghetti e zone degradate (perché sì, il ghetto nasce come necessità di ritrovare la propria comunità, spesso vincolati da fattori economici, ma anche perché si preferisce tenere lontano il diverso ostacolandone magari l'avvicinamento), ma si sbandiera al fallimento appena ci si accorge di una mancata integrazione. Poi, è ovvio, senza cifre, senza statistiche o analisi ben dichiarate, affermazioni di quel tipo rischiano di essere soltanto del facile populismo o, per altri, un'abile manovra politica nel richiamare alcuni umori della gente in vista di nuovi necessari consensi.
Beh, probabilmente alla Merkel sarà anche sfuggito che gli immigranti non sono poi mica androidi, che terminato il lavoro (magari sottopagato? magari estenuante?) non si rinchiudono in un armadio in attesa del giorno dopo ma tornano a casa poi, dove c'è una famiglia, dove si parla la propria lingua, si mangiano i sapori di casa e fondamentalmente si tende a mantenere la stessa cultura, in maniera naturale. I problemi di integrazione ci possono essere, è chiaro, a partire dalla lingua, ma richiedono sicuramente tempo e non poco, probabilmente almeno tre generazioni per una integrazione quasi del tutto completa. Se domani mio figlio nascesse in Belgio, sarebbe belga ma soltanto dal punto di vista burocratico; frequentando poi scuole nel territorio e creando relazioni sociali, inizierebbe ad essere belga anche nella cultura, ad integrarsi naturalmente; suo figlio, a sua volta, sarebbe ancora più belga, ma non si può pretendere una integrazione immediata, forzata, ai primi che arrivano e a cui si da il benvenuto per i lavori più umili, si destinano a ghetti e zone degradate (perché sì, il ghetto nasce come necessità di ritrovare la propria comunità, spesso vincolati da fattori economici, ma anche perché si preferisce tenere lontano il diverso ostacolandone magari l'avvicinamento), ma si sbandiera al fallimento appena ci si accorge di una mancata integrazione. Poi, è ovvio, senza cifre, senza statistiche o analisi ben dichiarate, affermazioni di quel tipo rischiano di essere soltanto del facile populismo o, per altri, un'abile manovra politica nel richiamare alcuni umori della gente in vista di nuovi necessari consensi.
Peccato che appena qualche mese fa, eravamo tutti a celebrare l'impresa mondiale della nazionale tedesca multietnica, di giovani ed immigrati, che poteva puntare a vincere il torneo e che comunque lanciava un messaggio chiaro di integrazione e coesione. E invece è un fallimento. Peccato che appena qualche settimana prima il presidente tedesco richiamava all'unificazione ribadendo d'essere presidente anche delle minoranze, distaccandosi in un certo modo dalle correnti recenti in Europa di razzismo e xenofobia. E invece è un fallimento.
Ed è un fallimento anche in Belgio, perché la stessa affermazione viene poi ripresa anche dall'attuale (e temporaneo ma all'infinito) primo ministro belga, che si trova d'accordo con la Merkel: le politiche di integrazione non hanno funzionato come previsto. Beh, sì, a Bruxelles per esempio si possono incontrare comunità di mezzo mondo, ognuna con la sua fetta di città caratterizzata (o, se volete, ghettizzata), e l'integrazione spesso non sembra essere avvenuta o soltanto in parte. Ma probabilmente M. Leterme non pensava agli americani della base NATO che vivono in città, lavorano in un pezzo d'America ben isolato, mandano i figli a scuole americane, hanno ospedali americani e anche dopo 4 anni balbettano ancora le classiche frasi di francese da turista. E probabilmente non pensava neanche alle migliaia di impiegati della commissione europea che popolano un quartiere che di belga ha poco se non negli edifici d'art nouveau che pur vengono distrutti per far spazio a scrivanie e meeting.
Il fallimento lo si attribuisce alle classi più disagiate, per le quali l'integrazione è resa ancora più difficile da fattori economici, culturali, religiosi, sommati a pregiudizi e facili stereotipi di cronache nere e terrorismo.
Io ho provato ad immaginarmela una Bruxelles senza quegli immigrati da fallimento, ma ne vien fuori quasi una catastrofe, perché una società multietnica non può fallire, mentre si arricchisce di diversità e bellezza, si mischia in qualcosa di non sempre facile, non sempre quiete e pacifico, ma che alla lunga trova il suo equilibrio tra integrazione, condivisione e scoperte. Perché integrazione non può essere soltanto assimilare ed adattarsi, non può essere soltanto un processo unilaterale, ma anche partecipativo in modo attivo, condividendo e diffondendo parte delle proprie origini, arricchendo la società di quella multi-etnicità che no, non può essere un fallimento.
Ed è un fallimento anche in Belgio, perché la stessa affermazione viene poi ripresa anche dall'attuale (e temporaneo ma all'infinito) primo ministro belga, che si trova d'accordo con la Merkel: le politiche di integrazione non hanno funzionato come previsto. Beh, sì, a Bruxelles per esempio si possono incontrare comunità di mezzo mondo, ognuna con la sua fetta di città caratterizzata (o, se volete, ghettizzata), e l'integrazione spesso non sembra essere avvenuta o soltanto in parte. Ma probabilmente M. Leterme non pensava agli americani della base NATO che vivono in città, lavorano in un pezzo d'America ben isolato, mandano i figli a scuole americane, hanno ospedali americani e anche dopo 4 anni balbettano ancora le classiche frasi di francese da turista. E probabilmente non pensava neanche alle migliaia di impiegati della commissione europea che popolano un quartiere che di belga ha poco se non negli edifici d'art nouveau che pur vengono distrutti per far spazio a scrivanie e meeting.
Il fallimento lo si attribuisce alle classi più disagiate, per le quali l'integrazione è resa ancora più difficile da fattori economici, culturali, religiosi, sommati a pregiudizi e facili stereotipi di cronache nere e terrorismo.
Io ho provato ad immaginarmela una Bruxelles senza quegli immigrati da fallimento, ma ne vien fuori quasi una catastrofe, perché una società multietnica non può fallire, mentre si arricchisce di diversità e bellezza, si mischia in qualcosa di non sempre facile, non sempre quiete e pacifico, ma che alla lunga trova il suo equilibrio tra integrazione, condivisione e scoperte. Perché integrazione non può essere soltanto assimilare ed adattarsi, non può essere soltanto un processo unilaterale, ma anche partecipativo in modo attivo, condividendo e diffondendo parte delle proprie origini, arricchendo la società di quella multi-etnicità che no, non può essere un fallimento.
