Come un sogno di follie venduto all'asta
Mentre la fila procede a rilento e c'è chi parla con l'amico al lato, chi riempie il tempo con qualche occhiata al cellulare e chi si guarda intorno alla scoperta di una piazza magari sconosciuta fino a quel momento, osservi le ragazze della piadina indaffarate a servire clienti a Parvis de St. Gilles ed il dj a lato che tenta d'intrattenere gli altri intorno, per la maggior parte italiani, attratti dall'iniziativa romagnola. I sampietrini bagnati dalla pioggia già passata velano la piazzetta d'una malinconia soffusa, quando la luce dei lampioni si riflette in qualche pozzanghera sparsa, di colpo ne rende nobile il colore, in un brillio innaturale che ne camuffa lo sporco vestito di nero, non quello proprio sotto ai tuoi piedi, dove la luce elettrica non può arrivare, filtrata dai ragazzi in fila, che forse nemmeno sanno di calpestare un mosaico altrimenti sicuramente più magico. Non lo sanno e ciò ne amplifica l'effetto, come se quei brillii fossero messaggi in una conversazione bisbigliata. E mentre la fila continua a rilento, in quell'isola italiana creatasi improvvisamente in una piazzetta di Bruxelles, c'è chi all'ingresso della metro fa suo un angolo per chiedere spiccioli alla fretta dei pochi passanti, più avanti c'è chi bagna qualche parola in un boccale di birra davanti un bar popoloso, quando una suora passa lenta con il suo velo d'epoche passate ed il fascino d'un sacrificio rispettoso. Poi all'improvviso il dj incauto cambia genere, il dj ignaro pesca un brano che mai avresti pensato d'ascoltare, in una piazzola di Bruxelles, la sua voce e quel sapore, di mare, di sud, si diffonde con naturale contagio: è Sfiorivano le viole, è Rino, lì, quasi fosse il suo ambiente ideale, ci son i sampietrini a far da cornice ed i riflessi a ricordar una pioggia d'estate, ci son le voci, tante, a recitare mormorii di spiagge e falò lontani, c'è l'uomo ed il suo angolo infreddolito a rappresentare quel finale sociale, immancabile, bestemmia e denuncia nella voce rauca del menestrello dimenticato. All'improvviso non è più Bruxelles, non lo sa il dj occupato a scegliere il prossimo brano da lanciare né la folla in fila attenta a decidere quale tipo di piadina provare, non lo sa nemmeno l'uomo e quel suo bisogno quotidiano nascosto tra le rughe delle mani, che non c'è più Bruxelles in quei pochi metri quadrati e non c'è grazie a una canzone, come un sogno di follie venduto all'asta.
I ghetti del web
Ho sempre pensato che Internet non sarebbe mai potuto rimanere così come lo abbiamo conosciuto ai suoi albori, così come è nato, non in termini tecnologici (per fortuna, migliorando in velocità di trasmissione e affidabilità, per esempio), ma in quanto a libertà messe a disposizione, libertà di condivisione di dati ed informazioni, tanto da essere acclamato come strumento fondamentale per qualsiasi democrazia moderna, perché una democrazia, appunto, si fonda anche (e soprattutto) sulla consapevolezza ed il grado di conoscenza dei suoi cittadini. Magari un giorno racconteremo ai nostri nipoti dei lontani tempi in cui su Internet si poteva condividere di tutto, legalmente o illegalmente, di quando si poteva scrivere di tutto, con o senza diffamazioni, di quando non c'era controllo ed era una prateria aperta in cui tutti potevano creare, nel bene e nel male.
Il mondo ha dovuto colmare numerose mancanze ed adattarsi, anche in termini di leggi e privacy, per esempio, ma soprattutto sfruttando al meglio le possibilità infinite offerte dalla rete. L'ultima tendenza è quella della personalizzazione dei contenuti, tendenza che se da un lato rende la rete più accogliente, adattandola ai propri interessi, filtrando contenuti inopportuni e rimuovendo un sacco di rumore, dall'altro ne snatura una delle qualità strutturali come l'abbiamo conosciuta fin dal principio: un universo in cui si poteva interagire con tutti, scoprire nuovi contenuti ed allargare le proprie vedute. Lo si può fare ancora, per carità, ma sempre meno o almeno in maniera meno diretta. Basta guardare questo video di TED, segnalato da Mantellini, per capire come la tendenza sia quella di adattare, filtrare, personalizzare le ricerche su Google, i video proposti da Youtube, gli aggiornamenti delle amicizie su Facebook, gli articoli in primo piano nei quotidiani e così via, creando una filter bubble intorno a noi che ci isola in qualche modo da altri contenuti, magari poco interessanti, magari invece rivelatori, probabilmente porte verso altre vedute, che solo la curiosità può aprire e che magari un tempo apparivano nei risultati di una ricerca o in un annuncio a bordo pagina, quando non c'erano filtri sulla localizzazione geografica, sulla cronologia di navigazione, i tipi di contatti nelle reti sociali e così via.
