Figlio mio, lascia questo Paese

Cosi' s'intitola la lettera del direttore generale della Luiss verso suo figlio, lettera che trasuda amarezza, rimorsi, impotenza. In poche righe la sofferenza di un padre nel raccontare il mondo che aspetta un neolaureato, lo scenario di un'Italia che vorrebbe diversa, che vorrebbe matura, ma che sembra deludere quando meritocrazia ("di carriere feroci fatte su meriti inesistenti"), corruzione ("Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni") e mentalità ("Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali") vengono ai commenti, come ricordi o soltanto conoscenze della vita di un padre e le speranze verso quella di un figlio. Come se lo sforzo di un genitore divenisse il fallimento di una generazione ("Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito"), come se andare via fosse l'unica soluzione possibile ("Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero"), come se intorno fosse davvero una giungla, una lotta, una guerra impari ("trovarti emarginato senza capire perché").

Leggere una lettera del genere dopo due anni all'estero e' un susseguirsi di ricordi, pensieri, osservazioni, e' un groviglio mentale di consensi e negazioni e probabilmente non potrebbe essere altrimenti, perché andare all'estero e' cosi': sarai altrove con il corpo ma creando un fantasma dove il corpo non sarà. Cosi' vivere un'esperienza diversa, conoscere nuovi mondi, ridere e gioire per orizzonti mai immaginati, avere più soldi in tasca, imparare nuove lingue e culture sconosciute, trascinerà sempre con se' i ricordi e gli interrogativi, della vita che si e' voluto cambiare, della vita che non si e' provato a sfidare, dei sorrisi degli amici che come in una foto son rimasti ancora li', degli abbracci familiari che come in un sogno son sempre caldi ma lontani, della propria terra che in un respiro si vorrebbe sentire di nuovo nel corpo. E poi e' vero ("Probabilmente non sarà tutto oro, questo no"), andare altrove non significa altro pianeta, ma soltanto cambiare degli schemi, lasciare compromessi mal sopportati e indossarne altri inattesi: perché va cosi', libertà non e' fare tutto ciò che si vuole, ma far ciò che si vuole nel rispetto degli altri e allora ci saranno sempre schemi e compromessi che per quanto elastici possano essere, saran sempre compromessi. Poi li si prende, li si somma, li si misura sulla propria pelle, li si  pesa sulla propria bilancia, e li' i compromessi sposteranno la lancetta del sorriso, magari sarai finalmente felice, magari no.

Non so cosa dirò a mio figlio un giorno, caro direttore generale della Luiss, non so dove sarò e quanti altri errori avrò commesso per averne esperienze di guadagno e saggezza di riflesso. Chiudere una valigia non e' come buttare qualcosa nel cestino: si butta qualcosa di superfluo, qualcosa di cui non si ha bisogno o qualcosa che si può trovare nuovamente, che si può comprare o costruire col tempo. Chiudere una valigia non significa cancellare, dimenticare. E allora cosa fare? In quella sua conclusione ("Preparati comunque a soffrire"), caro direttore generale, in quel suo "comunque" finale c'è tutto ciò, il suo affetto paterno misto d'amarezza suggerisce altrove, altrove son andato anch'io ma non dirò mai "vai via perché e' meglio", non farei mai del mio meglio il meglio di tutti, perché nella mia bilancia ho equilibri sottili e ora son felice ma non posso non rispettare il sorriso di chi rimane. Ecco, caro direttore generale, la devo ringraziare, ho capito che il mio meglio e' come un egoismo ipotetico, me lo tengo per me, e' mio, ma cosi' facendo capisco meglio quello degli altri e imparo a rispettare tutte le scelte, soprattutto quelle opposte.