Era meglio aprire la Gazzetta
Mentre il sonno ancora tenta d'insinuarsi tra gli occhi arrossiti ed i pensieri pigri della mattina e mentre la clean&build del sistema prende minuti e minuti di console alla scrivania dell'ufficio che si riempie lentamente (l'ufficio, non la scrivania), inizio a leggere qualcosa su internet e cado sul tormentone inevitabile di bunga bunga, maggiorenni e istinti istituzionali in salsa di viagra.
il collega sbircione: Hey! Ma che fai? Guardi le ragazze su internet? In ufficio? Il collega francese mi guarda con aria un po' sconvolta, come se non avesse mai visto due gambe rasate e una scollatura sporgente.
io: No, ma... è politica!
il collega sbircione: Ahahahahaha, sì, sì, è politica... AahahahaHahahaha!! E ride diabolicamente, che quasi gli prende un colpo.
io: No, no, ma ti giuro, è politica, guarda... è politica davvero...
il collega sbircione: Ahahahahahahaha sì sì, ah, questi italiani... quante se ne inventano pur di guardare donnine!
io: No, guarda, è politica davvero...
il collega sbircione: Eheheheh sì sì, tranquillo, non dico niente al manager, tranquillo. Ah, questi italiani!
io: Ma... è... davvero...
E mentre il collega si allontana, voltandosi due, tre volte con un sorriso tra complice e comprensione (che poi, quale comprensione?), la console annuncia soddisfatta che la build è fallita. Vabbé, la lancio di nuovo, ma questa volta apro la Gazzetta, che è meglio.
il collega sbircione: Hey! Ma che fai? Guardi le ragazze su internet? In ufficio? Il collega francese mi guarda con aria un po' sconvolta, come se non avesse mai visto due gambe rasate e una scollatura sporgente.
io: No, ma... è politica!
il collega sbircione: Ahahahahaha, sì, sì, è politica... AahahahaHahahaha!! E ride diabolicamente, che quasi gli prende un colpo.
io: No, no, ma ti giuro, è politica, guarda... è politica davvero...
il collega sbircione: Ahahahahahahaha sì sì, ah, questi italiani... quante se ne inventano pur di guardare donnine!
io: No, guarda, è politica davvero...
il collega sbircione: Eheheheh sì sì, tranquillo, non dico niente al manager, tranquillo. Ah, questi italiani!
io: Ma... è... davvero...
E mentre il collega si allontana, voltandosi due, tre volte con un sorriso tra complice e comprensione (che poi, quale comprensione?), la console annuncia soddisfatta che la build è fallita. Vabbé, la lancio di nuovo, ma questa volta apro la Gazzetta, che è meglio.
When autumn came
Nello sconfinato Bois de la Cambre, bellissimo parco brussellese, c'è tutto un autunno da scoprire. Foto scattata qui. |
Io mi annullo, lui ci annulla, noi ci annulliamo
Meglio appassionati di belle ragazze che gay. Eccola, l'ultima perla del nostro premier, all'inizio pensavo fosse una delle sue solite battute per distogliere l'attenzione dei media, che puntualmente ci cascano sempre, poi però mi è servita come spunto di riflessione per capire qualcos'altro. Penso a Capezzone o al direttore di Chi o quanti altri funzionari e servi del cavaliere che sono omosessuali e a queste battute non battono ciglio, ma anzi continuano nella fedeltà sfacciata, ad ogni costo; il capo in azienda li offende pubblicamente o offende pubblicamente la categoria a cui appartengono o la classe sociale o la tendenza sessuale, ma si continua ad essere zerbini; il capo in azienda offende i loro colleghi ma loro continuano ad essere zerbini; il capo dell'azienda offende pubblicamente chi dovrebbero rappresentare o chi dovrebbero difendere (si pensi per un attimo alla Carfagna, al suo ruolo ufficiale), ma si continua a fare gli zerbini, magari in una smorfia, una dichiarazione di poche parole, era solo una battuta, chi non capisce è di sinistra e se mio figlio stasera a casa mi chiederà cosa voleva dire il capo della mia azienda, gli dirò di non farci caso, che non sono d'accordo, che non è giusto, anche se poi in contemporanea la tv trasmetterà un'intervista in cui gli dichiaro solidarietà ed amore eterno.
Ecco, allora il problema non è il capo dell'azienda, perché a 73 anni cambierà poco e deve salvarsi dalla legge, non può dimettersi, non ha via d'uscita se non quella di giocare alle battute e cercare di andare avanti, sperando che anche questa volta gli italiani dimentichino in fretta; il problema sono gli altri, gli zerbini, gli alleati ed i compagni di partito, che non hanno rispetto verso se stessi e verso gli altri, per una poltrona redditizia ed una fetta piccolissima di potere, perché sanno che senza il capo non sono nulla e pur di non annullarsi preferiscono annullare il proprio orgoglio e la propria autostima. Ecco, è più triste l'immagine di un capo che ha bisogno di simili uomini per andare avanti o quella che li riunisce tutti, quegli uomini, sorridenti e consenzienti nonostante tutto?
Ecco, allora il problema non è il capo dell'azienda, perché a 73 anni cambierà poco e deve salvarsi dalla legge, non può dimettersi, non ha via d'uscita se non quella di giocare alle battute e cercare di andare avanti, sperando che anche questa volta gli italiani dimentichino in fretta; il problema sono gli altri, gli zerbini, gli alleati ed i compagni di partito, che non hanno rispetto verso se stessi e verso gli altri, per una poltrona redditizia ed una fetta piccolissima di potere, perché sanno che senza il capo non sono nulla e pur di non annullarsi preferiscono annullare il proprio orgoglio e la propria autostima. Ecco, è più triste l'immagine di un capo che ha bisogno di simili uomini per andare avanti o quella che li riunisce tutti, quegli uomini, sorridenti e consenzienti nonostante tutto?
Halloween brussellese
Ad un certo punto ieri, verso le sette di sera, suona il campanello, che praticamente non suona quasi mai o almeno non senza preavviso telefonico e allora io guardo la mia ragazza che di riflesso guarda me e mi domanda:
lei: "Aspettavi visite?".
io: "No, e tu?".
lei: "No".
io: "Vabbé, vado a rispondere".
Prendo il citofono e lancio un francesissimo "Oui?" [Sì]
al citofono: "Bonbon s'il vous plaît!" [Dolcetti per cortesia!] Con una voce dolce e innocente di ragazzini in cerca di dolcetti. Stavano lì, giù, alla porta di casa, sicuramente vestiti da mostriciattoli, in attesa di delizie. E io che credevo che certe cose accadessero soltanto nei film americani!
io: "Titti, ci sono ancora cioccolatini?"
lei: "Sì, credo di sì, perché? Ma chi ha citofonato?"
io: "Perfetto. E i denti finti da vampiro dove sono?"
lei: "Eh???!"
io: "C'è sangue fresco giù, non me lo posso far scappare!"
lei: "Aspettavi visite?".
io: "No, e tu?".
lei: "No".
io: "Vabbé, vado a rispondere".
