Poi ti ritrovi a sorseggiare una birra artigianale belga al mercato del lunedì di place Maurice van Meenen, lì sotto il bellissimo municipio di Saint-Gilles, dove tra l'altro ti sei pure sposato, mentre la folla s'accalca, si muove, si mescola, chi con una birra, chi con un bicchiere di vino, chi in fila per una piadina romagnola, chi per un crepe marocchina, c'è una banda musicale di signori già abbastanza anziani che suona per il mero gusto di suonare e diffondere allegria, c'è il ragazzo francese delle crepe bretone che ti riconosce perché eri lì al mercato del venerdì di place des Chasseurs Ardennais dove normalmente lo ritrovavi ed eri lì al mercato del giovedì della place Victor Horta vicino Gare du Midi dove lo hai incontrato diverse volte per pranzo, lo dici alle persone in fila, che lui è un artista della crepe, non li conosci ma ci si conosce tutti lì, facciamo tutti parte del villaggio globale, non li conosci ma cosa importa poi, siamo in quella parte di Bruxelles dove troppe formalità non piacciono a nessuno. Poi, mentre brindi per la seconda birra artigianale e la banda passa, trombetta, sviolina, tamburella, ti accorgi che proprio a un metro da te, lì di fronte, con una birra in mano c'è Charles Piqué, sindaco di Saint-Gilles e ministro-presidente uscente della Regione di Bruxelles, non ci credi, ne sei convinto, è proprio lui, ne mostri la pagina wikipedia all'amico che non ti segue mentre determinato gli vai vicino, lo interrompi, ti presenti, che sei italiano ma che vivi a Bruxelles da più di 5 anni, che ti sei sposato proprio lì e che vivi nel suo comune da oramai più di 3 anni e che lo vuoi ringraziare, grazie signor sindaco, grazie davvero, per tutto quello fatto finora, per quello che seguirà, perché l'adori quell'atmosfera lì, perché sei felice ed è anche merito suo, ti chiede dove abiti, cosa fai, ha il sorriso dei manifesti elettorali, ti stringe la mano ma tu lo vorresti quasi abbracciare, grazie e scusate per l'interruzione, grazie e scusate per il disturbo, buona continuazione e per l'emozione o per le birre sbagli anche due accenti francesi e una coniugazione.
Poi, non dovresti pensarlo ma ti salta in testa la connessione, non dovresti far confronti ma tra un singhiozzo di malto e una memoria che risale a galla pensi a quando vivevi in Campania, all'ipotesi di un possibile incontro con il presidente della regione, quel tal Bassolino, pensi: lo avresti mai ringraziato? E no che non lo avresti fatto, ti ripeti, mentre l'immagine già viene archiviata e nuove chiacchiere, nuovi sorrisi s'accavallano nel mercato, mentre pensi che più che un grazie sarebbe stata un altro il saluto, molto più tipico e sincero, ma il passato non c'è più, ti ricordi, è il presente che merita attenzione.
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Restez chez vous
C'è un video di qualche giorno fa che parla tanto di Bruxelles, invitando gli stranieri a restare a casa loro, perché la città ha raggiunto il punto di saturazione, perché non può più accogliere degnamente altri immigranti, perché è razzista, sporca, povera, eppoi - addirittura - perché piove sempre, i treni son sempre in ritardo e - qui si arriva al dunque - si mangia tanta carne di porco, il cui grasso è usato anche per fare i dolci e quindi, se per qualche ragione si ha la fobia di quel tipo di carne, meglio non venire a Bruxelles. Il video purtroppo non è un pesce d'aprile (o ne usa il pretesto per diffondere il suo chiaro messaggio) ed è ad opera del Vlaams Belang, un gruppo estremista fiammingo che potrebbe essere accostato alla Lega per spirito di separatismo e un po' di folklorismo e di cui non varrebbe nemmeno la pena parlare, se non fosse che appena qualche anno fa raggiungeva il 34% tra i fiamminghi a Bruxelles, il 24% nel nord del Belgio (con quasi 40% ad Anversa), per poi essersi quasi dissolto o in parte assorbito dal N-VA, il gruppo che due anni fa vinse le elezioni in Belgio ma che poi, al termine della famosa crisi di governo, si è ritrovato all'opposizione.