Bruxelles natalizia

Come ogni capitale dell'era del consumismo, anche Bruxelles decora le sue vetrine di colori accesi e addobbi natalizi con un bel po' di anticipo sulla festività, illuminazioni e fogliame intrecciato ad archi abbelliscono le strade principali ad accompagnare i consumatori nelle loro corse ai regali, ai sorrisi effimeri nello spendere per il gran giro dell'economia, ai turisti come sempre numerosi che aggiungono all'atmosfera i mille flash dei ricordi per ogni foto scattata. Ma Bruxelles e' città decisamente viva e Natale sembra non significare soltanto consumismo d'assalto, per fortuna.
Cosi' come nei mesi estivi gli eventi organizzati si susseguivano con frequenza altissima ed ogni fine settimana si poteva assistere ad un concerto d'ogni genere rendendo l'estate brussellese un gran bel movimento, anche adesso per la santa natività non si smentisce con il Winter Wonders 2009. E cosi' una marea di chioschi spunta un po' dovunque al centro della città, intorno a Bourse, in place Sainte-Catherine, dove sorge all'improvviso una pista di pattinaggio sul ghiaccio al posto della grande fontana e tanta gente a bere un bicchiere di vino caldo girando tra i 240 chalet, cercando di evitare ragazzini che corrono a zig zag, fermandosi ad ogni chiosco come affacciarsi da una finestra sempre diversa.



E non importa se piove quasi ininterrottamente da una settimana (sigh!), un manto di ombrelli in movimento copre le stradine dai sampietrini bagnati, chi con un cono di frites in mano, chi con una cioccolata calda, chi cercando di mordere il waffle enorme, arrivando in Grand Place e trovando il gigantesco albero di natale e la villa comunale trasformata in un teatro fiabesco di luci e colori.


E proprio li' a sorpresa sabato sera abbiamo assistito al light show organizzato: la clip vale più di mille parole, ma tra vento, ombrello e freddo, non e' decisamente un granché. Lo spettacolo pero' merita sicuramente d'esser rivisto, per l'atmosfera generata, per il buon umore trasmesso, per un sorriso in più condiviso, passeggiando per questa Bruxelles dal manto natalizio.

Duemilatrecento pantofole

Lui, in ufficio a bassa voce verso la cornetta, con la mano un po' a nascondere come se le dita fossero un filtro efficace "allora? hai visto la ricevuta del mio ultimo acquisto? L'ho lasciata lì in cucina, sul tavolo!"
Lei, voce dolce (appena svegliata) di quelle che solo a sentirle ti rilassi come quando ascolti quelle canzoni speciali (quelle lì che piacciono tanto a te) o ad occhi chiusi aspetti che il cioccolato ti si sciolga in bocca "Sì.. ma.. non ho capito bene, c'è scritto che hai comprato delle pantofole da internet o sbaglio?"
Lui, senza muovere le dita con gli occhi lancia uno sguardo intorno come una sentinella che non vuol divulgare l'importantissimo segreto "sì, esatto, proprio quella. Allora? Hai visto quante ne ho comprate?"
Lei, crucciata un po' nel sopracciglio destro mentre l'altro si domanda se assecondarlo "No, non ci ho fatto caso, perché? Aspetta.. No.. non ci credo.. cioè, tu.. ahahaha qui dice duemila.. duemilatrecento pantofole!?"
Lui, finalmente con un sorriso dietro quelle dita un po' impacciate "Sì, e' giusto!"
Lei, dalle sopracciglia ora in discesa ed il viso come una bambina "Ahahaha hai comprato duemilatrecento pantofole? Ahahaha non riesco a crederci.. e.. e perché?"
Lui, come a dire la cosa più ovvia e semplice del mondo "Ecco, proprio per questo, volevo soltanto farti ridere, niente più, poi quando le pantofole arrivano.. le butto".

E poi mi son svegliato. Basta, la tequila non la tocco più quando si esce con gli amici francesi.

