Muffa
Il calore che decide d'abbracciare tutti intorno al tavolo, finalmente nell'angolo di un bar, non perde certo tempo a trasmettere benessere e rilassare i muscoli del viso, quasi fosse una grossa carezza, quasi risvegliasse sorrisi intimiditi, che loro, i sorrisi, son come luci contagiose. Quando son sinceri, però. E sinceramente ti perdi un po', quando si parla soltanto dei tacchi delle ragazze, che van di moda quest'anno, altissimi, sembra, e di come da un tacco si possa supporre l'intera persona con aggettivi in dialetti stonati. Tu, con i tacchi, mai andato d'accordo. E ti perdi anche quando c'è chi insiste che lui, un figlio omosessuale, lo sparerebbe nella culla. Solo, nella culla, non è facile. Ma non hai il tempo d'approfondire, che c'è chi ha quasi un bisogno vitale nel riservare un tavolo in una discoteca di tendenza, quasi rappresentasse sangue blue nelle vene. Un tavolo, addirittura riservato, manco a casa ce l'hai. E all'improvviso ti si arricciano le narici, ti s'inarca un sopracciglio e lo sguardo diventa quasi intelligente, ma solo per un attimo. Sì, proprio lei. Puzza di muffa. Doveva essere l'alito di chi vantava il costosissimo regalo di natale alla ragazza. Puzza di muffa. O chi attaccava il pippone che le cose che aveva mangiato lui, qui, a sud, a natale, te le sognavi a Bruxelles. Tu, se per avere quelle cose a tavola, a Bruxelles, devi portarti mamma con te, no grazie.
Quando rientri con la testa gobba, inchinata al freddo vincitore, metti una mano davanti la bocca e t'aliti tra le dita, preoccupato. Arricci le narici. Inarchi un sopracciglio. Lo sguardo, non lo so, se diventa quasi intelligente. E per un attimo quasi tentenni, se ce l'hai pure tu, la puzza, la muffa. Un po', è probabile. Corri a domandare a Google, preoccupato: segno di decomposizione... scarsa ventilazione d'aria... si manifesta prima con piccoli puntini, poi si espande... spesso uccisa dalla luce diretta del sole. E tanto altro.
Che si espande, lo avevi capito. Che mancava l'aria, pure. Che dove c'è tanto sole non dovrebbe esserci, strano. Mi sa che t'ha distrutto la metafora, il sole, lì, a sud. Peccato. Niente muffa, forse. La puzza, però, c'era.
toh, c'è uno straniero in casa
E insomma, stai lì sotto le coperte, che fa freddo qui, a sud, anche se vieni dal nord Europa e ti dicono che dovresti essere abituato ormai, che fa freddo lì, a Bruxelles, stai sotto le coperte invece, qui a sud, mentre di là russano, tuo fratello non c'è e tua sorella si è messa anche le scarpe, non quelle che avevi detto tu, ovviamente, e pensi Ma che cazzo è il natale se quei due lì russano, quello non c'è e questa scende adesso a scopazzare, dicono il natale, la magia, beh la magia con sottofondo di russate mica incanta tanto, primo, e poi ti domandi che ci fai lì, non lo so, sembra un film già visto, già vissuto, che si ripete, e non ti piace, sto film. Solo che i regali, gli acquisti, che volevi darli, i regali, e scambiarli e anche riciclarli, come al solito, hanno quella magia quando tutto inizia, quella dell'attesa, come il sabato del villaggio insomma, e invece poi arriva natale e loro russano, l'altro non c'è e tua sorella esce. Con le scarpe, le altre, ovviamente. Per fortuna poi ci sono gli amici, che a breve ti passano a prendere e ti portano in giro, per gli auguri di natale, che anche se quel film lo hai già vissuto uguale, non t'importa, è diverso con gli amici. Sarà che non russano, gli amici, e non portano scarpe femminili. Tu, secondo me, hai qualche problema con la famiglia. O con i film di natale, in generale.
Io sono quello che non ce la faccio, scrive Paolo Nori. Secondo me, volevi scrivere lo stesso adesso, però ti sei dilungato giusto un po'. Buon natale allora, anche se l'avete già vissuto e l'anno prossimo arriva uguale.
Sta arrivando
Ma non giudicatelo dal numero di pigiama che riceverete nelle prossime ore.