Se normalmente tendiamo già a creare il nostro orticello di contenuti visitando quotidianamente gli stessi quotidiani online, gli stessi blog, gli stessi forum, in abitudini dettate dai propri gusti ed interessi, a causa della tendenza alla personalizzazione dei contenuti quell'orticello potrebbe diventare ancora più isolato e nocivo. Certo, non c'è bisogno di allarmismi eccessivi o di paranoiche configurazioni di plug-in ed estensioni per il browser in modo da pulire qualsiasi traccia lasciata durante la navigazione (spesso fanno anche comodo alcuni completamenti automatici), però bisogna averne la coscienza, che la rete sta cambiando, e che gli utenti inesperti (un'enorme massa di navigatori ignari) si potrebbero ritrovare assuefatti da contenuti personalizzati non in base ai propri interessi ma a quelli che gli algoritmi di personalizzazione propongano loro, creando dei veri e propri ghetti nell'universo della rete, in cui diviene più difficile accedere o interagire con informazioni e contenuti che normalmente non apparterrebbero al nostro orticello ma che magari aiuterebbero ad ampliare vedute, opinioni, conoscenze, in quella che da sempre rappresenta una grande ricchezza: la diversità.
Così, invece di usare quell'abusatissima (ed odiosa) etichetta, il popolo del web, finirà che a breve dovranno urlare titoloni con la parola ghetto, i ghetti del web.
Il mondo ha dovuto colmare numerose mancanze ed adattarsi, anche in termini di leggi e privacy, per esempio, ma soprattutto sfruttando al meglio le possibilità infinite offerte dalla rete. L'ultima tendenza è quella della personalizzazione dei contenuti, tendenza che se da un lato rende la rete più accogliente, adattandola ai propri interessi, filtrando contenuti inopportuni e rimuovendo un sacco di rumore, dall'altro ne snatura una delle qualità strutturali come l'abbiamo conosciuta fin dal principio: un universo in cui si poteva interagire con tutti, scoprire nuovi contenuti ed allargare le proprie vedute. Lo si può fare ancora, per carità, ma sempre meno o almeno in maniera meno diretta. Basta guardare questo video di TED, segnalato da Mantellini, per capire come la tendenza sia quella di adattare, filtrare, personalizzare le ricerche su Google, i video proposti da Youtube, gli aggiornamenti delle amicizie su Facebook, gli articoli in primo piano nei quotidiani e così via, creando una filter bubble intorno a noi che ci isola in qualche modo da altri contenuti, magari poco interessanti, magari invece rivelatori, probabilmente porte verso altre vedute, che solo la curiosità può aprire e che magari un tempo apparivano nei risultati di una ricerca o in un annuncio a bordo pagina, quando non c'erano filtri sulla localizzazione geografica, sulla cronologia di navigazione, i tipi di contatti nelle reti sociali e così via.
Se normalmente tendiamo già a creare il nostro orticello di contenuti visitando quotidianamente gli stessi quotidiani online, gli stessi blog, gli stessi forum, in abitudini dettate dai propri gusti ed interessi, a causa della tendenza alla personalizzazione dei contenuti quell'orticello potrebbe diventare ancora più isolato e nocivo. Certo, non c'è bisogno di allarmismi eccessivi o di paranoiche configurazioni di plug-in ed estensioni per il browser in modo da pulire qualsiasi traccia lasciata durante la navigazione (spesso fanno anche comodo alcuni completamenti automatici), però bisogna averne la coscienza, che la rete sta cambiando, e che gli utenti inesperti (un'enorme massa di navigatori ignari) si potrebbero ritrovare assuefatti da contenuti personalizzati non in base ai propri interessi ma a quelli che gli algoritmi di personalizzazione propongano loro, creando dei veri e propri ghetti nell'universo della rete, in cui diviene più difficile accedere o interagire con informazioni e contenuti che normalmente non apparterrebbero al nostro orticello ma che magari aiuterebbero ad ampliare vedute, opinioni, conoscenze, in quella che da sempre rappresenta una grande ricchezza: la diversità.
Così, invece di usare quell'abusatissima (ed odiosa) etichetta, il popolo del web, finirà che a breve dovranno urlare titoloni con la parola ghetto, i ghetti del web.
Che palle
Sei lì davanti a tre espressioni interrogative mentre la cravatta lascia gocciolare lentamente pensieri nello stomaco, cercando sì di renderne la digestione meno molesta ma lasciandone anche troppi tra le pareti celebrali, agitando quello che poi si trasforma in sudore tra le dita e te lo senti appena anche lungo la schiena, per non parlare dei contributi ascellari. Sei lì, dopo aver passato due test IKM online su competenze tecniche, dopo aver parlato per più di due ore con i loro architetti in altri due colloqui tecnici telefonici, eppoi il primo face to face (tecnico, per cambiare) e ancora un test tecnico e tutto per arrivare lì, all'ultimo face to face, neanche fossero la NASA questi qua e stessi applicando per gestire l'intera organizzazione. Il tuo cv è sulla scrivania, ne riconosci la formattazione, i paragrafi, le diciture, noti subito appunti in rosso e nero, qua e là, macchie in quel tuo ordine certosino. Perché anche in rosso?, ti domandi, ricordando calligrafie e note da maestrina scrupolosa, mentre il nodo alla cravatta sembra stringersi di più, come se dovesse in qualche modo reagire all'attacco dei pensieri recalcitranti, che intanto ne formano un altro, di nodo, in gola, grosso quasi come il pomo d'Adamo.