Un'Europa di Mohammed

Leggendo il metro questa mattina tra il sonno che gocciolava negli occhi e la testa ancor un po' pesante delle coccole del cuscino, in un angolino si riportava la notizia dei nomi più comuni in Belgio relativi alle nuove nascite: nella regione di Bruxelles il nome Mohamed spadroneggia senza rivali. Passeggiando per il centro, utilizzando i mezzi pubblici, vivendo insomma la città, la percezione tende a confermare questa statistica, della presenza massiccia di immigrati intorno, senza pero' cadere nelle facili paure dell'avvento di un'Eurabia. Ma Bruxelles non e' certo una eccezione in Europa. A quanto pare negli UK il nome Mohammed e' secondo soltanto a Jack nella classifica dei più popolari (pur se in tantissime varianti da Mohammed a Muhammad, da Mohammad a Muhammed e cosi' via). In Francia, Mohammed ha surclassato ben cinque volte il tradizionale nome François. In Olanda, tra Amsterdam e Rotterdam al nome Mohamed potreste contare chi non si volta tra quelli che riconoscono il proprio nome. A Valencia, in Spagna, lo stesso. A Varese, qualche anno fa, già batteva i Giuseppe.

Ma non e' prettamente una conseguenza dell'alto numero di immigrati in Europa: mentre la nostra scelta di nomi spesso e' addirittura imbarazzante e relativa a tradizioni regionali (ci sono più Pasquale al sud che al nord, viceversa per gli Alessandro in Italia, per esempio), il nome Mohamed per la cultura arabica e' unitamente considerato di alto rilievo, per richiamo alla religione, alla cultura, alla storia, al significato stesso del nome (colui che e' degno di lode). Addirittura e' spesso utilizzato quando non si conosce il vero nome di un individuo (probabilmente un po' come il John Doe americano).
Ovviamente su questa statistiche influisce tantissimo il tasso di natalità, da tempo in discesa nelle famiglie europee.
A Bruxelles la cosa non sembra destare allarmismo e la vita continua senza drammi, perché nel 2009 essere cittadini del mondo e non soltanto di un paese e' oramai una normalità acquisita e se magari 50 anni fa probabilmente il nome più utilizzato in alcune cittadine belghe era un Antonio o un Giovanni (a causa dei tanti immigrati italiani a lavorare nelle miniere di carbone), oggi e' un Mohamed, domani chissà. Mi domando pero' cosa succederebbe in Italia, visti gli eccessi provocatori e non che si susseguono a catena dopo la recente questione del crocifisso, alla diffusione di certe statistiche, alla lettura di certi dati, facili scintille di propaganda e paure quando al governo padroneggiano razzisti e xenofobi.

Fenomeni moderni a confronto

Recentemente negli Stati Uniti sta spopolando un ragazzino canadese di 15 anni, Justin Bieber, con canzoni pop sul mondo adolescenziale: primi baci, visi arrossati e faccino da angioletto. Ha creato addirittura il panico in un centro commerciale, quando per vederlo dal vivo la folla ha causato diversi feriti e immobilizzato l'impianto. Per guadare alcuni dei suoi video, ci vuole stomaco:

Come al solito pero' il genio napoletano e' anni luce avanti e questi nuovi fenomeni musicali moderni sono solo imitazioni di ragazzini ben più dotati, come il famosissimo Giuseppe Junior :) E forse i tempi non erano maturi, forse il suo stile era troppo futuristico, ma l'Italia aveva gia' il suo Justin Bieber e probabilmente ancora non lo sapeva. A voi la sentenza:

Ma una cravatta cosa fa

C'è chi la stringe forte, spesso troppo forte (quasi a dimostrare d'esser forte), chi la lascia un po' sciolta un po' sportiva (perché con stile, perché alla moda, perché manca l'aria), poi pero' ognuno le da' un colpo, ognuno ritorna al gesto della posa (da modello o da pinguino) quando nei pressi della porta gli sguardi si fan più seri e
tutti a stringere le scartoffie per il meeting. Le cravatte son tutte li', appese al collo e ad un respiro, a diffondere sicurezza ancor prima che eleganza, in primo piano, primo impatto, etichetta imposta a chi vuol sentirsi più importante, a chi deve perché comanda, a chi se lo impone per rispetto (spesso falso specchio di pensieri). C'è chi la ignora e chi ti snobba se la ignori, se non la porti intorno al tavolo e al proiettore, speri sempre ci sia qualcun altro senza, perché esser l'unico poi ti imbarazza o addirittura compromette (per una stupida cravatta). Ma una cravatta cosa fa? Magari troppo stretta, blocca proprio quel rigurgito dannato, del boccone che non volevi, di parole indigeste e stupidaggini arricchite, blocca qualche colpo di tosse alla slide senza senso e talvolta irrigidisce il sorriso al vicino sconosciuto. Ma le cravatte stanno li', mentre bocche parlano meccaniche e colli inghiottono concetti, le cravatte passive assorbono stress e calore e alla sera o già nel bagno dell'ufficio, quando la togli perché non ne puoi più, quando la togli perché non vedevi l'ora, perché ti dicono t'abituerai ma il rigetto e' troppo forte, perché e' un costume che non piace e la indossi solo se obbligato, ti libera in un colpo e giù pesante porta via tutte le scadenze appese al collo e i diagrammi troppi pieni e le analisi mai cosi' lunghe e come un vaffanculo dei più sinceri getta via mezza giornata di sofferenze noiose e desideri d'essere altrove. Un sospiro e niente più.