Buon natale, insomma.
Vieni più vicino
E dimentica ti prego che vengo da Bruxelles, c'è questa parte qui, guarda, dietro gli occhi e quel batuffolo di ricci cerebrali, che non s'è mossa, è rimasta qui, uguale, come immagine di questo intorno, me la porto dietro, in segreto, quando m'occorre un palcoscenico dove piazzare gli amici nel mezzo di una nostalgia o quando ricevo una tua email e devo pur immaginarti su uno sfondo che non sia nero di caratteri e il bianco della pagina monotona. Ma ecco, non mi hai capito, cerca d'ignorarla Bruxelles, no, non è un altro mondo lì, non pensare a perfettissime strutture e umanoidi incorruttibili, non pescare una frase fatta dal tuo repertorio di frasi fatte (sono già fatte e son fatte male), prova ad abbandonare stereotipi di fughe, di mondi migliori e valigie mutanti. Io adesso non sono Bruxelles né tutti gli italiani all'estero in rappresentanza istituzionale, io adesso non sono in comizio a venderti il mondo che c'è fuori, tanto meno a puntar il dito contro il tutto che non funziona qui. Sono un altro con la faccia di qualcuno che conosci, ecco, prova a conoscermi, togliti questi occhiali di giudizi e sapienza, lasciami fare, qui, te li poggio qui, dopo li riprenderai, tranquillo, ne avrai bisogno perché odi la miopia eppure basterebbe avvicinarsi un po' di più, per vederle meglio, le cose. Vicino, vieni più vicino, è così semplice a volte, hai visto? C'è un sorriso. Ché per quanto possa dire che non son vacanze queste qui o ripetermi che il rientro dell'emigrante è un'altalena amara che poi lascia bile nera, non è vero niente, no. C'è un sorriso, hai visto? Me lo tolgo subito però, che altrimenti sembro scemo.
Poesia di natale
non rinchiuderti in casa,
non coprirti con i guanti,
ma prova a toccarla, la neve,
non fosse altro che per capire
se lo sei oppure no, ecco,
un fantasma.
E se stanotte cade la neve,
ma ne cade tanta, di neve,
non ti faranno volare domani,
italiano all'estero nel nord Europa,
come l'anno scorso qui a Bruxelles,
ma non bestemmiarla, la neve,
che se insisti puoi volare, con la neve,
ma poi rischi di diventarlo anche tu,
ecco, un fantasma.
Ah, le vacanze
C'è chi si perde
Povera Italia
alla fuga, che per me dovremmo andar in giro anche se l'Italia fosse
il paese con il tasso d'occupazione più alto del mondo, non fosse altro
che per scoprire quello che c'è fuori e scoprire in modo diverso anche il posto
da cui si viene, da fuori, e anche se stessi, attraverso gli altri. Però il video
non è male, anche se più che a Bruxelles è girato nel micromondo
degli eurocrats, ma va beh, ve lo condivido.
O forse sei solo più simpatica
Ma tanto tu vivi all'estero, che ti frega?
Chicchi di mais
Poi leggi ed in mente hai la scena esatta, davanti agli occhi. E finisce che la disegni. |
Un governo in Belgio, F.A.Q.
Praticamente dal 13 giugno 2010 (ultime elezioni in Belgio) la formazione del nuovo governo ha preso più tempo del previsto, tanto da assegnare il record assoluto di paese senza governo per il maggior lasso di tempo, anche se c'è bisogno di chiarire una cosa: la notizia "il Belgio non ha un governo da un anno e mezzo" non è propriamente corretta, perché un governo nel frattempo c'è stato, quello temporaneo guidato dal primo ministro uscente. La notizia corretta dovrebbe essere "in Belgio la formazione di un nuovo governo sta impiegando più di un anno e mezzo", altrimenti c'è chi pensa che qui possa regnare l'anarchia, cosa praticamente impossibile vista la tela di comunità e decentralizzazione di alcuni poteri.
Perché tutto questo tempo?