E mentre uno di loro esce un attimo per un bicchiere d'acqua, gli altri provano a metterti a tuo agio con qualche domanda di circostanza, mentre tu sei lì esternando un sorriso da statua cinese, ma solo perché il nodo alla cravatta tira la pelle del visto fino ai bordi degli occhi. Di dove sei, ah italiano (ma in effetti stava scritto sul cv, alla voce nationality, non era difficile), e di che parte d'Italia, ah vicino Napoli. Tutti i campani nel mondo finiscono con rispondere vicino Napoli agli stranieri, per tagliar corto, perché è inutile pronunciare nomi di cittadine sconosciute ai più e perché si va sul sicuro, si sa Napoli dove sta. Allo stesso modo l'astronauta sul pianeta C9V17 non direbbe all'alieno Vengo dall'Italia, taglierebbe corto, direbbe Terra, la Terra, inutilmente. Però le vie della simpatia trovano sempre modi sadici per esprimersi e qualche battuta salta sempre fuori e allora Ah, ma allora non possiamo non assumerti, altrimenti fai venire la mafia. E giù risata convulsiva. A quel punto i pensieri bloccati dal nodo alla cravatta diventano tante spine, piccolissime, ma fastidiose, che s'infilzano nella pelle già tirata ad elastico e ne crocifiggono il sorriso. Già, perché non c'è altro modo di rispondere, se non con il sorriso, in quella circostanza. Cosa vorresti spiegar loro? Che non sei di Napoli? Che Napoli non è tutta così? Che non si chiama mafia ma camorra e che la vita non è come nel film Il Padrino? Che potrebbero essere più simpatici in tanti altri modi? Che alla fine è vero, ci son fuori i tuoi scagnozzi pronti a far saltar in aria la loro macchina se non ti assumono? No, la situazione non lo permette eppoi che senso avrebbe, sei un italiano, c'è il tuo stereotipo seduto lì in quel momento, e con esso opinioni, leggende e verità da cui si può diluire qualche commento di circostanza, per rompere il ghiaccio, per dire qualcosa, per essere simpatici, a volte. Dovresti essere abituato a certe battute, eppure mentre il tuo sorriso risponde grazioso fingendo umori allegri e pensando ai dettagli tecnici dell'incontro, perché eri lì per quello, è quello che ti interessa, la posizione, l'azienda, anche se un po' paranoica nella selezione, sei all'ultimo step, ce l'hai quasi fatta, non vuoi certo rovinare tutto per una battuta come tante, ecco, mentre questo ed altro impatta sul nodo alla cravatta e si conficca nella pelle oramai lacerata, c'è un solo pensiero dominante quando il sorriso si estende falso verso i due esaminatori: che palle.
E mentre uno di loro esce un attimo per un bicchiere d'acqua, gli altri provano a metterti a tuo agio con qualche domanda di circostanza, mentre tu sei lì esternando un sorriso da statua cinese, ma solo perché il nodo alla cravatta tira la pelle del visto fino ai bordi degli occhi. Di dove sei, ah italiano (ma in effetti stava scritto sul cv, alla voce nationality, non era difficile), e di che parte d'Italia, ah vicino Napoli. Tutti i campani nel mondo finiscono con rispondere vicino Napoli agli stranieri, per tagliar corto, perché è inutile pronunciare nomi di cittadine sconosciute ai più e perché si va sul sicuro, si sa Napoli dove sta. Allo stesso modo l'astronauta sul pianeta C9V17 non direbbe all'alieno Vengo dall'Italia, taglierebbe corto, direbbe Terra, la Terra, inutilmente. Però le vie della simpatia trovano sempre modi sadici per esprimersi e qualche battuta salta sempre fuori e allora Ah, ma allora non possiamo non assumerti, altrimenti fai venire la mafia. E giù risata convulsiva. A quel punto i pensieri bloccati dal nodo alla cravatta diventano tante spine, piccolissime, ma fastidiose, che s'infilzano nella pelle già tirata ad elastico e ne crocifiggono il sorriso. Già, perché non c'è altro modo di rispondere, se non con il sorriso, in quella circostanza. Cosa vorresti spiegar loro? Che non sei di Napoli? Che Napoli non è tutta così? Che non si chiama mafia ma camorra e che la vita non è come nel film Il Padrino? Che potrebbero essere più simpatici in tanti altri modi? Che alla fine è vero, ci son fuori i tuoi scagnozzi pronti a far saltar in aria la loro macchina se non ti assumono? No, la situazione non lo permette eppoi che senso avrebbe, sei un italiano, c'è il tuo stereotipo seduto lì in quel momento, e con esso opinioni, leggende e verità da cui si può diluire qualche commento di circostanza, per rompere il ghiaccio, per dire qualcosa, per essere simpatici, a volte. Dovresti essere abituato a certe battute, eppure mentre il tuo sorriso risponde grazioso fingendo umori allegri e pensando ai dettagli tecnici dell'incontro, perché eri lì per quello, è quello che ti interessa, la posizione, l'azienda, anche se un po' paranoica nella selezione, sei all'ultimo step, ce l'hai quasi fatta, non vuoi certo rovinare tutto per una battuta come tante, ecco, mentre questo ed altro impatta sul nodo alla cravatta e si conficca nella pelle oramai lacerata, c'è un solo pensiero dominante quando il sorriso si estende falso verso i due esaminatori: che palle.