Che il boom migratorio e demografico a Bruxelles potesse generare sentimenti e reazioni di questo tipo, era probabilmente prevedibile, soprattutto quando fenomeni moderni s'intrecciano con diatribe locali tra nord e sud che spesso spingono l'ennesimo titolone di giornale sulla possibilità di sfaldamento del paese. E basta leggere qualche commento sui maggiori siti di informazione belgi - che non rappresentano la totalità del paese, ma è pur sempre un campione statistico - a notizie di cronaca e statistiche, per trovare spunti di razzismo, islamofobia e quel malessere tipico di chi accusa l'immigrato, sempre e comunque, o che se ne serve platealmente come capro espiatorio per la soddisfazione di uno sfogo quotidiano. No, non bisogna fare i tacchini, e riassumere tutto in un i belgi son razzisti: i belgi son abituati a dimensioni moderate, a considerare megalopoli quel villaggio globale che è Bruxelles, a coltivare un menefreghismo un po' innocuo un po' mediterraneo del nord Europa, il famoso jemenfoutisme, che però poi viene ripreso e ampliato da qualche forestiero, connesso maldestramente a qualche statistica sulla quinta capitale più pericolosa d'Europa e qualche culmine di tensione come quello di Molenbeek di qualche mese fa, ed ecco che il populismo fa breccia e coltiva intolleranza, che se rimane ai livelli di video di questo genere - alla stregua di un pesce d'aprile - non dovrebbe preoccupare, ma che è bene non ignorare, perché la crisi è un'ottima cassa di risonanza per certi sentimenti e perché, nonostante la gara al prossimo fallimento e le vampate di identità territoriali e protagonismi sterili, ci sarebbe anche un'Europa da costruire, soprattutto a Bruxelles.
Che il boom migratorio e demografico a Bruxelles potesse generare sentimenti e reazioni di questo tipo, era probabilmente prevedibile, soprattutto quando fenomeni moderni s'intrecciano con diatribe locali tra nord e sud che spesso spingono l'ennesimo titolone di giornale sulla possibilità di sfaldamento del paese. E basta leggere qualche commento sui maggiori siti di informazione belgi - che non rappresentano la totalità del paese, ma è pur sempre un campione statistico - a notizie di cronaca e statistiche, per trovare spunti di razzismo, islamofobia e quel malessere tipico di chi accusa l'immigrato, sempre e comunque, o che se ne serve platealmente come capro espiatorio per la soddisfazione di uno sfogo quotidiano. No, non bisogna fare i tacchini, e riassumere tutto in un i belgi son razzisti: i belgi son abituati a dimensioni moderate, a considerare megalopoli quel villaggio globale che è Bruxelles, a coltivare un menefreghismo un po' innocuo un po' mediterraneo del nord Europa, il famoso jemenfoutisme, che però poi viene ripreso e ampliato da qualche forestiero, connesso maldestramente a qualche statistica sulla quinta capitale più pericolosa d'Europa e qualche culmine di tensione come quello di Molenbeek di qualche mese fa, ed ecco che il populismo fa breccia e coltiva intolleranza, che se rimane ai livelli di video di questo genere - alla stregua di un pesce d'aprile - non dovrebbe preoccupare, ma che è bene non ignorare, perché la crisi è un'ottima cassa di risonanza per certi sentimenti e perché, nonostante la gara al prossimo fallimento e le vampate di identità territoriali e protagonismi sterili, ci sarebbe anche un'Europa da costruire, soprattutto a Bruxelles.