Perché il Belgio è il paese del surrealismo, ma anche perché si era chiesto di creare un governo alle due parti vittoriose dopo le elezioni, rispettivamente di destra a nord (nelle Fiandre) e di sinistra a sud (in Vallonia), insieme, cosa alquanto impossibile. La differenza profonda di vedute e di interessi, la divisione culturale tra olandofoni e francofoni e la delicata questione degli interessi linguistici ed economici intorno alla regione di Bruxelles hanno creato diversi momenti di stallo e sconforto per il re che ha dovuto cambiare più di una volta nomine di formatori, ispettori, mediatori, informatori per il nuovo governo. I cittadini hanno manifestato il proprio disappunto, senza però influenzare in modo decisivo la situazione.
Cosa è successo di recente?
Finalmente il punto chiave della rottura è stato risolto lo scorso 11 ottobre 2011, quando dalle trattative è stato escluso il partito che aveva vinto le elezioni al nord e si è giunti ad un accordo sulla questione dei diritti giudiziari ed elettorali della famosa BHV, un insieme di comuni in cui una maggioranza linguistica non aveva alcuni diritti altrove evidenti, ma il Belgio si sa è un paese abbastanza complesso.
Eppoi cosa è cambiato?
Il nodo cruciale è stato sciolto eppure una nuova situazione di stallo si è creata sull'approvazione della nuova finanziaria. Il formatore ed acclamato eroe fino a quel momento, Elio Di Rupo, ha consegnato le proprie dimissioni al re, deluso ed incapace di andare avanti con i partiti coinvolti fino a quel momento. In un oramai famoso editoriale de Le Soir, il maggiore giornale francofono belga, si legge addirittura che s'impone a questo punto la separazione del paese. Per molti invece le dimissioni son state soltanto un modo di far pressione sui partiti in modo da accelerare le trattative, viste anche le pressioni dei mercati.
Infatti, i mercati come commentavano la situazione in Belgio?
La lentezza della formazione del nuovo governo ha suscitato più volte l'interesse dei mercati, visto anche il grande debito pubblico del paese, etichettando il Belgio come il prossimo paese, dopo l'Italia, prossimo ad una crisi economica. Il governo temporaneo non poteva approvare la finanziaria, avendo poteri limitati, eppure il primo ministro uscente, Laterme, è riuscito in un quasi miracolo, chiedendo al popolo belga di acquistare quanti più titoli di stato e così è stato: record storico, 4.5 miliardi di euro son stati incassati dallo stato, prestati dal proprio popolo. Questo ovviamente non tampona il debito ma rassicura sicuramente da eventuali pressioni dei mercati, almeno per il momento.
Torniamo alle dimissioni. Cosa è successo poi?
Come previsto da molti, la strategia delle pressioni ha funzionato ed ecco che il 26 novembre è sbocciato l'accordo sulla nuova finanziaria, Di Rupo ha ritirato le proprie dimissioni (sospese dal re con riserva) e si appresta ad essere il primo premier vallone da più di 30 anni in Belgio. La crisi, salvo eventuali catastrofi dell'ultima ora, è terminata: per il 5 dicembre è previsto un nuovo governo in Belgio.
Finalmente! Beh, tutto bene quel che finisce bene, no?
Vedremo. La prima sfida di questo governo sarà sicuramente durante tanto quanto ci ha messo per formarsi. E non è poco. Inoltre, sono già scoppiate le polemiche sui problemi linguistici di Di Rupo: in Belgio il primo ministro dovrebbe essere linguisticamente neutro, parlando bene sia il francese che l'olandese, mentre il futuro designato ha carenze palesi con l'olandese (e anche con l'inglese), addirittura peggio della donna delle pulizie nigeriana di De Wever - secondo lui - da appena due anni in Belgio. Sarà sicuramente un'eccezione su cui molti passeranno, visto il periodo di crisi, ma che sarà una forza in più dell'opposizione, guidata inoltre proprio da colui che le elezioni le aveva vinte in giugno, De Wever. Quindi non si preannuncia per nulla un clima politico di serenità. Ad ogni modo, sì, finalmente!
Sonno.
