Doing a Ph.D abroad

Poi un caro amico, che ha passato gli ultimi anni tra Stoccarda e Innsbruck e che deve presentare all'Università di Salerno il tema del dottorato all'estero, ti contatta per alcune illustrazioni cui non puoi sottrarti e che realizzi con piacere. La presentazione la trovate qui in ppt e pdf, e vale davvero la pena vederla, soprattutto per chi stia o abbia fatto un dottorato; i disegni invece (e anche) qui sotto.

Sul concetto di 'home'.

Ancora sul concetto di 'home' dopo qualche anno all'estero.

Sulle conseguenze dell'avere un dottorato, in Italia.

Sul concetto di 'home sick' o nostalgia.

Sul valore di un dottorato in Italia e all'estero.

Su 'cosa che si capiscono all'estero'.

Ci sono cose, a Roma

Poi dove tre giorni di giri interminabili per le vie di Roma per la realizzazione di un progetto che chissà se vedrà la luce, l'unico desiderio giornaliero è di arrivare a parcheggiare sotto casa degli amici e dimenticarsi della macchina, quando si trova il parcheggio, perché ci sono cose a Roma, si vedono cose guidando, che neanche gli spagnoli-sono-uguali-cugini-peggio-di-noi a Madrid e neanche gli arabi-sono-arrettrati-brutti-brutti a Bruxelles. I romani, alla guida, sono semplicemente incivili, fanno a gara, a volte, a lasciarti a bocca aperta nel veder cose, nell'invertarsi cose, che forse qualcuno potrebbe considerare forma d'arte, forse, ma che conferma la tua convinzione radicatissima di non volerci mai vivere, in una città così. Però poi, nelle due ore di traffico fermo e impaziente, puoi goderti il paesaggio della città più bella del mondo, ti ripetono, tra una bestemmia e l'altra.

La confusione sui cervelli in fuga

C'è un po' di confusione in giro sulla martellante categoria dei cervelli in fuga e ognuno a suo modo cerca di ricamarci le proprie considerazioni, filtrarci la propria esperienza, più sull'uso del termine che sul suo vero significato. Cervello in fuga non è che la traduzione del termine inglese brain drain, in origine indicativo per quella fascia di migranti talentuosi che lasciano il proprio paese e forniscono altrove competenze e conoscenze acquisite in patria. Una giostra considerata normale soprattutto nel mondo globalizzato e che, nel migliore dei casi, si dovrebbe equilibrare con una brain gain, un ingresso di talenti dall'estero, altrimenti da considerare un danno economico per la patria, perché lo Stato, al netto delle tasse pagate dalla propria famiglia e dei sacrifici personali, ha investito sulle nuove generazioni - tralasciandone i modi e le possibili migliorie - con infrastrutture scolastiche, universitarie, borse di studio, rimborsi per studenti meritevoli, etc.; e quell'investimento viene perso, appunto, appena il ragazzo talentuoso è pronto a mettere in pratica quanto acquisito, ma altrove.
Certo, vista la situazione si potrebbe anche dire che è un danno voluto, prevedibile, autoinflitto, ma rimane - per quanto cinico possa sembrare - un indice economico che va in negativo nei conti dello Stato. La patria non è sempre poesia. Ecco perché è davvero una minoranza quella dei veri cervelli in fuga: non è cervello in fuga il ragazzo che finisce nel call center in UK la ragazza che viene assunta nel reparto Accounting di un'azienda a Dublino, sebbene laureati, motivati, magari rabbiosi verso la patria o semplicemente spinti dal proprio spirito d'avventura. Volendo, non è un cervello in fuga nemmeno il ricercatore, con dottorato e dieci pubblicazioni alle spalle, perché bisognerebbe controllare la qualità dei suoi lavori e delle conferenze in cui son stati presentati. Ma si andrebbe troppo lontano, probabilmente. Se considerassimo la brain gain usando gli stessi criteri con cui oggi si considera la brain drain, l'Italia avrebbe allora un grosso attivo - cinicamente parlando, ma soltanto per marcare la differenza - grazie ai tanti immigrati che quotidianamente arrivano. (O forse ce l'ha davvero, quell'attivo, ma non lo sa).