Dicono che il Belgio sia un'illusione
Ritorna il tema della scissione e addirittura del piano B di separazione mai scartato, a quanto pare, tra una battuta un po' infelice un po' provocatoria del Presidente della Regione di Bruxelles. Siamo sempre alla non nazione, al paese del surrealismo, ma ci piace anche per questo. Ecco come commenta la dichiarazione del giorno un blogger belga:
Il Belgio è un'illusione. E' quello che avrebbe dichiarato il Ministro-Presidente della Regione di Bruxelles questa mattina. Ed è vero. Quando si arriva all'aeroporto, non c'è scritto da nessuna parte che siamo in Belgio. Siamo in "Vallonia", nelle "Fiandre" o a "Bruxelles", ma non in Belgio. E non è prendendo la navetta verso Schuman che la questione si risolve. Lì si ascoltano tutte le lingue d'Europa. Difficile dire dove siamo esattamente. Capita lo stesso alla frontiera francese. A parte un piccolo pannello e lo stato dell'autostrada che degrada all'improvviso, niente indica che si è in Belgio. Eppure, il Belgio esiste, qualche volta. Appare in un lampo e scompare con la stessa rapidità. Ci sono degli instanti belgi, furtivi, come delle stelle cadenti. I diavoli rossi (la nazionale di calcio belga) vincono una partita. Un autobus s'incendia in un tunnel. Delle richiamate all'ordine, felici o meno, e siamo tutti belgi. Ma è qualcosa che non dura mai a lungo. E' questo il Belgio? No, deve essere un'illusione. In fondo, Charles Picqué ha appena inventato probabilmente il miglior slogan di marketing per il paese: il Belgio è un'illusione. Non avevamo trovato nulla di meglio dal "Il Belgio evapora", un invito per i turisti del mondo intero a venire a visitare un'ultima volta, prima che non sia troppo tardi, questo paese immaginario.
Il Belgio è un'illusione. E' quello che avrebbe dichiarato il Ministro-Presidente della Regione di Bruxelles questa mattina. Ed è vero. Quando si arriva all'aeroporto, non c'è scritto da nessuna parte che siamo in Belgio. Siamo in "Vallonia", nelle "Fiandre" o a "Bruxelles", ma non in Belgio. E non è prendendo la navetta verso Schuman che la questione si risolve. Lì si ascoltano tutte le lingue d'Europa. Difficile dire dove siamo esattamente. Capita lo stesso alla frontiera francese. A parte un piccolo pannello e lo stato dell'autostrada che degrada all'improvviso, niente indica che si è in Belgio. Eppure, il Belgio esiste, qualche volta. Appare in un lampo e scompare con la stessa rapidità. Ci sono degli instanti belgi, furtivi, come delle stelle cadenti. I diavoli rossi (la nazionale di calcio belga) vincono una partita. Un autobus s'incendia in un tunnel. Delle richiamate all'ordine, felici o meno, e siamo tutti belgi. Ma è qualcosa che non dura mai a lungo. E' questo il Belgio? No, deve essere un'illusione. In fondo, Charles Picqué ha appena inventato probabilmente il miglior slogan di marketing per il paese: il Belgio è un'illusione. Non avevamo trovato nulla di meglio dal "Il Belgio evapora", un invito per i turisti del mondo intero a venire a visitare un'ultima volta, prima che non sia troppo tardi, questo paese immaginario.
Un governo in Belgio, F.A.Q.
Dove eravamo rimasti?
Praticamente dal 13 giugno 2010 (ultime elezioni in Belgio) la formazione del nuovo governo ha preso più tempo del previsto, tanto da assegnare il record assoluto di paese senza governo per il maggior lasso di tempo, anche se c'è bisogno di chiarire una cosa: la notizia "il Belgio non ha un governo da un anno e mezzo" non è propriamente corretta, perché un governo nel frattempo c'è stato, quello temporaneo guidato dal primo ministro uscente. La notizia corretta dovrebbe essere "in Belgio la formazione di un nuovo governo sta impiegando più di un anno e mezzo", altrimenti c'è chi pensa che qui possa regnare l'anarchia, cosa praticamente impossibile vista la tela di comunità e decentralizzazione di alcuni poteri.