Non cravatte, ma pinguini danzare

Appena il pinguino imperatore arriva in zona, gli altri pinguini minori si alzano di scatto, si risvegliano dal loro letargo da scrivania e smettono di poltrire, di fingersi operosi, magari chiudono facebook. In uno slancio di due passi si avvicinano al capo branco, con versi monotoni e corali, scambiandosi battute dalla dubbia simpatia e girandogli intorno come in un cerchio protettivo. Alcuni esemplari della specie tendono a chinarsi come segno di rispetto, per un istinto di sopravvivenza lavorativa. Durante questi rituali, il sorriso e il becco lungo dei pinguini del branco sono la chiara manifestazione di predomino del pinguino imperatore. E dopo avergli girato attorno, come in una danza scoordinata di ballerini maldestri ma impegnati, veloci si riuniscono a formare una coda e con pochi versi striduli salutano e scompaiono alle spalle del capo branco, diretto alla sala del meeting.
E cosi' una volta a settimana, non vedo cravatte, ma tanti pinguini danzare.

Consigli sparsi per non parlare italiano in inglese

Che cosa significa parlare italiano in inglese? Significa tradurre letteralmente dall'italiano all'inglese frasi, modi di dire, espressioni del nostro uso comune, ed usarle parlando in inglese. Perché quando non si e' padroni della lingua straniera, si cade facilmente in questi tipi di errori e si parla inconsapevolmente italiano, ma in inglese. E se la cosa può risultare trascurabile quando si e' in vacanza, quando si e' turisti, quando l'importante in fondo e' solo farsi capire (e allora qualsiasi mezzo e' accettabile purché si riesca a comunicare), la questione prende una piega leggermente diversa in altri contesti, quando diventa un'abitudine e si riscontra nel quotidiano, in ambiti lavorativi, in amicizie durature, soprattutto in luoghi, come qui a Bruxelles, dove l'inglese e' la scorciatoia più usata dai residenti all'estero in una nazione pero' non madrelingua inglese e quindi dove tante eccezioni son permesse (ma non corrette).

Senza pretendere di star dietro ad una cattedra ne' improvvisarmi professore di lingua inglese (non ne avrei per nulla le capacita'), condivido in queste righe alcuni dei miei errori iniziali quando balbettante ci provavo a Dublino e tanti altri errori che probabilmente sono comuni tra gli italiani che tentano di parlar inglese senza una conoscenza perfetta della lingua (e ovviamente gli errori si devono fare inizialmente, nessuno impara una lingua in un giorno, ma e' raro che qualcuno madre lingua vi interrompa e vi faccia notare l'errore e allora spesso accade che lo si porta avanti nel quotidiano trasformandolo in una cattiva abitudine linguistica).