Prendo il citofono e lancio un francesissimo "Oui?" [Sì]
al citofono: "Bonbon s'il vous plaît!" [Dolcetti per cortesia!] Con una voce dolce e innocente di ragazzini in cerca di dolcetti. Stavano lì, giù, alla porta di casa, sicuramente vestiti da mostriciattoli, in attesa di delizie. E io che credevo che certe cose accadessero soltanto nei film americani!
io: "Titti, ci sono ancora cioccolatini?"
lei: "Sì, credo di sì, perché? Ma chi ha citofonato?"
io: "Perfetto. E i denti finti da vampiro dove sono?"
lei: "Eh???!"
io: "C'è sangue fresco giù, non me lo posso far scappare!"
La sagra degli italo-belgi a Bruxelles (del 2010)
O anche: cosa che ti possono capitare a Bruxelles (3). Così ieri ci si organizza con amici per una serata in discoteca, doveva essere qualcosa di mascherato per Halloween, poi no, si scopre che la serata è a tema, sull'Italia. Sull'Italia? Sì, è un Luxury Italian party, che già il nome tra dubbi e previsioni (magari pregiudizi, lo ammetto) mi dirottano verso un cambio di programma che alla fine non c'è e allora andiamo alla scoperta di questo evento.
Quando all'ingresso vedo due Ferrari ed una Maserati parcheggiate in bella vista, ad esposizione e manifesto chiaro delle intenzioni organizzative, mi guardo le scarpe e mi domando semmai sarei potuto entrare. E invece no, si entra senza problemi, ma dentro dall'atmosfera deduco subito che no, le scarpe non erano adatte, anche se poi lo stile è tutto un gusto personale, si sa. Ma veniamo all'Italia, quella del luxury party. Un proiettore spara sulla parete gigante immagini di alta moda con Roberto Cavalli (che poi vorrei sapere, quanti italiani vestono Roberto Cavalli? Cioè, certamente non quel 8% di disoccupati e neanche quei 5 milioni di immigrati che pur reggono una parte dell'economia e a parte quel 30% di giovani senza lavoro, ma poi il resto?) mentre al tavolo di fronte alcune signore avanti con l'età brindano con calici di vino, che sia piemontese o della California non si potrebbe dire ma in fondo poco importa, è luxury italian party, dai.
Mentre cerchiamo di ambientarci ordinando al bar qualcosa, il proiettore spara scollature e culi in bella mostra, di sfilata, di serate e festini, che sicuramente fa molto italiano, soprattutto all'estero recentemente, dopo che un dittatore straniero può venire più volte nel Bel paese e ordinare altezze e forme per 500 ragazze-oggetto e l'amico e compagno d'affari, nonché primo ministro nel tempo libero, si occupa di bunga bunga a iniezioni di viagra.
D'improvviso il dj al microfono grida esaltato "Benvenuti italiani, benvenuta Italia" e c'è chi urla, chi gli fa l'ok, chi si sente riconosciuto e con la pelle d'oca e la vodka in mano risponde al richiamo della tribù riunita. Cose che ti possono capitare a Bruxelles, mica altrove. La musica passa dagli anni 80 a Ramazzotti (versione disco, sottolineo con ancora qualche problema irreparabile al sistema uditivo), per poi cadere a Giggi D'Alessio e partire con una collezione di neomelodica napoletana (sì, lo giuro) tra cui un pezzo che poi mi è stato segnalato essere questo (brividi). Io rido isterico, oramai intrappolato e curioso dei mille risvolti della serata, a tratti anche divertenti per compagnia e stupidaggini varie, quando il dj propone addirittura l'inno di Mameli e vedo mani sul cuore, bocche aperte a squarciagola e gente impazzita per l'Italia. Ma siamo a Bruxelles e mi rendo conto che la maggior parte delle persone presenti son belghe ma di origini italiane, discendenti di quegli immigrati di 60 anni fa o recenti, non importa, basta quel 1% d'italiano nel sangue per sentirsi parte di quella cultura e associarsi a bandiera, colori, apparenze.
Io le riunioni della comunità italiana di immigrati di decenni passati me le immagino come sagre, con vino e soppressate, lasagne e musica popolare, magari con Raffaella Carrà che canta da una radio e rallegra la serata. Quella sagra moderna invece, di discendenti e nipoti, sembrava staccarsi per un attimo dalla realtà tanto che italiani di oggi non se ne sentivano identificati. Magari sarà che i nonni raccontavano di un'Italia lontana e bellissima, posto di spiagge e sole, facile miglioramento rispetto al Belgio nuvoloso e freddo, e forse esaltavano i mondiali del 82 o un paese congelato nell'immaginario dell'emigrante ma che nel frattempo cambiava, si evolveva. E io? Cosa racconterò ai miei nipoti, quando un giorno in qualche paese straniero (quale chissà) mi ritroverò a rispondere a domande sull'Italia? Parlerò dei mondiali del 2006, di Valentino Rossi, la Ferrari ed Umberto Eco o del berlusconismo, dei tronisti, della generazione dei reality dove conta di più avere una quarta di seno che sapere se la Montalcini sia ancora viva oppure no? Probabilmente vincerò solo riuscendo a trasmettere la non appartenenza a nessuna nazione e la consapevolezza di vivere in un mondo di tutti e per tutti. Ma quanto belgi si sentivano quei belgi di origini italiane? E quanto italiani? Forse sarà come quelle coppie separate, dove anche dopo anni ognuno di loro è ancora innamorato dell'immagine dell'altro, della persona con cui si stava insieme che nel frattempo è cambiata, non è più la stessa e tornare insieme poi si rivela spesso un fallimento, proprio perché si scopre di star cercando qualcuno che non esiste più, se non nella propria mente, ma come in una maledizione riesce poi difficile innamorarsi di qualcun altro, invece reale, perché il cuore batte ancora lì; forse sarà proprio così per quegli italo-belgi che ballavano e gridavano Italia, innamorati di una patria raccontata dai padri, dai nonni, di un paese oramai diverso, e al contempo incapaci di amare il paese di nascita, quel Belgio misto di immigranti e leggende.