C'è chi nella metro tenta di distrarti cercando il senso di un articolo tra le pagine stropicciate di un giornale e chi prova a stordirti con cuffie e musiche convinto che il risveglio passi per il fracasso dei timpani. Anche di quelli altrui. T'ho visto anche nel nodo imperfetto della cravatta a strisce e nell'abbinamento, della cravatta a strisce sulla camicia a strisce. Poi t'ho visto come spazzato via, avrai avuto quasi paura o non avrai nemmeno avuto il tempo di avvilupparti a qualche altro ricciolo di connessioni neurali, quando il bambino dal passeggino ha sorriso, lì in mezzo al vagone, d'improvviso, in quel suo verso stridulo ma inconfondibile, e come raggi di luce diffusa ha richiamato l'attenzione e le smorfie del riflesso nel vetro, del corpo appoggiato ad una barra e anche della testa bombardata da urla rock, di colpo ha conquistato la scena, quel pezzo di carne avvolto in un plaid, e t'ha sconfitto, l'ho visto, t'ho visto, sei morto nel sorriso contagiato.
In giro con un mouse
Il famosissimo Atomium, qui. |
Lo spiazzale di Mont de Arts, qui. |
La vecchia borsa, in pieno centro, qui. |
Terrazze e bar in St. Gery, qui. |
La bellissima Grand Place, qui. |
L'enorme palazzo di giustizia, in eterna manutenzione, qui. |
Il bruttissimo palazzone della Commissione Europea, qui. |
A passeggio per il Parco del Cinquantenario, qui. |
L'arco del parco, qui. |
Il nuovo quartiere nei pressi della Gare du Nord, qui. |
Il quartiere a luci rosse, con le ragazze in vetrina, un po' come ad Amsterdam,
solo che a Bruxelles è decisamente più squallido. qui. |
Efficienze europee
"Dovete essere un ufficiale della Commissione di medio livello!" disse il mongolfiere. "Lo sono", rispose la donna, "Sono del livello A*8. Come fate a saperlo?", "Beh", rispose il mongolfiere, "tutto quello che mi avete detto è tecnicamente corretto, ma non ho idea di cosa fare con questi dati ed il fatto è che sono ancora smarrito. Sinceramente, non mi siete stata per nulla utile. Anzi, avete anche ritardato il mio viaggio".
La donna da giù rispose "Dovete essere un alto funzionario della Commissione!", "Lo sono", rispose il mongolfiere, "Ma come lo sapevate?". "Beh", rispose la donna, "Lei non sa dove sia o dove stia andando. Siete salito sin dove siete adesso grazie ad una grande quantità d'aria calda. Avete fatto una promessa che non sapete mantenere e pretendete che gli altri risolvino il vostro problema. Il fatto è che siete esattamente nella stessa posizione in cui eravate prima di incontrarmi, ma ora, in qualche modo, è colpa mia".
Preso e tradotto da qui.
M'illumino d'accenti
Breaking news
Nonna, se solo sapessi
Cosa nel nome di Dio ti da diritto a dire questo al popolo italiano?
Le polemiche continuano anche nel Parlamento Europeo, dove il solito
Nigel Farage attacca il presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, con
"Tu, uomo non eletto, sei andato in Italia e hai detto "questo non è il momento
per avere elezioni, è il momento di agire. Cosa in nome di Dio ti da il diritto di dire
una cosa del genere al popolo italiano?".
É che quando fai parte di un club poi il club può darti pure ordini.
Numeri non a caso
Adozioni irresponsabili
Cose che quando parli italiano
Così si crea una certa intimità, di parlare in una lingua che gli altri non possono capire e dire cose anche private senza che gli altri se ne possano rendere conto. Così si crea un certo scudo protettivo linguistico, che protegge i fatti tuoi, appunto, quando racconti qualcosa al collega italiano alla scrivania di fianco, nell'open space. Così capita che il collega prima di andar via l'altro pomeriggio, si avvicini alla tua scrivania e ti racconti di un problema di salute, di una visita dall'urologo e te lo dica in italiano, appunto, che son cose personali eppoi certi dettagli sarebbero anche macchinosi da spiegare in altre lingue, che loro, le altre lingue, si usano per altro, almeno fin tanto che poi non diventino al tua lingua, un giorno chissà. E capita che il collega non lo dica neanche a bassa voce, che tanto gli altri non capiscono, che tanto è abitudine da due anni dire certe cose in italiano, protetti dal super scudo linguistico, nell'intimità d'accenti meridionali. E capita che si inizi a parlare di visite dell'urologo, di esperienze personali, di dita che vanno in certi posti e che non è mai cosa piacevole. Tu per esempio gli racconti di quella volta che l'urologo si mise il guanto di lattice, fatale presagio, e lui, l'urologo, era come il saggio ma non puntava alla luna e tu, paziente turbato, non eri stolto ma continuavi a fissare il dito, pensando a dove sarebbe finito. Così passa una decina di minuti in discorsi d'ampio sfondo scientifico, un po' come il trapana e succhia di Bart ed altri racconti di un certo spessore medico. E capita pure che il collega, sempre prima di andar via, sempre sotto il super scudo, concluda con una battuta, sempre a tema, magari non elegantissima, e poi d'improvviso diventi rosso, rosso che quasi scoppia. Tu non capisci per un attimo, scuoti la testa ma lui niente. Rosso. Poi ti si bloccano gli occhi e vorresti scomparire, puff, di colpo, che proprio a un metro più in là c'è la collega nuova, quella da due giorni in ufficio, quella silenziosa che ancora si deve adattare, quella che quasi ci si dimentica di lei. Quella italiana.