Uno degli errori più comuni e' quello di usare la doppia negazione anche in inglese: se in italiano diciamo non ho fatto nulla, e' sbagliato dire poi I havent done nothing, in inglese non c'è la doppia negazione (come in latino) e quindi dovremmo dire I havent done anything e cosi' via correggendo frasi sbagliate tipo I didnt see nobody. Quando poi si e' alle prime armi, e' normale non conoscere tanti vocaboli e allora ci sono due vie: quella di trovare vie trasverse per spiegare la parola o quella di inglesizzare una parola italiana, magari mettendo una e alla fine, pronunciandola in modo inglese e camuffandola: potreste anche indovinare, ma il più delle volte si inventano parole inesistenti o addirittura (con un po' di sfortuna) si può incappare in un falso amico (quelle parole che sono simili nelle due lingue ma che hanno significati totalmente differenti). Il mio consiglio e' sempre tentare la prima, lo dico perché come tanti ho provato la seconda alternativa e spesso ne son usciti davvero i mostri. Un esempio di falso amico e' eventually, che se in italiano richiama molto la parola eventualmente del tipo "e poi eventualmente potremmo andare al cinema", in inglese significa semplicemente "infine", "alla fine". Eventualmente si traduce con "in case". I falsi amici!

L'uso sbagliato di parole poi può portare anche a problemi lavorativi, magari sciocchi, magari più gravi. Ad esempio, in italiano utilizziamo la parola ultimo in diverse situazioni mentre in inglese si usa last e latest. Quando durante i primi mesi di lavoro a Dublino inviai la mail con l'ultima (usando last) versione di un certo protocollo che avevo aggiornato, alcune persone andarono in panico, perché di quel protocollo erano previste altre versioni. Avrei dovuto usare latest, quindi l'ultima nel senso la più recente e non ultima nel senso ultima, definitiva. Capite?

Questo accade sostanzialmente perché non conoscendo la lingua, la cosa più naturale e' tradurre da quella nativa. E quindi se arrivo in tempo direi just in time mentre correttamente sarebbe just on time. Sempre connesso al tempo, mentre in italiano il tempo si perde (ho perso due ore a cercare le chiavi) in inglese si guasta e si spende, quindi parlando italiano in inglese diremmo I lost two hours ma sarebbe I wasted two hours (per uno spreco di tempo) o I spent two hours (trascorrendo due ore). Perché se in italiano si compie un'azione con un certo verbo, si da' per scontato che lo si usi in altre lingue alla stessa maniera, anche quando inconsciamente si hanno già esempi contraddittori. Mi spiego meglio: una delle prime domande che si impara in inglese e' what's your name; quando pero' capita di dover chiedere il nome di un posto, spesso ho sentito dire how is the name of the pub etc.. ? Ritornando all'italiano e ad un come si chiama.. Eh, com'e' il nome di quel pub? E' scritto in inglese! Ecco com'è!:) Sarebbe what's the name of that pub etc.. ?

Altro problema sono tutte quelle sigle, quei marchi, nomi internazionali che in italiano si pronunciano tranquillamente in italiano, ma che poi in inglese (ovviamente) si pronunciano in modo differente. Esempio classico e' Levis che in italiano leggiamo letteralmente levis ma se poi in un negozio chiederete un jeans levis (dicendo proprio levis, come successe a me), non vi capiranno immediatamente. Sarebbe meglio leggerlo in inglese, e quindi tipo livais. Idem per ikea, che suonerebbe tipo aikia. E cosi' via con tanti altri.

Senza scendere troppo nei particolari e nelle eccezioni, nel mio ufficio ho sentito spesso dire da belgi (ma potrebbe capitare anche tra italiani) di dire see you after per ci vediamo dopo, ma sarebbe see you later; oppure all the day per dire tutto il giorno, ma sarebbe all day long; oppure until now per dire fino ad ora ma sarebbe so far, per non parlare del famosissimo I am agree per dire sono d'accordo, ma sarebbe semplicemente I agree.
Potremmo continuare per ore a cercarne di nuove e di curiose ma questo post si sta già allungando un po' troppo e allora se ne avete in mente qualcun'altra o se volete correggere alcuni strafalcioni che ho riportato, nei commenti si potrebbe creare una bella lista di italiano-inglese, come aiuto per chi magari si e' ritrovato in qualche riga, come risata per altri che invece l'inglese lo parlano bene o come semplice curiosità se la lettura vi e' piaciuta:)