Bruxelles ma providentielle
Ho parlato con italiani all'estero, con spagnoli all'estero, e con francesi all'estero, e con ganesi all'estero, con cinesi all'estero, e con tanti altri all'estero. Ognuno aveva la sua storia da raccontare, con la sua valigia di pensieri e parole ripetute, alle domande, quelle sempre le stesse, però accompagnate da un sorriso, però a volte amaro, però spesso spensierato, però di quelli che non conosci e una storia diventa l'autobiografia con cui li ricorderai al prossimo incontro, se ci sarà. Ma se tutti siamo all'estero, hai pensato, quest'estero poi finisce col confonderci. Me ne sono dimenticato quando son dovuto andare al comune di Bruxelles, ce ne sono 19 a Bruxelles, di comuni, per risolvere un trasloco che si trascina anche certificati e scartoffie dagli accenti stranieri. Ho atteso tanto, in sala d'attesa. Ho letto un dépliant, in sala d'attesa, ogni giorno si raccolgono 50 kg di cacca di cane a St. Gilles, diceva il dépliant. Non sono pochi, 50, al giorno, in uno solo dei 19 comuni, a Bruxelles. Ci ho pensato tutto il giorno poi, ai 50 kg, me li sono quasi immaginati, tutti insieme. Me ne sono dimenticato quando son andato ad una festa a casa dell'amico tedesco, ubriaco son andato in bagno, ho scritto Let the sunshine in con il dentifricio sullo specchio del bagno. Non l'ha presa bene, l'amico tedesco. Alla prima festa a casa mia ho dimenticato di nascondere il dentifricio nel bagno. Vafanculo, ho trovato nel bagno, sullo specchio, grande. Vendicativi, questi tedeschi. Non è un bel svegliarsi, svegliarsi e specchiarsi in un Vafanculo nel bagno. Sarà per quello che quando ho poi provato a tagliarmi un pezzo di pane, ho preso il dito, 3 punti di sutura, al pronto soccorso del St. Pierre, dove l'infermiera mi parlava italiano. No, quest'estero non ha proprio le sembianze d'estero. Se si potesse avere una cartina geografica non di confini politici ma di movimenti di persone, non di sorveglianze doganali ma del mescolarsi di tutti gli altri all'estero, se si potesse avere una mappa di questi flussi e della loro destinazione finale, non avremmo molto estero né forse tanta patria.
Ho conosciuto un ragazzo americano che non smetteva di elogiare Roma, diceva, a Roma anche solo il ponte, quello vicino Castel St. Angelo, anche solo quello altrove sarebbe l'attrazione turistica principale. Superficiali, questi americani. Ho conosciuto un ragazzo umbro che si è fatto il limocello in casa, qui a Bruxelles, con limoni di Bruxelles, e voleva lo provassi. Duttili, questi umbri. Ho conosciuto una ragazza spagnola di madre finlandese che lavora alla Commissione Europea, ho provato ad entrare, ha detto, solo perché mi pagano di più. Sincere, queste finlandesi camuffate da spagnole. Poi andando alla Piola ho visto qualcuno pisciare proprio sul muro della Commissione, dove han lottato per idee di fratellanza, dove han lottato per il regno delle lobby, dove c'è chi lavora duro per il bene di un continente, dove c'è chi scalda la poltrona per il bene del conto in banca, dove con questo freddo magari non era l'angolino adatto.
Ho parlato con una ragazza ad una festa noiosissima, mi ha parlato dell'importanza per lei di farsi un'operazione al seno, il silicone le darebbe più sicurezza, nei rapporti sociali, mi ha detto. E tu che operazione estetica ti faresti, mi ha chiesto. Certo domande, a farle, si dev'essere davvero cime. Le avrei potuto parlare dell'operazione agli occhi che farei, del laser, che le lenti a contatto mi stancano, le avrei potuto parlare del voler togliere due tatuaggi, tracce dell'età in cui governavano gli istinti più che le prediche paterne, ma le ho detto che farei volentieri la circoncisione, troppa pelle, le ho detto, un amico mi ha anche detto che poi diventa una macchina da guerra. Vado a prendere qualcosa da bere, m'ha detto. Poi, non l'ho più rivista. Strano.
Ho ascoltato Masini venir fuori dalla radio della metro di Bruxelles, più che un lamento era una persecuzione. Certe cose fanno male alla salute, soprattutto a Bruxelles. Quest'estero, ho pensato, sta cercando di confondermi. Son tornato a Dublino dove ho incontrato l'amico francese, che nel frattempo è andato a San Francisco, che poi è tornato a Parigi, che poi è diventato CEO di un'azienda che fattura 7 milioni di euro l'anno. Ho pensato a quando nei pub cantavano insieme canzoni senza senso e a quanti crocevia s'intrecciano in quest'estero che confonde. Poi son andato a vedere se c'era ancora una traccia di me, di una mattina svegliato alle 4 per scrivere qualcosa sotto casa di una ragazza e sulla via del ritorno lasciare anche una firma. La firma c'è ancora, a Dublino. Anche la ragazza, a Bruxelles.
Poi son tornato a Bruxelles con le labbra ancora sporche di Guinness. Ho detto, Bruxelles e se lasciassi una firma anche qui? le ho detto. Aspetta un attimo, m'ha risposto.