Dammi il potere che ci penso io
La testa nelle stelle e
Essere italiani all'estero
Essere italiano all'estero è infatti tante cose, alcune speciali, altre banali, che soltanto gli altri italiani, quelli in Italia, possono capire. Oppure no.
Essere italiano all'estero è essere un cervello in fuga e addirittura un danno economico per l'Italia, anche se non tutti sono ricercatori in cerca di fondi e non c'è un filtro al controllo all'aeroporto; la frontiera, se esiste ancora, la attraversano anche quelli che sono in fuga dal proprio cervello e si vede. Essere italiano all'estero è avere i piedi leggeri ma né più né meno dei cugini francesi, spagnoli, tedeschi, irlandesi, polacchi o olandesi, solo che l'italiano all'estero è italiano e allora cambia tutto. Oppure no.
Essere italiano all'estero è lamentarsi in continuazione della situazione politica e sociale italiana ma poi non iscriversi all'AIRE, per esempio, perché è un'istituzione italiana e quindi fatta male, meglio rimanere residenti ufficiali da mamma e papà come foste un fantasma, continuare a non votare dall'estero, anzi dire di non votare dall'estero perché non è giusto votare vivendo altrove ed influenzare attivamente il voto di chi invece lì ci vive ancora, però continuando a vomitare lamenti, che non si riesce a non pensarci e in fondo è sempre la patria, perché my country, right or wrong. Oppure no.
Essere italiano all'estero è voler essere soltanto qualcuno in un luogo, ma non funziona, perché poi c'è il nome, italiano, e l'aspetto, italiano, e l'accento, italiano, e c'è quella cosa, l'italianità, che è dentro e c'è chi la sfoggia con orgoglio, chi se la porta dietro come un'ombra, chi quasi con vergogna, chi io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Essere italiano all'estero è riconoscere Tiziano Ferro che canta dall'altoparlante della metro di Bruxelles in una serata di solitudine ed avere come un senso di disgusto che sale lento dallo stomaco al collo, dalle dita al sudore sulla fronte, che gli altri x-ani all'estero non possono capire. Oppure no.
Essere italiano all'estero è venir considerato il giudice supremo di ogni lasagna e tiramisù, della pasta super scotta fatta dall'amico tedesco, per esempio, che non avresti mai mangiato neanche con la pistola alla tempia ma che ingoi, anzi lasci sciogliere in bocca, con il sorriso di un'educazione empatica; o essere chiamato ad assaggiare la pizza, quella lì che tutti suggeriscono in città, anche se tu, in Italia, magari la vera pizza non sapevi neanche che sapore avesse, ma tanto chi te lo chiede non lo sa, sa che sei italiano, un italiano all'estero, e allora tu sei l'Italia. Tu. Pensa te.
Essere un italiano all'estero significa conoscere una ragazza colombiana bellissima che poi ti dice di stare con un italiano e d'improvviso sentirsi quasi in colpa a guardarle la scollatura, che se fosse stata con un francese ci avresti provato quasi più gusto ma con un italiano no, che è subito in famiglia e ti dispiace.
Essere italiano all'estero è rappresentare l'Italia tutta in una sola persona, quando in ufficio il collega si avvicina parlandoti dell'ultima battuta internazionale di Berlusconi con gli occhi increduli e con il tatto di chi ti sta annunciando un lutto improvviso, a te che magari la notizia era addirittura sfuggita o che l'assuefazione di abitudini natali sminuiscono notevolmente o a te che invece ti difendi, come a sentirti attaccato da forze straniere, come a vestirti da ultimo fante inviato a lottare contro i barbari invasori. Oppure no.