Andiamo via soffocati dal fumo e stanchi del ballo e della serata, mentre troppi (vista l'ora) punti interrogativi rimbalzavano irrequieti tra le pareti celebrali. E non me ne vorranno quei belgi di origini italiane, ma Ramazzotti, D'Alessio e Rosario Miraggio tutti insieme è stato davvero un trama (senza contare i tanti personaggi dall'aspetto camorristico che ho visto entrare in quella sorta di privé al piano di sopra). Ho visto e ascoltato tanti mostri, ma poi la chiave di lettura me l'ha fornita distrattamente un amico: in fondo, è il fine settimana di Halloween, non a caso.
Quando all'ingresso vedo due Ferrari ed una Maserati parcheggiate in bella vista, ad esposizione e manifesto chiaro delle intenzioni organizzative, mi guardo le scarpe e mi domando semmai sarei potuto entrare. E invece no, si entra senza problemi, ma dentro dall'atmosfera deduco subito che no, le scarpe non erano adatte, anche se poi lo stile è tutto un gusto personale, si sa. Ma veniamo all'Italia, quella del luxury party. Un proiettore spara sulla parete gigante immagini di alta moda con Roberto Cavalli (che poi vorrei sapere, quanti italiani vestono Roberto Cavalli? Cioè, certamente non quel 8% di disoccupati e neanche quei 5 milioni di immigrati che pur reggono una parte dell'economia e a parte quel 30% di giovani senza lavoro, ma poi il resto?) mentre al tavolo di fronte alcune signore avanti con l'età brindano con calici di vino, che sia piemontese o della California non si potrebbe dire ma in fondo poco importa, è luxury italian party, dai.
Mentre cerchiamo di ambientarci ordinando al bar qualcosa, il proiettore spara scollature e culi in bella mostra, di sfilata, di serate e festini, che sicuramente fa molto italiano, soprattutto all'estero recentemente, dopo che un dittatore straniero può venire più volte nel Bel paese e ordinare altezze e forme per 500 ragazze-oggetto e l'amico e compagno d'affari, nonché primo ministro nel tempo libero, si occupa di bunga bunga a iniezioni di viagra.
D'improvviso il dj al microfono grida esaltato "Benvenuti italiani, benvenuta Italia" e c'è chi urla, chi gli fa l'ok, chi si sente riconosciuto e con la pelle d'oca e la vodka in mano risponde al richiamo della tribù riunita. Cose che ti possono capitare a Bruxelles, mica altrove. La musica passa dagli anni 80 a Ramazzotti (versione disco, sottolineo con ancora qualche problema irreparabile al sistema uditivo), per poi cadere a Giggi D'Alessio e partire con una collezione di neomelodica napoletana (sì, lo giuro) tra cui un pezzo che poi mi è stato segnalato essere questo (brividi). Io rido isterico, oramai intrappolato e curioso dei mille risvolti della serata, a tratti anche divertenti per compagnia e stupidaggini varie, quando il dj propone addirittura l'inno di Mameli e vedo mani sul cuore, bocche aperte a squarciagola e gente impazzita per l'Italia. Ma siamo a Bruxelles e mi rendo conto che la maggior parte delle persone presenti son belghe ma di origini italiane, discendenti di quegli immigrati di 60 anni fa o recenti, non importa, basta quel 1% d'italiano nel sangue per sentirsi parte di quella cultura e associarsi a bandiera, colori, apparenze.
Io le riunioni della comunità italiana di immigrati di decenni passati me le immagino come sagre, con vino e soppressate, lasagne e musica popolare, magari con Raffaella Carrà che canta da una radio e rallegra la serata. Quella sagra moderna invece, di discendenti e nipoti, sembrava staccarsi per un attimo dalla realtà tanto che italiani di oggi non se ne sentivano identificati. Magari sarà che i nonni raccontavano di un'Italia lontana e bellissima, posto di spiagge e sole, facile miglioramento rispetto al Belgio nuvoloso e freddo, e forse esaltavano i mondiali del 82 o un paese congelato nell'immaginario dell'emigrante ma che nel frattempo cambiava, si evolveva. E io? Cosa racconterò ai miei nipoti, quando un giorno in qualche paese straniero (quale chissà) mi ritroverò a rispondere a domande sull'Italia? Parlerò dei mondiali del 2006, di Valentino Rossi, la Ferrari ed Umberto Eco o del berlusconismo, dei tronisti, della generazione dei reality dove conta di più avere una quarta di seno che sapere se la Montalcini sia ancora viva oppure no? Probabilmente vincerò solo riuscendo a trasmettere la non appartenenza a nessuna nazione e la consapevolezza di vivere in un mondo di tutti e per tutti. Ma quanto belgi si sentivano quei belgi di origini italiane? E quanto italiani? Forse sarà come quelle coppie separate, dove anche dopo anni ognuno di loro è ancora innamorato dell'immagine dell'altro, della persona con cui si stava insieme che nel frattempo è cambiata, non è più la stessa e tornare insieme poi si rivela spesso un fallimento, proprio perché si scopre di star cercando qualcuno che non esiste più, se non nella propria mente, ma come in una maledizione riesce poi difficile innamorarsi di qualcun altro, invece reale, perché il cuore batte ancora lì; forse sarà proprio così per quegli italo-belgi che ballavano e gridavano Italia, innamorati di una patria raccontata dai padri, dai nonni, di un paese oramai diverso, e al contempo incapaci di amare il paese di nascita, quel Belgio misto di immigranti e leggende.
Andiamo via soffocati dal fumo e stanchi del ballo e della serata, mentre troppi (vista l'ora) punti interrogativi rimbalzavano irrequieti tra le pareti celebrali. E non me ne vorranno quei belgi di origini italiane, ma Ramazzotti, D'Alessio e Rosario Miraggio tutti insieme è stato davvero un trama (senza contare i tanti personaggi dall'aspetto camorristico che ho visto entrare in quella sorta di privé al piano di sopra). Ho visto e ascoltato tanti mostri, ma poi la chiave di lettura me l'ha fornita distrattamente un amico: in fondo, è il fine settimana di Halloween, non a caso.
Simplicemente il posto il più vip di Bruxelles. No, grazie. Foto scattata qui. |
Sopravvivenza nel 2010
Ieri in coda all'aeroporto di Ciampino per tornare qui a Bruxelles, dopo un'ora e mezza di nulla Ryanair non fa sapere nulla (appunto) e la gente inizia un po' a sbuffare, chi ad imprecare dei minori chi a sfogare il nervosismo accumulato sull'amico o sul partner di turno. Una signora abbastanza avanti con l'età mi confessa "No, basta non ce la faccio più, io devo fumare, se sapevo di questa fila... mi sarei fermata a fumarmi un'ultima sigaretta all'ingresso, tra poco vado in crisi d'astinenza!", un ragazzo a fianco a noi replica "e io? In questo aeroporto non c'è nessuna rete wireless, non controllo la posta da tre ore, non ha senso". Io sgrano un po' gli occhi ma congedo il tutto in una smorfia poco espressiva, io che avevo proprio bisogno di una bottiglietta d'acqua, con la gola secca e la cola interminabile, ma non l'ho detto, troppo naturale la mia necessità a confronto, mi avrebbe imbarazzato. Eh, l'evoluzione. Certo che nel 2010 - ho pensato tra me e me - si è fatta davvero difficile la sopravvivenza.