Ho conosciuto un ragazzo americano che non smetteva di elogiare Roma, diceva, a Roma anche solo il ponte, quello vicino Castel St. Angelo, anche solo quello altrove sarebbe l'attrazione turistica principale. Superficiali, questi americani. Ho conosciuto un ragazzo umbro che si è fatto il limocello in casa, qui a Bruxelles, con limoni di Bruxelles, e voleva lo provassi. Duttili, questi umbri. Ho conosciuto una ragazza spagnola di madre finlandese che lavora alla Commissione Europea, ho provato ad entrare, ha detto, solo perché mi pagano di più. Sincere, queste finlandesi camuffate da spagnole. Poi andando alla Piola ho visto qualcuno pisciare proprio sul muro della Commissione, dove han lottato per idee di fratellanza, dove han lottato per il regno delle lobby, dove c'è chi lavora duro per il bene di un continente, dove c'è chi scalda la poltrona per il bene del conto in banca, dove con questo freddo magari non era l'angolino adatto.
Ho parlato con una ragazza ad una festa noiosissima, mi ha parlato dell'importanza per lei di farsi un'operazione al seno, il silicone le darebbe più sicurezza, nei rapporti sociali, mi ha detto. E tu che operazione estetica ti faresti, mi ha chiesto. Certo domande, a farle, si dev'essere davvero cime. Le avrei potuto parlare dell'operazione agli occhi che farei, del laser, che le lenti a contatto mi stancano, le avrei potuto parlare del voler togliere due tatuaggi, tracce dell'età in cui governavano gli istinti più che le prediche paterne, ma le ho detto che farei volentieri la circoncisione, troppa pelle, le ho detto, un amico mi ha anche detto che poi diventa una macchina da guerra. Vado a prendere qualcosa da bere, m'ha detto. Poi, non l'ho più rivista. Strano.
Ho ascoltato Masini venir fuori dalla radio della metro di Bruxelles, più che un lamento era una persecuzione. Certe cose fanno male alla salute, soprattutto a Bruxelles. Quest'estero, ho pensato, sta cercando di confondermi. Son tornato a Dublino dove ho incontrato l'amico francese, che nel frattempo è andato a San Francisco, che poi è tornato a Parigi, che poi è diventato CEO di un'azienda che fattura 7 milioni di euro l'anno. Ho pensato a quando nei pub cantavano insieme canzoni senza senso e a quanti crocevia s'intrecciano in quest'estero che confonde. Poi son andato a vedere se c'era ancora una traccia di me, di una mattina svegliato alle 4 per scrivere qualcosa sotto casa di una ragazza e sulla via del ritorno lasciare anche una firma. La firma c'è ancora, a Dublino. Anche la ragazza, a Bruxelles.
Poi son tornato a Bruxelles con le labbra ancora sporche di Guinness. Ho detto, Bruxelles e se lasciassi una firma anche qui? le ho detto. Aspetta un attimo, m'ha risposto.
Tutti in fila
C'è una fila incredibile fin quasi alla porta, c'è gente in fila ordinata, però ansiosa, però sorridente, dal fioraio prima dell'ora di chiusura, c'è l'uomo distinto d'affari che lascia la scelta di colori e abbinamenti alla commessa meccanicamente cordiale, c'è il muratore dell'Europa dell'Est con i pantaloni ancora sporchi di calce che si guarda intorno in cerca del fiore che lo convinca di più, che loro, i fiori, son lì, in attesa di una casa, come cani scodinzolanti in un canile rumoroso, pronti a far compagnia non nel profumo sintetico di uno spray industriale ma nelle associazioni d'idee che porteranno con sé, rappresentanza temporanea d'un gesto cordiale, fin tanto che non appassiscano e con loro quelle idee decorate, che loro, le idee, han bisogno di rappresentanze, spesso, altrimenti ritornano nei loro rifugi mentali in attesa dell'ennesimo stimolo liberatorio. E c'è chi non bada a grandezze, vuole il bouquet quello più appariscente e vistoso, c'è chi invece prende quello già pronto, lì, al lato della fila, di 15 euro, per scambiarlo poi con quello da 7 quando si rende conto dei 15 euro, ma poco importa il prezzo, il bacio che riceverà in cambio avrà lo stesso valore, sarà ugualmente meritato. C'è gente in fila, dal fioraio prima dell'ora di chiusura, e fila significa sempre attesa, per te che non te l'aspettavi, per te che volevi solo una rosa e lei, l'attesa, sta lì pronta a farti compagnia, per un po', mentre un fiore si veste d'argento e strisce rosse ed altri s'abbracciano in un vortice obbligato per uscire poi tutti a testa in giù. Uscirai anche tu, con la testa sul collo ed un pensiero in più ad affollarla, pensando a tutti quelli in fila, là dal fioraio, prima dell'ora di chiusura, tutti pronti a comprare il passaporto necessario per rientrare indenni stasera, quando i fiori saran consegnati, tanti altri baci saran consumati e loro, i fiori, rimarranno lì per un po', a far finta di crederci anche loro, alle idee che porteranno con sé.
10 motivi per (non) andare all'estero
Periodicamente si torna a parlare di brain drain, per dichiarazioni discutibili di politici di turno o perché le statistiche vanno aggiornate e così le conclusioni spremute dai loro risultati. Andiamo allora controcorrente e proviamo (facendo uno sforzo) a riportare un decalogo del perché andare all'estero potrebbe non essere la scelta ottimale:
1. La lingua. Altrove si parla un'altra lingua, che per quanto possiate parlare (o credere di parlare) bene, rimane comunque una lingua straniera. Se vi sentite pronti ad affrontare i primi colloqui o le prime avventure tra accenti maldestri e verbi mal coniugati, provate a pensarvi la prima settimana in un ospedale, perché qualcosa del genere può sempre succedere nelle coincidenze incaute della vita, e pensate a dover descrivere le parti del corpo che vi fanno male (quelle per cui non è facile risolvere tutto in un qui, là, questa cosa) o i sintomi (vi brucia? vi preme? vi tira?). Certo oggi è tutto più facile, ma bisogna anche avere fortuna, siete pronti?