Essere italiano all'estero è sentirsi responsabili se in ufficio sta per arrivare un nuovo collega, italiano, sentirsi responsabile delle sue capacità, del suo inglese, della sua cultura, perché lì, nel tuo ufficio, italiano come te, rappresenta anche te, rappresenta un'altra finestra sul tuo mondo per gli altri, fatta di stereotipi da confermare o novità da scoprire, rappresenta un te che non puoi controllare perché non sei tu ma che ha conseguenze su di te. Oppure no.
Essere italiano all'estero è confrontarsi costantemente con gli altri italiani all'estero, giudicarli, osservali, godere dei loro errori nella lingua straniera, ridere del loro accento inconfondibile, evitarli quasi fossero la peste o finire col relazionarsi soltanto con loro, perché gli altri, gli altri, gli altri. Ecco, sempre gli altri, ma tu? Essere italiani all'estero significa sentirsi speciali per non si sa quale motivo, sentirsi addirittura migliori rispetto agli italiani in Italia e provare strani orgasmi interiori quando si dice di vivere all'estero, che all'estero è tutto più bello, anche la pioggia. Oppure no. Essere italiani all'estero è vantarsi di vivere in un paese più civile, poi però tornare in Italia e dimostrare di non aver imparato molto da quella ostentata civiltà, ma la colpa poi è sempre dell'intorno, italiano. Oppure no.
Essere italiani all'estero è sentirsi chiamare vigliacchi, fuggiaschi, egoisti, per avvantaggiarsi di un'agevolazione dei tempi moderni e volare altrove con pochi soldi e provarci, senza ancora la consapevolezza di diventare così un italiano all'estero. Ah, perfida trappola!
Essere italiani all'estero è tornare a casa credendo d'essere in vacanza e fare a cazzotti con il proprio passato, venir travolti da valanghe d'emozioni, positive e negative, e riprendere un aereo con il testa battaglie di ricordi e certezze, delusioni e conferme.
Essere italiani all'estero significa decifrare una propria italianietà anche negli altri e attraverso gli altri conoscere la propria, finire con l'imparare qualcosa di più della propria terra vivendo altrove e poi tornare in Italia e sentirsi mezzo straniero, perché magari non tutte le scoperte lasciano il sorriso, non tutti i cambiamenti son compatibili con la vita che si aveva prima, non tutti gli italiani all'estero poi riescono a vivere in mezzo agli italiani in Italia e rimangono come in un limbo amaro di compromessi e nostalgie. Oppure no.
Essere italiani all'estero è tutto questo e tanto altro oppure no, perché ciascuno in fondo ha la propria avventura all'estero, il proprio equilibrio da trovare anche con la propria italianità, la cultura che vuoi o non vuoi hai dentro per educazione e che farà parte del percorso personale nelle culture altrui: l'importante è capirlo, senza drammi né alterigie. Oppure no.
Fai presto a dire pollo
Allora il dilemma diventa se è gallina o se è gallo, il pulcino, ma lui, il pulcino, non te lo dice e in più son tutti uguali, galli e galline, fino al primo mese di vita. E un mese, nel commercio, è tanto, è soldi, è spreco. Bisogna fare in fretta, bisogna trovare i polli. Fai presto a dire è un pollo, quando pensi ad un amico, invece non è facile, quando pensi ad un pulcino. A meno che tu non sia giapponese, che loro, i giapponesi, sono tanti in poco spazio e alla fine son costretti a controllare ogni dove: e infatti han trovato la risposta nel culetto dei pulcini. Insomma, loro cercavano di risolvere il dilemma e cercavano in un buco. E ce l'han fatta. Io ho diversi amici che cercano le risposte di una vita in un buco, ma ancora niente, stanno sempre lì, sulla soglia.
Cosa abbiamo imparato? Alcune relazioni non son sempre banali, alcune han tanta fantasia e a volte pure un po' di coraggio, a creare connessioni tra maestri zen, neurologia, misteri del cervello e posteriori dei pulcini E che c'è chi riesce a sessare 1700 pulcini all'ora solo guardandogli il posteriore. E c'è pure chi, sul sesso dei pulcini e sui sessori, c'ha studiato i misteri della memoria umana. E allora, se hai un dubbio, se non trovi la risposta, se non riesci a risolvere un mistero, forse stai semplicemente cercando nel buco sbagliato.