L'uomo che sposta le montagne, inizia dai sassolini
«Perché diavolo stai scrivendo un libro sull'Italia?»
«Bè, perché no? Non pensi che il tuo sia un Paese interessante?»
« In realtà, no. L'Italia non interessa a nessuno. E, comunque, non c'è speranza. I politici sono tutti corrotti. Non c'è niente da fare. A nessuno importa. Sa com'è, siamo un Paese di individualisti, non siamo capaci di fare squadra. La nostra industria è stata annientata dalla Cina e dall'India. Le nostre università sono inutili. Il nostro sistema giudiziario è malato. Stiamo diventando vecchi e nessuno fa più figli. Lascerei perdere, se fossi in te. Tieni, beviti un'altra grappa.»
«Ma state per celebrare il centocinquantesimo anniversario della vostra Unità. Che cosa penserebbero Cavour, Mazzini e Garibaldi se ti sentissero parlare così? Non sei orgoglioso di essere italiano?»
«Sì, sì, ma anche se siamo un Paese da centocinquant'anni non siamo mai stati una nazione. L'unica cosa che ci unisce è il calcio, e a volte neanche quello. Comunque, come ti dicevo, non c'è niente che si possa fare, e nessuno che voglia provarci.»
No, non è la solita critica qualunquista o altra fontana spontanea di lamenti, ma soltanto l'inizio di un libro, che potete continuare a leggere qui (almeno per quanto riguarda il primo capitolo), di uno scrittore e giornalista inglese (nonché ex direttore dell'Economist), Bill Emmot, che scarta la facile quanto banale suddivisione geografica del paese in Nord e Sud e descrive cosa sia la Mala Italia e la Buona Italia, da chi si ne frega e continua nei propri interessi personali a chi lotta e crede nel senso civico e nella giustizia, dal cancro alla speranza.
Certo, proprio oggi che si ricorda che la corruzione nel Bel paese è peggiorata in modo quasi irreversibile, che quel cancro continua ad espandere radici ed infermi, di quella speranza ce ne sarebbe davvero bisogno e magari anche una mano, per spostare più sassolini, perché quella montagna almeno per ora sembra davvero inamovibile.
«Bè, perché no? Non pensi che il tuo sia un Paese interessante?»
« In realtà, no. L'Italia non interessa a nessuno. E, comunque, non c'è speranza. I politici sono tutti corrotti. Non c'è niente da fare. A nessuno importa. Sa com'è, siamo un Paese di individualisti, non siamo capaci di fare squadra. La nostra industria è stata annientata dalla Cina e dall'India. Le nostre università sono inutili. Il nostro sistema giudiziario è malato. Stiamo diventando vecchi e nessuno fa più figli. Lascerei perdere, se fossi in te. Tieni, beviti un'altra grappa.»
«Ma state per celebrare il centocinquantesimo anniversario della vostra Unità. Che cosa penserebbero Cavour, Mazzini e Garibaldi se ti sentissero parlare così? Non sei orgoglioso di essere italiano?»
«Sì, sì, ma anche se siamo un Paese da centocinquant'anni non siamo mai stati una nazione. L'unica cosa che ci unisce è il calcio, e a volte neanche quello. Comunque, come ti dicevo, non c'è niente che si possa fare, e nessuno che voglia provarci.»
No, non è la solita critica qualunquista o altra fontana spontanea di lamenti, ma soltanto l'inizio di un libro, che potete continuare a leggere qui (almeno per quanto riguarda il primo capitolo), di uno scrittore e giornalista inglese (nonché ex direttore dell'Economist), Bill Emmot, che scarta la facile quanto banale suddivisione geografica del paese in Nord e Sud e descrive cosa sia la Mala Italia e la Buona Italia, da chi si ne frega e continua nei propri interessi personali a chi lotta e crede nel senso civico e nella giustizia, dal cancro alla speranza.
Certo, proprio oggi che si ricorda che la corruzione nel Bel paese è peggiorata in modo quasi irreversibile, che quel cancro continua ad espandere radici ed infermi, di quella speranza ce ne sarebbe davvero bisogno e magari anche una mano, per spostare più sassolini, perché quella montagna almeno per ora sembra davvero inamovibile.
La scomparsa degli immigrati (a Bruxelles)
Venerdì c'è il freddo di questo autunno gelido a risvegliare le smorfie mattutine ed i pensieri impertinenti della giornata da affrontare, quando ad un tratto una macchina che sembra della polizia passa a rilento con luci azzurre e megafono straziante: "Oggi è il giorno, basta con gli immigrati, tutti gli immigrati scompariranno, nell'aria è stata rilasciata la nuova sostanza liberatoria". E passa veloce un altro di quegli aerei dalle scie intrecciate che quotidiani sorvolano Bruxelles, ricamando panorami di pennellate innaturali. Ma tu non ascolti bene, tra il rumore dell'autobus che passa veloce ed i meccanismi celebrali ancora insonnoliti, mentre un signore commenta proprio lì vicino: "Senza immigrati? E che sarà mai, cosa mai potrà cambiare?!". Basta con gli immigrati. Chissà cosa vorrà dire - pensi - Magari l'ennesima trovata di qualche estremista paranoico.