Insomma, non basta avere un titolo di studio seppur importante per essere un cervello in fuga, propriamente definito, né prendere una valigia, un volo low cost e partire, se vogliamo considerare quella brain drain, quel danno economico causato, quello spostamento di competenze acquisite: è cervello in fuga chi avrebbe apportato un vantaggio considerevole al paese che lo ha formato, ma che preferisce metterlo al servizio di paesi per lui più meritevoli.

Poi, come al solito, Cervello in fuga è diventato una scatola in cui mettere tutti, per semplificare, per comodità, per titoloni ad effetto, ed ecco che chiunque oltrepassi il confine si senta, in base alla propria morale, offeso dal termine o pronto ad indossarlo, con i vari "io non sono un cervello in fuga", "io non mi sento in fuga", "sì sono un cervello in fuga" e quant'altro giornalisti altrettanto superficiali vogliano raccogliere per l'ennesimo articolo da statistiche e testimonianze, semplicemente controllando i registri dell'AIRE o aggiornando mappe in base a contatti ricevuti. Cercare cervelli in fuga nel registro AIRE è come cercare qualcuno biondo e con gli occhi azzurri nell'elenco telefonico: non si può fare, è sbagliato l'approccio - caro giornalista - c'è un'incomprensione di base. Ecco perché, prima di metterci dentro una scatola abbastanza piccola o di spremere inutilmente pensieri ed umori attorno ad un'etichetta apparentemente attribuitaci ma che in qualche modo ci infastidisce, sarebbe più semplice ricordarsi della superficialità con la quale viene usata e magari ignorarla, alla stregua di bambaccioni, bimbominkia o altri aggettivi del nuovo millennio utili soltanto a provocare un temporaneo quanto inutile orgasmo a chi li usa, ma che automaticamente sta definendo i propri limiti e la vacuità di pensieri.

Si sa, di queste scatole purtroppo se ne ha spesso bisogno e, se non vi piace entrare in quella dei cervelli in fuga, sceglietevene un'altra, c'è quella di migrante, di avventuriero, di cittadino del mondo, inventatevene una, ma soprattutto pensate a vivere quello che vi offre il paese che avete scelto, senza troppo assillarvi su come vi chiamano in quello che avete lasciato.

I giovani in fuga che t'ignorano

Dunque, cervelli in fuga dall'Irlanda, cervelli in fuga dall'Inghilterra, cervelli in fuga dal Belgio e dalla Spagna e per l'ennesima volta il titolone è anche sui cervelli in fuga dall'Italia. Chiaramente si scappa anche dalle destinazioni di chi scappa, in quello che potrebbe essere un apparente circolo e invece il punto più importante è proprio l'assenza di quel richiamo italico, la mancanza di un brain gain rispetto al continuo brain drain (fuga dei cervelli, appunto). I giovani in fuga del 2013, queste generazioni di laureati e professionisti dai voli low-cost e smartphone nel taschino, si scambiano città ed alfabeti e si muovono come pedine nel grande gioco della globalizzazione, ma t'ignorano - cara Italia - perché anche nella fuga c'è cervello. Se c'è chi scappa da Dublino, da Londra o da Bruxelles, c'è anche chi da Roma, da Napoli, da Milano è prontissimo a prenderne il posto, bilanciando in qualche modo la reperibilità di persone qualificate da piazzare sul mercato. Una simpatica giostra d'emigranti, insomma. Giostra però che non gira molto quando si tratta del bel paese, dove son migliaia quelli che scappano ma pochissimi quelli che li rimpiazzano ed è su questo che dovrebbero battere i titolini da giornale o le affermazioni del politico fugacemente attento al tema: se l'attenzione si concentrasse su come attirare talenti stranieri invece di proporre - per esempio - temporanee agevolazioni fiscali o altri sterili stratagemmi da controesodo, di conseguenza si ridurrebbe anche la fuga interna e probabilmente aumenterebbero i ritorni di quelli già partiti, senza tralasciare l'apporto poliedrico di competenze e diversità straniera. Se la tigre celtica irlandese offriva agevolazioni fiscali per nuove aziende, per esempio, e in Belgio si può ottenere una tassazione molto ridotta per stranieri (qualificati) al primo impiego, per dirne un'altra, forse un motivo ci sarà. Senza elencare poi fondi alla ricerca, approccio al lavoro, qualità dei rapporti professionali. Certo, più facile gridare alla perdita dei propri figli che proporre soluzioni per mancanze strutturali, tradizionalismi culturali ed interessi a mantenere lo status quo del paese più bello del mondo (meno bello per chi parte o per chi lo considera unicamente meta turistica), ma se invece di martellare sul fenomeno dei cervelli in fuga, della brain drain, si ponesse di continuo l'accento sull'inesistente brain gain, avremmo di colpo un discorso più costruttivo e produttivo. E anche un po' divertente e tanto, tanto utopico, lo so.