Fiori sull'asfalto
Indignati a Bruxelles
il signore del negozio vicino casa
Non avevo mai parlato troppo con il signore del negozio vicino casa, ci vado ogni tanto per comprare qualche lattina d'acqua tonica, anche se non le tiene mai in frigo, anche se son cosciente di pagarle qualcosa in più, ma almeno lì sei il protagonista, sei il suo cliente, ti guarda, ti segue con gli occhi, ti chiede, ti consiglia, ti aspetta alla cassa con le dita già sulla calcolatrice, che in realtà non stai pagando una lattina: stai riempiendo il suo tempo. Ma stai riempiendo anche il tuo, lo stai vivendo, più delle file impersonali alle casse veloci o della lista della spesa sempre incompleta: lì, a comprare una lattina di cui non avresti neanche bisogno, che al ritorno devi pure metter in frigo ed aspettare prima di berla fresca, riesci a cibarti di dettagli e sentirti libero di parlare. Però poi non parli mai troppo, con il signore del negozio vicino casa. Lui parla francese, ma non è belga, il popolo dei piccoli alimentari, qui a Bruxelles, di solito è asiatico, d'indiani più che cinesi, o magrebini, e invece lui è polacco, o almeno pensavi fosse polacco o comunque dell'est, tra quei capelli bianchi e quelle rughe pronte a riunirsi tra gli occhi ed il sorriso come corde tese di una chitarra gitana, ad ogni saluto, augurandoti buona giornata e l'arrivederci alla prossima lattina. Mai nel frigo però, mi raccomando.
Cose che solo a Bruxelles
Poi ti ritrovi in un locale notturno brussellese, tale Madame Moustache, tra luci rosse e musiche sintetiche, che loro, le luci, anche se non accese sanno trasmettere ritmi e metriche, mentre una birra ovviamente insieme e poi un'altra con lui e un brindisi con gli altri, che in pista la folla già freme e la birra barcolla tra gesti altrui maldestri, ma poco importa mentre il corpo trasmette il segnale e allora ti dirigi di fretta ai bagni, è sempre lei, la birra fatale, a te il sollievo e a loro i guadagni, pensi, già, perché a Bruxelles si paga per farla anche se hai già pagato l'ingresso, Un euro tutta la serata o 40 centesimi alla volta, dice il tizio che parla, parla e ti chiede il compromesso e per un euro ha già pronto il timbro per tutta la serata, un timbro solo per il bagno, ridi e vai per i 40 con la vescica emozionata. Panta rei con offerta, pensi, se ne fai tanta, cose che solo a Bruxelles, surrealismo in continua scoperta.
Stay hungry, stay foolish
Qui la traduzione in italiano. Mai stato un fan di Apple e degli i-coso,
ma lui infatti non era solo quello.
Ma tutti uguali no
Il multiculturalismo ha fallito, lo han detto anche Cameron, la Merkel e Leterme, insomma lo han detto in tanti, perché ponendo la cultura al di sopra dell'individuo e l'importanza di conservare la diversità al di sopra dell'integrazione si è giunti ad alcuni punti critici di convivenza e comprensione ed è tutta colpa sua, della diversità, che fa benissimo, direbbe il biologo, visto che alcuni virus, per esempio, rimangono confusi di fronte a mix inattesi, ché nell'evoluzione la selezione naturale ha favorito proprio le miscele migliori ed il punto è quello: se c'è il mix. Ma chi s'impunta sul fallimento non pensa al mix, la realtà è ben più chiara: li vorrebbe tutti più uguali. Il collega egiziano magari in giacca e cravatta e dall'inglese certificato è più uguale al ragazzo irlandese e allora trasmette maggior armonia dell'altro, quello meno uguale, il magrebino della strada che magari veste la sua tunica bianca o la signora africana che mostra colori inconsueti. Se fossero meno diversi, se fossero più uguali o se lo diventassero in breve tempo, saremmo sicuramente più felici (o almeno lo sarebbe il ragazzo irlandese e la Merkel) e difficilmente parleremmo di fallimento anche perché a quel punto non ci sarebbe da parlare neanche di multiculturalismo. Facile. Facile, ma anche un po' macabro, diventare tutti meno diversi, anche se ha ragione Fontana quando afferma che la diversità è un mezzo e non il fine, ché nella diversità c'è anche quello che non piace (i pedofili son la parte brutta della diversità, per esempio) e allora non è un fine ma un mezzo per migliorare, solo che in mezzo ci siamo noi, ognuno con la propria cultura da difendere (o da mettere in discussione).