Poi d'un tratto, mentre ti avvii verso la metro, incroci un tipo dall'aspetto magrebino che sputa a terra come d'abitudine e poi improvvisamente, Pluff! Scompare, in una nube di fumo grigiastro, uno stridulo di porta arrugginita e niente, al suo posto gli ultimi vapori di quella nebbia misteriosa. Pluff. E niente più. Ma non ci credi, forse ancora in sogno, magari ancora con la testa in qualche percorso onirico e irreale, continui la tua marcia verso la metro obbligatoria. Ti avvii a passi veloci, quando una macchina di quelle con lo stereo altissimo di qualche marocchino irrispettoso passa veloce rasente il marciapiedi, quando il tipo al volante di colpo pluff! E la macchina si schianta dopo la curva, vuota. La gente accorre ma tu non hai tempo per capire e continui un po' turbato. Ma proprio nei pressi della fermata Schuman, lì ai piedi del bruttissimo palazzone della Commissione Europea, ecco che ancora gli impiegati portoghesi, bulgari e tedeschi, pieni di scartoffie e incravattati nel respiro, di colpo pluff! e pluff! e Pluff! vedi nuvolette in giro e poi solo aria, come uno strano fenomeno meteorologico, un comparire di fumo e uno scomparire di persone. Non capisco - pensi - che succede questa mattina? Ti avvi alla metro ma la metro è lì ferma, perché anche il pilota tunisino, Pluff!, scomparso, ed i tizi dietro lo sportello dei biglietti, quelli algerini, Pluff!, Pluff! Allora torni indietro, cerchi un taxi ma Pluff!, Pluff!, Pluff! Quanti taxi parcheggiati e vuoti! Altri in giro ma già pieni e troppo lunga la fila per il prossimo. Allora prendi la bici, di quelle cittadine, e ti avvi nella corsa verso l'ufficio, perché l'orologio già inizia a stressare di ritardo.
Arrivi sudato, un po' straniato per quella nebbia innaturale e un po' distratto dalla fretta del lavoro, ma proprio in ufficio ecco che il manager francese, Pluff! Non c'è più, ed il collega cinese, Pluff! Scompare proprio davanti a te. Apri la porta e vedi le signore della pulizia, quelle dai lineamenti sudamericani, Pluff!, Pluff!, Pluff!, e al pavimento solo stracci ed il carrello delle scope. Ma che succede? Allora è vero? Niente più immigrati di colpo qui a Bruxelles?
Torni al piano terra, prendi la bici, corri verso casa, ma la casa è del proprietario irlandese ed ecco che Pluff! Tutto l'edificio scompare, proprio mentre il signore polacco era arrivato per riparare la caldaia, ma poi anche lui, pluff! Allora corri al mercato, quello della piazzola che ogni venerdì popola di sorrisi ed allegria, ed ecco il signor Tony, al furgone italiano, dove compri sempre la ricotta, ecco che Pluff! E niente più, e i signori dalle lingue arabe dove compri chili di frutta d'ogni tipo ecco che Pluff! Pluff! e pluff! E la signora Pouy, quella dove ogni tanto ti fermi per una cena tailandese, ecco che pluff! Anche lei, all'improvviso, senza preavviso. Ti volti sconvolto, col viso impallidito, ma poi ti rallegri, perché ecco che all'angolo arriva come luce la tua ragazza in cerca di aiuto, ma poi ci pensi, no! Lei è spagnola, inizi a gridare, ma ecco che pluff! Cazzo, ma che succede? Adesso dov'è? E fermi tutti! Ma allora... un momento, ma anche io sono immigrato, un italiano qui a Bruxelles, ma allora che significa? Pluff!
Poi d'un tratto, mentre ti avvii verso la metro, incroci un tipo dall'aspetto magrebino che sputa a terra come d'abitudine e poi improvvisamente, Pluff! Scompare, in una nube di fumo grigiastro, uno stridulo di porta arrugginita e niente, al suo posto gli ultimi vapori di quella nebbia misteriosa. Pluff. E niente più. Ma non ci credi, forse ancora in sogno, magari ancora con la testa in qualche percorso onirico e irreale, continui la tua marcia verso la metro obbligatoria. Ti avvii a passi veloci, quando una macchina di quelle con lo stereo altissimo di qualche marocchino irrispettoso passa veloce rasente il marciapiedi, quando il tipo al volante di colpo pluff! E la macchina si schianta dopo la curva, vuota. La gente accorre ma tu non hai tempo per capire e continui un po' turbato. Ma proprio nei pressi della fermata Schuman, lì ai piedi del bruttissimo palazzone della Commissione Europea, ecco che ancora gli impiegati portoghesi, bulgari e tedeschi, pieni di scartoffie e incravattati nel respiro, di colpo pluff! e pluff! e Pluff! vedi nuvolette in giro e poi solo aria, come uno strano fenomeno meteorologico, un comparire di fumo e uno scomparire di persone. Non capisco - pensi - che succede questa mattina? Ti avvi alla metro ma la metro è lì ferma, perché anche il pilota tunisino, Pluff!, scomparso, ed i tizi dietro lo sportello dei biglietti, quelli algerini, Pluff!, Pluff! Allora torni indietro, cerchi un taxi ma Pluff!, Pluff!, Pluff! Quanti taxi parcheggiati e vuoti! Altri in giro ma già pieni e troppo lunga la fila per il prossimo. Allora prendi la bici, di quelle cittadine, e ti avvi nella corsa verso l'ufficio, perché l'orologio già inizia a stressare di ritardo.
Arrivi sudato, un po' straniato per quella nebbia innaturale e un po' distratto dalla fretta del lavoro, ma proprio in ufficio ecco che il manager francese, Pluff! Non c'è più, ed il collega cinese, Pluff! Scompare proprio davanti a te. Apri la porta e vedi le signore della pulizia, quelle dai lineamenti sudamericani, Pluff!, Pluff!, Pluff!, e al pavimento solo stracci ed il carrello delle scope. Ma che succede? Allora è vero? Niente più immigrati di colpo qui a Bruxelles?
Torni al piano terra, prendi la bici, corri verso casa, ma la casa è del proprietario irlandese ed ecco che Pluff! Tutto l'edificio scompare, proprio mentre il signore polacco era arrivato per riparare la caldaia, ma poi anche lui, pluff! Allora corri al mercato, quello della piazzola che ogni venerdì popola di sorrisi ed allegria, ed ecco il signor Tony, al furgone italiano, dove compri sempre la ricotta, ecco che Pluff! E niente più, e i signori dalle lingue arabe dove compri chili di frutta d'ogni tipo ecco che Pluff! Pluff! e pluff! E la signora Pouy, quella dove ogni tanto ti fermi per una cena tailandese, ecco che pluff! Anche lei, all'improvviso, senza preavviso. Ti volti sconvolto, col viso impallidito, ma poi ti rallegri, perché ecco che all'angolo arriva come luce la tua ragazza in cerca di aiuto, ma poi ci pensi, no! Lei è spagnola, inizi a gridare, ma ecco che pluff! Cazzo, ma che succede? Adesso dov'è? E fermi tutti! Ma allora... un momento, ma anche io sono immigrato, un italiano qui a Bruxelles, ma allora che significa? Pluff!