2. Lo shock culturale. Un altro paese è un altro paese, altri modi di fare, di essere, di vivere, e questi modi vi potrebbero sembrare tutti sbagliati, vittime dello shock culturale, quando si perdono i punti di riferimento e dopo un periodo estasiante da foglio bianco dovuto al cambio, vi potreste ritrovare in un umori grigi tra rifiuti e lamenti, rigettando il diverso che vi circonda all'estero. Ci vuole comprensione, autocritica e voglia di capire. Pronti?
3. Le reti sociali. E non quelle virtuali, ma di amicizie e conoscenze reali. In un paese straniero le reti sociali sono da ricostruire totalmente e se non si hanno già degli amici sul posto, non sempre è facilissimo crearsi un proprio gruppo, soprattutto con i locali, già impegnati nelle proprie reti sociali come voi lo sareste in patria, o con i colleghi, spesso non coetanei e magari restii a rapporti extra-lavorativi. Corsi di lingua, vita mondana, coincidenze, possono aiutare, con un po' di fortuna, pazienza, voglia di conoscere. Siete pronti?
4. Il tuo paese, visto da fuori. Uscire e vedersi da fuori non è semplice e non sempre l'effetto fa piacere. Sgretolare convinzioni secolari, punti fermi figli di educazione nazionale o propaganda unilaterale, può lasciare un senso di smarrimento ma anche difesa, avendo l'impressione che un attacco, una critica o un commento non siano diretti al paese ma a voi. Ci saranno differenze tra il paese reale e quello percepito e non reagire sempre a spada tratta non è facile. Siete pronti a voler conoscere un altro paese, il vostro?
5. Gli stereotipi. Ritrovarsi a rappresentare l'Italia tutta, tu, in una sola persona, in conversazioni o rapporti con stranieri, significa anche avere una certa responsabilità, nel confermare o contraddire gli stereotipi con cui gli italiani sono visti dagli occhi altrui e diventare una finestra su un paese che attraverso voi non sarà sicuramente pizza, sole e mandolino, ma non sarà neanche quello reale, perché voi non siete l'Italia tutta né probabilmente la conoscete tutta, voi siete voi, solo che gli altri spesso non lo sanno e vi confondono con un italiano. Siete pronti anche voi a muovere la testa e non solo il corpo?
6. Il lamento. Potreste trasformarvi in un lamento continuo, perché il clima non è ideale, perché i trasporti non sono come immaginati, perché il lavoro è un compromesso, perché il cibo non vi piace, perché non c'è mamma a cucinarvi e perché fuori anche le piccole cose, quelle una volta etichettate come insignificanti, possono avere un peso nella bilancia quotidiana quando si rompono gli schemi e con essi le abitudini e bisogna ricostruire un po' tutto. E se il lamento non viene da voi, potrebbe venire da vostri connazionali all'estero. Ci vuole resistenza, pazienza e serenità. Pronti?
7. I ritorni a casa. Tornando a casa ci sarà una voce che prima non esisteva nella testa, quella del confronto. Tutto sarà un confronto, nuovo, perché finalmente si ha un termine di paragone. I ritorni a casa, insomma, non saranno mai più gli stessi, rimettendo in discussione molto di quello che precedentemente rappresentava il vostro intorno abituale in un equilibrio oramai rotto. E le vacanze non saranno mai vacanze. Pronti a non sentirvi a vostro agio a casa?
8. I commenti. Diventare italiano all'estero significa anche portarsi dietro una certa lista di etichette, a cui bene o male ci si può abituare con risposte pronte o spallucce veloci. Ci sarà sempre il genio di turno a commentarvi come vigliacco, perché è facile partire e lasciare tutto, è facile criticare il proprio paese da fuori, perché (d'improvviso) non si conosce più il paese non vivendoci realmente o a denigrare il paese da cui venite ed una qualità di vita che non può, in nessun modo, essere superiore a quella italiana. E tante altre storielle che ritroverete puntualmente tra ritorni e chat. Sinceramente, chi ve lo fa fare?
9. Le mancanze. Ci sarà sempre quel momento, quello in cui manca una piazza, una panchina, il sorriso di un amico, la carezza della famiglia o il piatto della nonna, è il problema dell'emigrante, e con esso la voglia di ritornare, il rimorso di non aver fatto quello anziché questo. E ancora, ci sarà la mancanza di quel passato comune di voi verso gli altri e viceversa, quello che solo una cultura comune può costruire e che non troverete in amici stranieri e potrebbe portare rapporti sociali non più lontano di un certo limite. Ve la sentite?
10. Il limbo. Partire è un po' morire, dicono, e infatti qualcosa muore mentre altro nasce. Partire significa perdere qualcosa della propria nazionalità e guadagnarne un'altra, di cosa, che non ha nazionalità, o le ha tutte. Diventare uno straniero ovunque può però avere effetti collaterali, come non sentir nessun luogo proprio, sentirsi a disagio nell'intorno natio o cadere nella voglia di voler cambiar luogo ogni anno, continuamente, alla ricerca di se stessi quando il signor Se stessi è con voi, basta solo fermarsi ed ascoltarlo. Sicuri di voler iniziare?