Perché tutto questo tempo?
Perché il Belgio è il paese del surrealismo, ma anche perché si era chiesto di creare un governo alle due parti vittoriose dopo le elezioni, rispettivamente di destra a nord (nelle Fiandre) e di sinistra a sud (in Vallonia), insieme, cosa alquanto impossibile. La differenza profonda di vedute e di interessi, la divisione culturale tra olandofoni e francofoni e la delicata questione degli interessi linguistici ed economici intorno alla regione di Bruxelles hanno creato diversi momenti di stallo e sconforto per il re che ha dovuto cambiare più di una volta nomine di formatori, ispettori, mediatori, informatori per il nuovo governo. I cittadini hanno manifestato il proprio disappunto, senza però influenzare in modo decisivo la situazione.
Cosa è successo di recente?
Finalmente il punto chiave della rottura è stato risolto lo scorso 11 ottobre 2011, quando dalle trattative è stato escluso il partito che aveva vinto le elezioni al nord e si è giunti ad un accordo sulla questione dei diritti giudiziari ed elettorali della famosa BHV, un insieme di comuni in cui una maggioranza linguistica non aveva alcuni diritti altrove evidenti, ma il Belgio si sa è un paese abbastanza complesso.
Eppoi cosa è cambiato?
Il nodo cruciale è stato sciolto eppure una nuova situazione di stallo si è creata sull'approvazione della nuova finanziaria. Il formatore ed acclamato eroe fino a quel momento, Elio Di Rupo, ha consegnato le proprie dimissioni al re, deluso ed incapace di andare avanti con i partiti coinvolti fino a quel momento. In un oramai famoso editoriale de Le Soir, il maggiore giornale francofono belga, si legge addirittura che s'impone a questo punto la separazione del paese. Per molti invece le dimissioni son state soltanto un modo di far pressione sui partiti in modo da accelerare le trattative, viste anche le pressioni dei mercati.
Infatti, i mercati come commentavano la situazione in Belgio?
La lentezza della formazione del nuovo governo ha suscitato più volte l'interesse dei mercati, visto anche il grande debito pubblico del paese, etichettando il Belgio come il prossimo paese, dopo l'Italia, prossimo ad una crisi economica. Il governo temporaneo non poteva approvare la finanziaria, avendo poteri limitati, eppure il primo ministro uscente, Laterme, è riuscito in un quasi miracolo, chiedendo al popolo belga di acquistare quanti più titoli di stato e così è stato: record storico, 4.5 miliardi di euro son stati incassati dallo stato, prestati dal proprio popolo. Questo ovviamente non tampona il debito ma rassicura sicuramente da eventuali pressioni dei mercati, almeno per il momento.
Torniamo alle dimissioni. Cosa è successo poi?
Come previsto da molti, la strategia delle pressioni ha funzionato ed ecco che il 26 novembre è sbocciato l'accordo sulla nuova finanziaria, Di Rupo ha ritirato le proprie dimissioni (sospese dal re con riserva) e si appresta ad essere il primo premier vallone da più di 30 anni in Belgio. La crisi, salvo eventuali catastrofi dell'ultima ora, è terminata: per il 5 dicembre è previsto un nuovo governo in Belgio.
Finalmente! Beh, tutto bene quel che finisce bene, no?