Cartello affisso durante la notte bianca di qualche settimana fa qui a Bruxelles, recita "Cosa sarebbe il mondo senza la presenza degli altri?". Foto scattata qui. |
Quel giorno che le nazioni scomparvero
Fu un giorno di quelli nuvolosi, con il sole timido ma presente, che a sprazzi trovava spazio tra i cumuli d'ovatta illuminando tetti e strade - disse il saggio, con la sua tipica voce rauca - e fu un giorno importante: le nazioni scomparvero. Così, da quel giorno scomparve l'Italia, il Canada ed il Ghana, ma non sulla cartina geografica, non di terra e popoli, ma scomparvero quei confini amministrativi, quelle linee disegnate da guerre e sangue, da padroni e commercio, le linee dei cartografi, spesso non di monti e fiumi ma dritte, spezzate, irregolari, senza senso; e scomparvero le dogane, barriere, confini, divieti. E scomparvero anche il Laos e la Danimarca e il Messico. Fu un giorno strano, perché di colpo un parigino poteva vantarsi del Colosseo e un australiano vergognarsi delle guerre civili in Congo, un argentino si sentiva fratello di un cinese e un finlandese aveva voglia di proteggere l'arte ed i musei di Baghdad. Tu pensa, di colpo, scomparve anche il concetto di emigrante, né emigranti né immigranti, tutti uguali, cittadini del mondo che finalmente trovava il suo equilibrio naturale. Non si poteva più parlare di brain drain, di fuga dei cervelli, non c'era nessuna fuga, c'era solo uno spostarsi da un posto ad un altro. E scomparvero anche la Grecia, la Bolivia e l'India. Nessuna patria, nessun patriottismo, solo l'amore per questo mondo e la coscienza di volerlo migliorare. Anche i fascisti scomparvero, non c'era nessuno sciovinismo da esaltare, nessuna razza da odiare o perseguire, nessun nemico. E tutti i debiti dell'Africa, tutto il neocolonialismo moderno scomparve, non c'era più bisogno di riparare immense somme di denaro mai esistito, di violenze e manovre secolari. Tu pensa, un mondo senza quell'idea di nazione, di appartenenza a un pezzo così piccolo di mondo quando il mondo è tutto lì, per tutti e di tutti. Non scomparve la diversità dei popoli, le culture, le lingue e le religioni, ma soltanto la voglia di difendere questo luogo e non quello, di amare questo panorama di una spiaggia portoghese e non quello di montagne tibetane, la credenza che esistano soltanto le mura di casa, della propria città e del proprio alfabeto, ignorando tanto altro, tuo, mio, nostro. Tu pensa, quel giorno finalmente capimmo tutto, capimmo tutti quanto insulse e insensate erano quelle propagande d'odio e superbia, capimmo che non c'era migliore se altrove esisteva ancora chi non poteva sopperire alle necessità basilari, capimmo quanto tempo avevamo sprecato fino ad allora e quanto c'era da migliorare, scoprire, condividere ed amare.
I ragazzi ascoltarono tutto silenziosi e affascinati, qualcuno con la bocca aperta in attesa della fine, altri con gli occhi chiusi ad immaginare. Poi uno di loro interruppe per una domanda importantissima.
lo sciocco: E i mondiali di calcio?
I ragazzi ascoltarono tutto silenziosi e affascinati, qualcuno con la bocca aperta in attesa della fine, altri con gli occhi chiusi ad immaginare. Poi uno di loro interruppe per una domanda importantissima.
lo sciocco: E i mondiali di calcio?
L'Italia, ora
Negli ultimi 5 minuti sono nati 7 nuovi bambini in Italia, 8 persone sono morte, 5 sono i nuovi immigrati, mentre il debito pubblico è cresciuto di 441.647 euro con altri 97.348 euro spesi in interessi su quel debito, intanto che 680.284 euro sono stati spesi in giochi e lotterie e a tavola si son consumati altri 21.821 Kg di pasta, con la faccia più bella per 29.176 euro spesi in chirurgia estetica assistendo a 3 nuovi matrimoni e 2 divorzi. Tutto in cinque minuti. E non è una critica né finzione, è soltanto l'Italia, ora.
The map of Europe
Al Parlamento Europeo ho trovato questa mappa d'Europa, piena di stereotipi è vero, ma anche carina e significativa: se ci son così tante cose diverse da sottolineare, vuol dire che c'è ricchezza, di cultura, di storia, sociale. Foto scattata qui. |
Consigli per i tranelli dell'emigrante
L'instancabile ed ammirevole Aldo ha pubblicato un guest post di una psicologa italiana a Barcellona che riassume praticamente in poche righe tutto (o quasi tutto) quello che vi può capitare a livello emotivo emigrando all'estero. I lamenti, le crisi, le incertezze, la rabbia e l'aggressività verso la cultura ospitante, i sensi di isolamento sociale, fino addirittura a risentimenti fisici come nausea o emicranie, insomma trovate tutto il mix emozionale in un elenco sintetico ma completo con una lista di consigli per reagire ed apprezzare al meglio il presente che si sta vivendo. Consiglio la lettura a chiunque sia in procinto di iniziare un'avventura all'estero, a chi l'abbia iniziata da poco ma anche a chi è già altrove da un po' ma ancora cade, inevitabilmente, in quei tranelli dell'emigrante (e anche io mi son ritrovato in più di un punto), perché nessuno è perfetto né si parte con il libretto delle istruzioni, ma l'importante è acquisire la coscienza delle cose e reagire. Buona lettura ;)
Un italiano messo a nudo
Qualche settimana fa al corso serale di francese la prof ha chiesto ad ogni studente di preparare una presentazione di 10 minuti per parlare di qualcosa di tipico del proprio paese. Qualcosa di tipico. Nel descriverlo, la prof si riferisce a qualcosa di turistico, qualcosa che si esporta, di conosciuto, qualcosa che appartiene al proprio paese. La prima presentazione è stata della ragazza della Repubblica Dominicana: una presentazione di spiagge naturali, palme e paesaggi paradisiaci, campi da golf immensi e tante altre info che alla fine veniva davvero voglia di partire il prossimo fine settimana e tuffarsi in quelle acqua chiare e trasparenti (e tu, appena arrivato a casa la sera, hai anche controllato i voli, dopato da quella presentazione ben riuscita). Poi tocca a te. Qualcosa di tipico dell'Italia. Ma a te non piace parlare di pizza, di pasta e mandolino o di mete turistiche sicuramente da apprezzare o di tante altre cose magari già conosciute o forse ignote, degne di nota, ma non c'è voglia di pubblicizzare il meglio, quasi fosse l'ennesima propaganda del paese del sole o del governo di chi ha addirittura salvato il mondo dalla crisi. E allora si parla della mafia. Qualcosa di tipico.