Restez chez vous

C'è un video di qualche giorno fa che parla tanto di Bruxelles, invitando gli stranieri a restare a casa loro, perché la città ha raggiunto il punto di saturazione, perché non può più accogliere degnamente altri immigranti, perché è razzista, sporca, povera, eppoi - addirittura - perché piove sempre, i treni son sempre in ritardo e - qui si arriva al dunque - si mangia tanta carne di porco, il cui grasso è usato anche per fare i dolci e quindi, se per qualche ragione si ha la fobia di quel tipo di carne, meglio non venire a Bruxelles. Il video purtroppo non è un pesce d'aprile (o ne usa il pretesto per diffondere il suo chiaro messaggio) ed è ad opera del Vlaams Belang, un gruppo estremista fiammingo che potrebbe essere accostato alla Lega per spirito di separatismo e un po' di folklorismo e di cui non varrebbe nemmeno la pena parlare, se non fosse che appena qualche anno fa raggiungeva il 34% tra i fiamminghi a Bruxelles, il 24% nel nord del Belgio (con quasi 40% ad Anversa), per poi essersi quasi dissolto o in parte assorbito dal N-VA, il gruppo che due anni fa vinse le elezioni in Belgio ma che poi, al termine della famosa crisi di governo, si è ritrovato all'opposizione.
Che il boom migratorio e demografico a Bruxelles potesse generare sentimenti e reazioni di questo tipo, era probabilmente prevedibile, soprattutto quando fenomeni moderni s'intrecciano con diatribe locali tra nord e sud che spesso spingono l'ennesimo titolone di giornale sulla possibilità di sfaldamento del paese. E basta leggere qualche commento sui maggiori siti di informazione belgi - che non rappresentano la totalità del paese, ma è pur sempre un campione statistico - a notizie di cronaca e statistiche, per trovare spunti di razzismo, islamofobia e quel malessere tipico di chi accusa l'immigrato, sempre e comunque, o che se ne serve platealmente come capro espiatorio per la soddisfazione di uno sfogo quotidiano. No, non bisogna fare i tacchini, e riassumere tutto in un i belgi son razzisti: i belgi son abituati a dimensioni moderate, a considerare megalopoli quel villaggio globale che è Bruxelles, a coltivare un menefreghismo un po' innocuo un po' mediterraneo del nord Europa, il famoso jemenfoutisme, che però poi viene ripreso e ampliato da qualche forestiero, connesso maldestramente a qualche statistica sulla quinta capitale più pericolosa d'Europa e qualche culmine di tensione come quello di Molenbeek di qualche mese fa, ed ecco che il populismo fa breccia e coltiva intolleranza, che se rimane ai livelli di video di questo genere - alla stregua di un pesce d'aprile - non dovrebbe preoccupare, ma che è bene non ignorare, perché la crisi è un'ottima cassa di risonanza per certi sentimenti e perché, nonostante la gara al prossimo fallimento e le vampate di identità territoriali e protagonismi sterili, ci sarebbe anche un'Europa da costruire, soprattutto a Bruxelles.