Vedremo. La prima sfida di questo governo sarà sicuramente durante tanto quanto ci ha messo per formarsi. E non è poco. Inoltre, sono già scoppiate le polemiche sui problemi linguistici di Di Rupo: in Belgio il primo ministro dovrebbe essere linguisticamente neutro, parlando bene sia il francese che l'olandese, mentre il futuro designato ha carenze palesi con l'olandese (e anche con l'inglese), addirittura peggio della donna delle pulizie nigeriana di De Wever - secondo lui - da appena due anni in Belgio. Sarà sicuramente un'eccezione su cui molti passeranno, visto il periodo di crisi, ma che sarà una forza in più dell'opposizione, guidata inoltre proprio da colui che le elezioni le aveva vinte in giugno, De Wever. Quindi non si preannuncia per nulla un clima politico di serenità. Ad ogni modo, sì, finalmente!
Praticamente dal 13 giugno 2010 (ultime elezioni in Belgio) la formazione del nuovo governo ha preso più tempo del previsto, tanto da assegnare il record assoluto di paese senza governo per il maggior lasso di tempo, anche se c'è bisogno di chiarire una cosa: la notizia "il Belgio non ha un governo da un anno e mezzo" non è propriamente corretta, perché un governo nel frattempo c'è stato, quello temporaneo guidato dal primo ministro uscente. La notizia corretta dovrebbe essere "in Belgio la formazione di un nuovo governo sta impiegando più di un anno e mezzo", altrimenti c'è chi pensa che qui possa regnare l'anarchia, cosa praticamente impossibile vista la tela di comunità e decentralizzazione di alcuni poteri.
Perché tutto questo tempo?
Perché il Belgio è il paese del surrealismo, ma anche perché si era chiesto di creare un governo alle due parti vittoriose dopo le elezioni, rispettivamente di destra a nord (nelle Fiandre) e di sinistra a sud (in Vallonia), insieme, cosa alquanto impossibile. La differenza profonda di vedute e di interessi, la divisione culturale tra olandofoni e francofoni e la delicata questione degli interessi linguistici ed economici intorno alla regione di Bruxelles hanno creato diversi momenti di stallo e sconforto per il re che ha dovuto cambiare più di una volta nomine di formatori, ispettori, mediatori, informatori per il nuovo governo. I cittadini hanno manifestato il proprio disappunto, senza però influenzare in modo decisivo la situazione.
Cosa è successo di recente?
Finalmente il punto chiave della rottura è stato risolto lo scorso 11 ottobre 2011, quando dalle trattative è stato escluso il partito che aveva vinto le elezioni al nord e si è giunti ad un accordo sulla questione dei diritti giudiziari ed elettorali della famosa BHV, un insieme di comuni in cui una maggioranza linguistica non aveva alcuni diritti altrove evidenti, ma il Belgio si sa è un paese abbastanza complesso.
Eppoi cosa è cambiato?
Il nodo cruciale è stato sciolto eppure una nuova situazione di stallo si è creata sull'approvazione della nuova finanziaria. Il formatore ed acclamato eroe fino a quel momento, Elio Di Rupo, ha consegnato le proprie dimissioni al re, deluso ed incapace di andare avanti con i partiti coinvolti fino a quel momento. In un oramai famoso editoriale de Le Soir, il maggiore giornale francofono belga, si legge addirittura che s'impone a questo punto la separazione del paese. Per molti invece le dimissioni son state soltanto un modo di far pressione sui partiti in modo da accelerare le trattative, viste anche le pressioni dei mercati.
Infatti, i mercati come commentavano la situazione in Belgio?
La lentezza della formazione del nuovo governo ha suscitato più volte l'interesse dei mercati, visto anche il grande debito pubblico del paese, etichettando il Belgio come il prossimo paese, dopo l'Italia, prossimo ad una crisi economica. Il governo temporaneo non poteva approvare la finanziaria, avendo poteri limitati, eppure il primo ministro uscente, Laterme, è riuscito in un quasi miracolo, chiedendo al popolo belga di acquistare quanti più titoli di stato e così è stato: record storico, 4.5 miliardi di euro son stati incassati dallo stato, prestati dal proprio popolo. Questo ovviamente non tampona il debito ma rassicura sicuramente da eventuali pressioni dei mercati, almeno per il momento.