Quando raggiungi la lavagna, vuota in attesa di scarabocchi, un po' come la testa per un attimo vuota in attesa di un sospiro, la classe ti guarda impaziente, piena in attesa di notizie. E allora inizi, si parla della mafia, qualcosa di tipico in Italia, con espressione seria, partendo dall'Unità d'Italia, dai proprietari terrieri e l'approccio ancora feudale, passando per il fascismo e lo sbarco americano in Sicilia, per poi andare al dopoguerra brevemente, elencare i tipi di organizzazioni mafiose del Sud d'Italia e cercare di spiegare cosa sia un modo mafioso di pensare, di agire, di essere. E allora eccoli, gli scarabocchi alla lavagna, una mappa della penisola, la faccia di Marlon Brando e poi qualche freccia, tante parole e le facce di chi magari si perde tra il tuo francese imperfetto ed il tempo a disposizione, mentre qualcuno fissa l'orologio perché ha l'autobus che parte e altri che invece sono un fiume di domande, insaziabili. E tu sei lì, a cercare di rispondere, in quell'argomento troppo complesso (che incosciente) da poter essere affrontato in 10 minuti, che poi però diventano 30 perché le domande non si fermano e si passa a Mangano, a Dell'Utri, agli eroi moderni, perché il discorso continua e i ragazzi si appassionano. La ragazza albanese vuole sapere di più sulla Sacra Corona Unita, il ragazzo libico vuole conoscere le opinioni sulle amicizie con Gheddafi e la ragazza americana non si accontenta delle risposte su Berlusconi, i ragazzi tedeschi vogliono più dettagli sulla Ndrangheta. E tu parli, parli, purtroppo senza contraddittorio, dimenticando regole di grammatica e accenti e dittonghi, mentre la prof annota, qualche volta ti corregge, continuandoti a guardare con due occhi grandi e comprensivi, gli occhi di chi ascolta problemi mentre magari si aspettava sorrisi.
Ed eccolo là, un italiano messo a nudo. Senza la barba di Galileo o lo stile del Rinascimento, senza la coppa del mondo alla mano o il sorriso di Valentino Rossi, senza pizza e senza gelati, senza l'oscar di Benigni o la scollatura di Sofia Loren, senza spiagge e senza sole, via tutto quello di tipico che potrebbe far pensare ad alcuni di venire dal paese più bello del mondo o ad altri di vantarsi, esserne fieri, gonfiarsi il petto e cadere in facili sciovinismi e stereotipi centenari, gli stessi che probabilmente i ragazzi della classe si aspettavano di vedere, ascoltare, ammirare. E invece no. Adesso sanno qualcosa di più sull'Italia, qualcosa che non è il solito film di sparatorie e popcorn, un'Italia che non è solo turismo e foto, che non ha soltanto piazze luminose e piatti invitanti, ma anche conflitti d'interessi, mancanze di pluralità d'informazione, tasso di corruzione altissimo e quella mafia, tipica, di organizzazione e abitudini.
Poi vai via, tu che non volevi affatto sputtanare il tuo paese, ma soltanto mostrare qualcosa di tipico, vai via con quel senso di nudità imprevisto, un nodo alla gola, una tristezza profonda, quasi a non credere a tutte quelle verità raccontate, tutte d'un colpo, tutte insieme, forse troppe; e vai via con la consapevole amarezza che era davvero qualcosa di tipico.
Quando raggiungi la lavagna, vuota in attesa di scarabocchi, un po' come la testa per un attimo vuota in attesa di un sospiro, la classe ti guarda impaziente, piena in attesa di notizie. E allora inizi, si parla della mafia, qualcosa di tipico in Italia, con espressione seria, partendo dall'Unità d'Italia, dai proprietari terrieri e l'approccio ancora feudale, passando per il fascismo e lo sbarco americano in Sicilia, per poi andare al dopoguerra brevemente, elencare i tipi di organizzazioni mafiose del Sud d'Italia e cercare di spiegare cosa sia un modo mafioso di pensare, di agire, di essere. E allora eccoli, gli scarabocchi alla lavagna, una mappa della penisola, la faccia di Marlon Brando e poi qualche freccia, tante parole e le facce di chi magari si perde tra il tuo francese imperfetto ed il tempo a disposizione, mentre qualcuno fissa l'orologio perché ha l'autobus che parte e altri che invece sono un fiume di domande, insaziabili. E tu sei lì, a cercare di rispondere, in quell'argomento troppo complesso (che incosciente) da poter essere affrontato in 10 minuti, che poi però diventano 30 perché le domande non si fermano e si passa a Mangano, a Dell'Utri, agli eroi moderni, perché il discorso continua e i ragazzi si appassionano. La ragazza albanese vuole sapere di più sulla Sacra Corona Unita, il ragazzo libico vuole conoscere le opinioni sulle amicizie con Gheddafi e la ragazza americana non si accontenta delle risposte su Berlusconi, i ragazzi tedeschi vogliono più dettagli sulla Ndrangheta. E tu parli, parli, purtroppo senza contraddittorio, dimenticando regole di grammatica e accenti e dittonghi, mentre la prof annota, qualche volta ti corregge, continuandoti a guardare con due occhi grandi e comprensivi, gli occhi di chi ascolta problemi mentre magari si aspettava sorrisi.
Ed eccolo là, un italiano messo a nudo. Senza la barba di Galileo o lo stile del Rinascimento, senza la coppa del mondo alla mano o il sorriso di Valentino Rossi, senza pizza e senza gelati, senza l'oscar di Benigni o la scollatura di Sofia Loren, senza spiagge e senza sole, via tutto quello di tipico che potrebbe far pensare ad alcuni di venire dal paese più bello del mondo o ad altri di vantarsi, esserne fieri, gonfiarsi il petto e cadere in facili sciovinismi e stereotipi centenari, gli stessi che probabilmente i ragazzi della classe si aspettavano di vedere, ascoltare, ammirare. E invece no. Adesso sanno qualcosa di più sull'Italia, qualcosa che non è il solito film di sparatorie e popcorn, un'Italia che non è solo turismo e foto, che non ha soltanto piazze luminose e piatti invitanti, ma anche conflitti d'interessi, mancanze di pluralità d'informazione, tasso di corruzione altissimo e quella mafia, tipica, di organizzazione e abitudini.
Poi vai via, tu che non volevi affatto sputtanare il tuo paese, ma soltanto mostrare qualcosa di tipico, vai via con quel senso di nudità imprevisto, un nodo alla gola, una tristezza profonda, quasi a non credere a tutte quelle verità raccontate, tutte d'un colpo, tutte insieme, forse troppe; e vai via con la consapevole amarezza che era davvero qualcosa di tipico.
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