Il punto è che la realtà va in quella direzione da sola e non solo perché lo dice il biologo o la selezione naturale, ma anche perché la realtà è già così, mista e complementare, e lei, la realtà, va avanti anche se non siam d'accordo. Certo, per chi è cresciuto in una famiglia mono-culturale, a scuola in una classe mono-culturale, e gli amici, la televisione e l'intorno mono-culturale, poi è difficile l'approccio col diverso, soprattutto quando quel diverso è anche meno agiato, è ancora più diverso, non solo per cultura ma anche tanto altro, dove la povertà fa da cassa di risonanza e ci fa gridare al fallimento, a noi generazioni di mezzo che vivono l'esplosione di un multiculturalismo che non sarà più un trauma ma la normalità per quelle prossime, le generazioni delle scuole multiculturali, l'università, gli amici e le relazioni sociali. Magari non sarà la perfezione (e lo sa bene mia madre), ma se basta una spallata a farci cadere nel fallimento, beh allora sarà anche peggio.
Mannaggia d'io
Che cos'è un governo economico europeo
Nigel Farage colpisce ancora, che sembra quasi una delle classiche barzellette dai
tre personaggi e invece è un riassunto perfetto di decentralizzazione dei poteri.
Semper eadem
C'è qualcosa che non va se a distanza di mesi si ripetono quasi sempre le stesse scene... |
Partire è un po' morire, dicono
Dicono che partire è un po' morire, e te lo dicono con l'aria saggia, come se a ripetere un detto popolare ci si inietti una dose d'autostima ed infatti il problema è proprio quello: la mancanza di controlli antidoping. Ché se partire è un po' morire, si tornerà indietro solo come zombie, pensi, e invece si torna spesso col sorriso, che pure senza vittorie l'estero è comunque un'esperienza che rimane, per capire meglio te e anche da dove vieni (vedi che ne sa dell'Italia chi conosce solo l'Italia?). Ché se partire è un po' morire, allora tu sei morto, quel giorno lì, mentre l'aereo ti portava lontano dicono ci si senta sempre più leggeri una volta seduti, con le valigie al loro posto e le trafile dell'aeroporto già alle spalle, ma soltanto perché le bilance di Ryanair non pesano anche i pensieri, perché altrimenti avresti dovuto lasciare la testa all'imbarco e negoziare le incertezze alla cassa. E se anche fossi morto, quel giorno lì, allora vuol dire che poi sei rinato, altrove, eccome: alla prima nascita abbiamo tutti pianto appena usciti da quel posto lì materno e al contatto col mondo uno schiaffetto del medico ha controllato subito le nostre lacrime; alla seconda nascita, quella altrove, avrai invece urlato, ma di gioia, per quante emozioni t'hanno preso a schiaffi, di nuovo, non sul culetto ma in pieno viso, nel positivo come nel negativo, per controllare subito se eri vivo.
Poi però leggi le ultime righe di Stefano ed eccolo lì, di nuovo e di nuovo, il problema dell'emigrante, perché Stefano aveva iniziato un progetto con il suo blog, quello di raccogliere le esperienze degli altri informatici all'estero ed aiutare gli altri interessati ad aggiungersi alla cerchia degli informatici migratori eppoi all'improvviso qualcosa è cambiato. Non sta a nessuno giudicare quale sia la scelta migliore, visto che ciascuno ha i propri compromessi personali, la propria bilancia su cui pesare i propri umori e risolvere la propria equazione di felicità, ma se andare all'estero non regala quel benessere che si inseguiva, allora partire è sì un po' morire ma a tornare non sarà certo uno zombie, che uno zombie ride poco, ha memoria corta e non insegue un sogno, noi invece siam flessibili e allora ben venga anche il ritorno se ci aiuta a ritrovare il sorriso. E in bocca al lupo Stefano.