Semplicità omesse

L'altra sera durante il corso di francese la prof consegna a ciascuno di noi uno dei soliti pezzetti di carta con su scritto qualche esercizio da fare in gruppo, per imparare nuovi termini o qualche nuova espressione. Questa volta era una lista di cose da fare prima di morire, anzi le dieci cose assolutamente da fare prima di morire. E c'era il solito viaggio intorno al mondo, la doccia sotto una cascata, lo skydiving, partecipare alla maratona di New York e tante altre cose sicuramente fiche, ma io ci son rimasto un po' male, perché in quella lista cosi' entusiasmante non c'era affatto quello che sicuramente voglio fare prima di morire: avere semplicemente un figlio.

Due anni all'estero

Due anni fa nella valigia avrei voluto mettere tante cose, dal guardaroba dimezzato ai libri troppo pesanti, dalle mille raccomandazioni dei miei agli abbracci di tutti coloro che la sera prima mi ritrovai intorno al collo, qualche lacrima, sorrisi, sguardi pieni d'affetto, avrei voluto spingere, far spazio, comprimere, imbottire nel tentativo invano di spostare tutta la mia cameretta, di portare tutto il mio mondo con me, più di tutti i pensieri irrisolti che urlavano insonni tra le pareti celebrali, più di tutte le perplessità su un'avventura che andavo ad affrontare da solo. "Vado un anno a Dublino e poi torno" dissi, "Non piangere mamma, non vado mica via per sempre".
In un respiro profondissimo, di quelli che i polmoni non si riempiono soltanto d'ossigeno, di quelli che la bocca non espelle soltanto aria, mi ritrovai sul sedile dell'aereo, il viso appena riflesso nel finestrino opaco e l'Italia che scompariva tra le nuvole lontana. I pugni stretti, nel concentrare tutto il coraggio necessario e la voglia di scoprire nuove realtà, di sfuggire da vecchi fantasmi, di cambiare in una scelta cosi' drastica.

Due anni all'estero e milioni di immagini, ricordi, errori, sorrisi, scoperte, mancanze, sconfitte, impegni e soddisfazioni. Non si può riassumere un'avventura cosi' intensa in poche righe, forse e' per questo che c'è stato il mio blog di Dublino e questo qui a Bruxelles, forse e' per questo che nel tentativo di trovare gli eventi più importanti ecco che se ne presentano a migliaia alle porte delle memoria, per affollare e sentirsi vivi, per riflettersi l'un con l'altro e in un abbraccio rappresentare questi due anni cosi' pieni e rivoluzionari.
Dalle lacrime di sconforto del secondo giorno a Dublino ai primi colloqui dall'inglese balbettante, dal lavoro ottenuto dopo appena nove giorni di sudore fino al corso serale d'inglese per accelerare l'apprendimento in cinque mesi d'immersione, dalle nuove amicizie in terra irlandese con ragazzi provenienti da ogni parte del mondo ai party notturni d'alcool ed allegria quando la mente si perde in un bicchiere e il giorno dopo ti ripeti inutilmente di non voler bere più e tante, tante, tante altre scene pazzescamente belle. Poi dopo un anno e mezzo di profondissime emozioni ecco i nuovi addii, i nuovi abbracci e le promesse, la mia partenza per Bruxelles, sei mesi fa, e la nuova avventura da affrontare. Mi ritrovo dopo due anni ad esser contento di averci provato, aver migliorato l'inglese, imparato lo spagnolo, iniziare ad apprendere il francese, aver avuto un'esperienza lavorativa a Dublino che mi ha formato ed aiutato ad averne una qui a Bruxelles ancora più stimolante ed importante, stretto amicizie con ragazzi di mezza Europa, aver visitato posti meravigliosi e cambiato tanti modi errati di pensare, perché due anni all'estero ti cambiano inevitabilmente, in modo radicale.