Detto questo, la felicità è soprattutto dove vivi. Appena (e se) potete però, fate la valigia e andate via, almeno per un po', male non vi farà.
1. La lingua. Altrove si parla un'altra lingua, che per quanto possiate parlare (o credere di parlare) bene, rimane comunque una lingua straniera. Se vi sentite pronti ad affrontare i primi colloqui o le prime avventure tra accenti maldestri e verbi mal coniugati, provate a pensarvi la prima settimana in un ospedale, perché qualcosa del genere può sempre succedere nelle coincidenze incaute della vita, e pensate a dover descrivere le parti del corpo che vi fanno male (quelle per cui non è facile risolvere tutto in un qui, là, questa cosa) o i sintomi (vi brucia? vi preme? vi tira?). Certo oggi è tutto più facile, ma bisogna anche avere fortuna, siete pronti?
2. Lo shock culturale. Un altro paese è un altro paese, altri modi di fare, di essere, di vivere, e questi modi vi potrebbero sembrare tutti sbagliati, vittime dello shock culturale, quando si perdono i punti di riferimento e dopo un periodo estasiante da foglio bianco dovuto al cambio, vi potreste ritrovare in un umori grigi tra rifiuti e lamenti, rigettando il diverso che vi circonda all'estero. Ci vuole comprensione, autocritica e voglia di capire. Pronti?
3. Le reti sociali. E non quelle virtuali, ma di amicizie e conoscenze reali. In un paese straniero le reti sociali sono da ricostruire totalmente e se non si hanno già degli amici sul posto, non sempre è facilissimo crearsi un proprio gruppo, soprattutto con i locali, già impegnati nelle proprie reti sociali come voi lo sareste in patria, o con i colleghi, spesso non coetanei e magari restii a rapporti extra-lavorativi. Corsi di lingua, vita mondana, coincidenze, possono aiutare, con un po' di fortuna, pazienza, voglia di conoscere. Siete pronti?
4. Il tuo paese, visto da fuori. Uscire e vedersi da fuori non è semplice e non sempre l'effetto fa piacere. Sgretolare convinzioni secolari, punti fermi figli di educazione nazionale o propaganda unilaterale, può lasciare un senso di smarrimento ma anche difesa, avendo l'impressione che un attacco, una critica o un commento non siano diretti al paese ma a voi. Ci saranno differenze tra il paese reale e quello percepito e non reagire sempre a spada tratta non è facile. Siete pronti a voler conoscere un altro paese, il vostro?
5. Gli stereotipi. Ritrovarsi a rappresentare l'Italia tutta, tu, in una sola persona, in conversazioni o rapporti con stranieri, significa anche avere una certa responsabilità, nel confermare o contraddire gli stereotipi con cui gli italiani sono visti dagli occhi altrui e diventare una finestra su un paese che attraverso voi non sarà sicuramente pizza, sole e mandolino, ma non sarà neanche quello reale, perché voi non siete l'Italia tutta né probabilmente la conoscete tutta, voi siete voi, solo che gli altri spesso non lo sanno e vi confondono con un italiano. Siete pronti anche voi a muovere la testa e non solo il corpo?
6. Il lamento. Potreste trasformarvi in un lamento continuo, perché il clima non è ideale, perché i trasporti non sono come immaginati, perché il lavoro è un compromesso, perché il cibo non vi piace, perché non c'è mamma a cucinarvi e perché fuori anche le piccole cose, quelle una volta etichettate come insignificanti, possono avere un peso nella bilancia quotidiana quando si rompono gli schemi e con essi le abitudini e bisogna ricostruire un po' tutto. E se il lamento non viene da voi, potrebbe venire da vostri connazionali all'estero. Ci vuole resistenza, pazienza e serenità. Pronti?
7. I ritorni a casa. Tornando a casa ci sarà una voce che prima non esisteva nella testa, quella del confronto. Tutto sarà un confronto, nuovo, perché finalmente si ha un termine di paragone. I ritorni a casa, insomma, non saranno mai più gli stessi, rimettendo in discussione molto di quello che precedentemente rappresentava il vostro intorno abituale in un equilibrio oramai rotto. E le vacanze non saranno mai vacanze. Pronti a non sentirvi a vostro agio a casa?
8. I commenti. Diventare italiano all'estero significa anche portarsi dietro una certa lista di etichette, a cui bene o male ci si può abituare con risposte pronte o spallucce veloci. Ci sarà sempre il genio di turno a commentarvi come vigliacco, perché è facile partire e lasciare tutto, è facile criticare il proprio paese da fuori, perché (d'improvviso) non si conosce più il paese non vivendoci realmente o a denigrare il paese da cui venite ed una qualità di vita che non può, in nessun modo, essere superiore a quella italiana. E tante altre storielle che ritroverete puntualmente tra ritorni e chat. Sinceramente, chi ve lo fa fare?
9. Le mancanze. Ci sarà sempre quel momento, quello in cui manca una piazza, una panchina, il sorriso di un amico, la carezza della famiglia o il piatto della nonna, è il problema dell'emigrante, e con esso la voglia di ritornare, il rimorso di non aver fatto quello anziché questo. E ancora, ci sarà la mancanza di quel passato comune di voi verso gli altri e viceversa, quello che solo una cultura comune può costruire e che non troverete in amici stranieri e potrebbe portare rapporti sociali non più lontano di un certo limite. Ve la sentite?