E si', lo so, tutto va cosi' in fretta, ma se ogni nostro giorno non si riempisse di noi stessi, poi a guardarci indietro troveremmo tante scene mute, rimpianti sparsi, ricordi sterili e divani vuoti. Antonino una volta mi disse che sarebbe bello se, morti, ci ritrovassimo in una stanza, soli, con un divano ed un televisore, a rivedere da zero tutto il film della nostra vita. Beh, a ripensarci, sarebbe bello se quel film fosse davvero un susseguirsi ininterrotto d'emozioni e se su quel divano, insieme, ci fossero tutte le persone incontrate durante il nostro viaggio. Ecco, sarebbe davvero un gran bel film.

Ho pagato un euro per un sorriso

Questa mattina mentre ero nella metro diretto a Gare du Midi, come al solito perso nel finestrino mentre la mente si svegliava lentamente e i pensieri si affacciavano sbadigliando, un uomo inizia a suonare il violino, con il figlio al fianco a scuotere un tamburello.
La gente e' fredda perché fuori fa freddo, e' novembre e già c'è il gelo, ma la gente e' fredda perché fuori e' altro e ciascuno e' cosi' immerso nella propria vita da non potersi distrarre, non aver tempo per fermarsi un attimo, c'è già lo stress dell'ufficio che si avvicina e bisogna far presto, sedersi alla scrivania, inventarsi qualcosa; la gente e' fredda ed alcuni si voltano altrove, altri guardano in basso mentre un tizio già si alza per accostarsi alla porta, in attesa della prossima fermata. Spesso mi perdo in questo scenario, nell'osservare le reazioni di ognuno, spesso quando la mano si accosta per elemosinare un'offerta mi rifiuto o ne faccio una soltanto se la musica mi piace davvero o se non sono in umor pensoso incurante di ciò che accade attorno. Quando questa mattina il ragazzino si e' avvicinato con la bocca coperta dalla sciarpa, il cappello di qualche taglia più grande che gli copriva la fronte, gli ho dato un euro, sorridendo. E subito il contagio del sorriso, dalla sciarpa e' sbucato come un sole all'orizzonte il suo sorriso naturale. E' durato un attimo. Già la speranza pendente si avvicinava ad altre persone, ma eravamo in pochi nel vagone (come al solito avevo fatto tardi) e non ho sentito il tintinnio di altre monete contro monete.
Tornando dal padre, il ragazzino si e' voltato verso di me, sorridendo di nuovo. Ho ricambiato.
Giungendo alla mia fermata, mi son alzato e diretto verso la porta e lui qualche metro più in là a dirmi ciao con la mano. Ho ricambiato con un occhiolino. La mia giornata e' iniziata decisamente meglio.

Sfogo in croce

Non esiste, non si tocca, e' parte della nostra cultura (di crocifissati?), non e' un simbolo religioso (e allora che si tolga anche dalle chiese), ma il simbolo di un liberatore (pero' chiedetelo alla scienza), di un uomo che ha lottato per la libertà (e allora che in chiesa ci mettano anche la foto del Che, ah no, scusa, in nome del Che si son uccise persone, invece con le Crociate in nome di Dio si uccisero mosche), alla fine l'Europa non può obbligarci a toglierlo (ma se ad una commissione si danno dei poteri, non si possono poi ignorare le decisioni, fate ricorso, va bene, ma anche questa e' l'Europa e con il Trattato di Lisbona avrà ancora più poteri, tante altre cose cambieranno, magari) e anche Berlusconi si e' schierato con gli italiani (ah già, il più grande mafioso della scena politica italiana, nonché puttaniere ufficializzato, va in difesa del crocifisso, bellissima questa), e poi noi abbiamo il Vaticano (eh grande istituzione, uno degli stati più ricchi del mondo che parla di povertà, persone che non hanno consorte o figli ma che parlano di famiglia, che non vivono la società ma poi dicono come la si dovrebbe vivere e che soprattutto vietano il preservativo ma io ne indosserei anche uno mentale, per rimanere immune da certi dogmi medioevali), e poi anche Travaglio e Servegnini lo hanno difeso (i soliti divismi, arrampicate sugli specchi per nascondere un fanatismo religioso e un paese intollerante, riprendendo parole di Ginzburg di cui oggi il nome si ripete ma che fino a ieri nessuno conosceva) e poi son 50 anni che sta li' e nessuno si e' mai offeso (e allora rimaniamo altri 50 anni immutati, mentre il mondo fuori cambia, velocissimo) e poi se io andassi in Arabia e mi sentissi offeso per qualcosa non cambierebbe nulla (occhio per occhio, dente per dente, mi pare sia uno dei dieci comandamenti cristiani, vero?). Poi non so, tra luoghi comuni, frasi gettate alla rinfusa nella difesa delle tradizioni, episodi e riferimenti vari, non so se ho mancato qualcosa, ma io quel crocifisso lo toglierei, subito.

Parentesi necessaria

Avevo in mente questa animazione da un po' di tempo ma il tempo si sa e' di quelle risorse di cui non si ha mai abbastanza. Approfittando della settimana di ferie della scuola di francese, ho ritagliato un po' di sessioni serali e alla fine son riuscito a terminare questo piccolo omaggio a Luigi Pirandello.
La ventina di lettori del mio libro sapranno sicuramente quanto mi siano care le parole del brano, spero quindi che la povera animazione non distragga da quella che, in definitiva, e' davvero una parentesi necessaria in qualsiasi istante, continuando ad essere attuale nonostante le stravolgenti evoluzioni sociali avvenute durante il (quasi) secolo che ci separa dalla nascita di queste parole. Buona visione:)

Halloween con sorpresa

Sebbene Halloween non sia per nulla una celebrazione belga e la festa si riduca al solito commercio e ballate serali, venendo da Dublino e frequentando anche alcune persone irlandesi qui, c'era una certa voglia di ripetere i sorrisi dello scorso anno. Le vetrine delle vie principali di Bruxelles si son subito colorate di zucche arancioni e ragnatele grigiastre ma e' solo decorazione perché pochi sono i negozi che realmente vendono oggettistica e decorazioni per la festività.
Poco male, alla fine un po' di trucco in viso e via tutti all'Havana. Serata allegra e umori alticci. C'è un truccatore che regala cicatrici in viso e sangue dalle labbra a tutti, c'è la ragazza che invita ad loggarsi in feisbuk e sottoscriversi al gruppo dell'Havana per avere un drink gratuito, c'è l'amico francese che in meno di un'ora e' già distrutto.
All'uscita il buttafuori chiede come al solito la mancia, cosi' come in tanti altri locali qui a Bruxelles e onestamente cosa mai vista in nessun altro luogo visitato. Uno dei ragazzi mi spiega che cosi' la prossima volta si ricorderà di noi, conviene dargli qualche spicciolo; io ne dubito seriamente, visto che su cento ragazzi, alle tre notte, tra confusione e addirittura anche truccati per Halloween, sarebbe davvero un gran genio se riuscisse a ricordarsi tutte le associazioni dei volti per la prossima volta e anche in quel caso, se fosse questo gran genio, non credo proprio starebbe li' a fare il buttafuori (con tutto il rispetto per la categoria).
Poi ecco la spiacevole sorpresa: troviamo la macchina di uno dei ragazzi con un finestrino fracassato, proprio di fronte al palazzo di giustizia. Qualche giacca rubata, una borsa con chiavi di casa, frammenti di vetri ovunque sui sedili e qualche bestemmia torinese al cielo. Certo la macchina e' quella aziendale, certo basta andare alla polizia e prendere la denuncia e poi andare al servizio 24ore e farsi sistemare il finestrino anche alle quattro di notte, ma e' ovvio che certe cose sarebbe meglio non accadessero.
L'amico francese mi ricorda che gli e' successo lo stesso un mesetto fa, ma alle tre del pomeriggio, vicino al centro, e che certe cose, qui a Bruxelles, capitano di frequente e che probabilmente capitano in qualsiasi città del mondo (e' successo anche a me anni fa nella tranquillissima Agropoli). Certo e' che dopo l'episodio dello scorso anno, Halloween inizia a portare un po' sfiga, certo e' che finora non mi son per nulla pentito di aver rifiutato la macchina aziendale, certo e' che avrei preferito un episodio differente, cara Bruxelles, per chiudere i primi sei mesi qui con te.