10. Il limbo. Partire è un po' morire, dicono, e infatti qualcosa muore mentre altro nasce. Partire significa perdere qualcosa della propria nazionalità e guadagnarne un'altra, di cosa, che non ha nazionalità, o le ha tutte. Diventare uno straniero ovunque può però avere effetti collaterali, come non sentir nessun luogo proprio, sentirsi a disagio nell'intorno natio o cadere nella voglia di voler cambiar luogo ogni anno, continuamente, alla ricerca di se stessi quando il signor Se stessi è con voi, basta solo fermarsi ed ascoltarlo. Sicuri di voler iniziare?
Detto questo, la felicità è soprattutto dove vivi. Appena (e se) potete però, fate la valigia e andate via, almeno per un po', male non vi farà.
Dublino di notte
*Pochi gatti, pochi cani randagi per le strade vecchie del city center, magari perché mal sopportano il freddo, poco scivola la pioggia lieve fermandosi nel pelo increspato o forse perché le nubi continue celano una madre luna a cui dedicare cerimonie e danze notturne, subito confuse al rumore di bicchieri, risate e chiacchiere, quando la porta di un pub si apre d'improvviso e l'uomo allegro di turno accende una sigaretta lasciando l'alone del suo fiato caldo nell'aria, alle sue spalle brindisi euforici, qualche pinta si frantuma al pavimento mentre intorno riecheggiano le note di musiche celtiche. La città non prende sonno mentre un artista di strada le intona la sua serenata lavorativa, chiude gli occhi e libera la voce in una manciata di parole oramai sue mentre passanti si fermano in cerchi sparsi, qualcuno brillo già danza intorno diffondendo calore e sorrisi a chi passa anche solo di sfuggita, camminando veloce nel suo destino a respirare e dietro s'intravede l'uomo senza tetto organizzare i suoi cartoni, fogli di giornali, ricordi di normalità, e prepararsi all'ennesima fredda dormita. Da lontano le urla di turisti in gruppo a festeggiare s'uniscono alle facce delle mille Dublino notturne, qualcuno si ferma giusto all'angolo vicino per buttar via i litri di pinte di birra e qualche delusione recente o soltanto il sapore amaro di un pensiero mal digerito, appena nei pressi delle due ragazze frettolose su tacchi maldestri, in attesa di un taxi e del rifugio nel proprio cuscino, sporche ancora di un bacio veloce, quando la Spire da lontano già punta inesorabile al cielo, salutando in benvenuto l'imminente nuovo giorno.
*questo post lo scrissi il 27-11-2008 su quel blog diario dublinese che non c'è più, perché troppo personale e odioso, però ho voluto ripescarlo, il post, dopo un rientro recente nella capitale irlandese, perché Dublino di notte è così ed è così che me ne innamorai. Non t'arrabbiare, Bruxelles.
*questo post lo scrissi il 27-11-2008 su quel blog diario dublinese che non c'è più, perché troppo personale e odioso, però ho voluto ripescarlo, il post, dopo un rientro recente nella capitale irlandese, perché Dublino di notte è così ed è così che me ne innamorai. Non t'arrabbiare, Bruxelles.
L'importanza dell'essere bassi
Quando ti ritrovi nella sala del concerto e le persone iniziano a distribuirsi accompagnate da sorrisi ansiosi, c'è l'amico tedesco che padroneggia dall'alto dei suoi due metri e non si preoccupa troppo del dove andare. Tu lo guardi e per guardarlo devi aiutarti con il collo, devi alzare gli occhi al cielo, dal basso del tuo metroesettantappena, lo guardi e pensi Ma quanto sei alto, tu, non ti vergogni? Non è simpatico far sentir bassi gli altri. Facile, per lui, ai concerti, non c'è mica bisogno di trovarsi un varco tra la folla, cercare di arrivare tra le prime file o cambiare sistematicamente posizione quando l'orizzonte diventa la testa di qualcuno, qualcuno magari alto proprio come l'amico tedesco. Ecco, è per questo che tu non vorresti mai essere così alto, pensi, perché il solo pensiero di poter dar fastidio agli altri, quelli dietro, che vorrebbero godersi il concerto, che vorrebbero guardare qualcosa, ma son bassi, loro, e tu saresti alto, ecco il solo pensiero di molestare gli altri per qualcosa che non potresti cambiare, per qualcosa che saresti, molesterebbe pure te. Meglio essere bassi, allora, che in qualche modo si arriva sempre a guardarlo, il concerto, trovare un buco, una traiettoria risolutiva che illumini le pupille, con la consapevolezza di non rompere le palle a nessuno, dal basso, per quell'indissolubile mancanza d'un egoismo quasi innocuo ma che finirebbe col lasciarti quel senso di molestia, che tu, se fossi alto, avresti sicuramente, ad un concerto. Ma sei basso, per fortuna. Certo, avrà anche i suoi vantaggi, esser alti come l'amico tedesco, dall'alto dei suoi due metri, lui, potrebbe scrutare i pensieri dei calvi, scovare tutte le sbirciate cadute tra scollature ipnotiche o far sentire basse quelle basse che però s'aiutano con tacchi insensati evidenziando maggiormente il loro esser basse. Ma sono altre storie, quelle lì. Ai concerti, meglio essere bassi.
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