Torniamo alle dimissioni. Cosa è successo poi?
Come previsto da molti, la strategia delle pressioni ha funzionato ed ecco che il 26 novembre è sbocciato l'accordo sulla nuova finanziaria, Di Rupo ha ritirato le proprie dimissioni (sospese dal re con riserva) e si appresta ad essere il primo premier vallone da più di 30 anni in Belgio. La crisi, salvo eventuali catastrofi dell'ultima ora, è terminata: per il 5 dicembre è previsto un nuovo governo in Belgio.
Finalmente! Beh, tutto bene quel che finisce bene, no?
Vedremo. La prima sfida di questo governo sarà sicuramente durante tanto quanto ci ha messo per formarsi. E non è poco. Inoltre, sono già scoppiate le polemiche sui problemi linguistici di Di Rupo: in Belgio il primo ministro dovrebbe essere linguisticamente neutro, parlando bene sia il francese che l'olandese, mentre il futuro designato ha carenze palesi con l'olandese (e anche con l'inglese), addirittura peggio della donna delle pulizie nigeriana di De Wever - secondo lui - da appena due anni in Belgio. Sarà sicuramente un'eccezione su cui molti passeranno, visto il periodo di crisi, ma che sarà una forza in più dell'opposizione, guidata inoltre proprio da colui che le elezioni le aveva vinte in giugno, De Wever. Quindi non si preannuncia per nulla un clima politico di serenità. Ad ogni modo, sì, finalmente!
Breaking news
Vi ricordate la storia della matematica, delle scimmie e del Belgio? Ecco, ci rinuncio. La nuova teoria è che una scimmia all'infinito battendo tasti a caso su una tastiera potrebbe anche scrivere tutta la Divina Commedia e tutte le opere letterarie di questo mondo, grazie alla potenza e al fascino del caos, e allo stesso modo scegliendo a caso parti politiche e programmi potrebbe anche formare il governo migliore in qualsiasi paese del mondo, ovunque, ma non in Belgio, mi dispiace prof, ma qui in Belgio salta anche la legge dei grandi numeri, se insegnaste ancora, caro prof, vi toccherebbe darla quella mezzora in più al compito di matematica, adesso, che agli studenti queste cose non sfuggono mai, son furbi quelli lì, che nei bagni della scuola finirebbero per scrivere addirittura W il Belgio!, forse pure con due g, mentre quello, il Belgio, continuerebbe a star così, in cerca di una propria identità.
Il discorso nazionale, alla non nazione
Così domani il Belgio sarà fuochi e parate per la festa nazionale, anniversario dell'indipendenza, un po' come il 14 luglio dei vicini francesi ma meno patriottico e sciovinista, che loro, i francesi, ridono spesso dei vicini belgi, quando ascoltano qualche espressione in francese che risente d'inglese o d'olandese, quasi un sacrilegio, per loro, che il francese è di Francia e tutti gli altri son scolari, somari. Eppoi il Belgio, si sa, è il paese del surrealismo, dicono, che dopo 400 e più giorni senza governo dalle ultime elezioni tutti si chiedono cosa mai dirà il re alla nazione durante l'annuale discorso, che finora ha nominato dieci e più responsabili per risolvere la crisi tra i partiti ma è difficile dividersi le fette di potere quando la torta ha due ricette, una fiamminga e l'altra vallona, e in più al centro la ciliegina brussellese fa gola a tutti ma resta amara, non solo in gola. E il re dovrà parlare di nazione ed unità, proprio il re, che guai a chiamarlo Re del Belgio, che lui è il Re dei Belgi e non del Belgio, perché la monarchia qui fu una monarchia popolare, che non c'era nessun monarca quando i belgi, proprio quel 21 luglio 1831, ne elessero il primo ottenuta l'indipendenza, e ne elessero uno tedesco, neanche belga, che divenne quindi il re dei belgi. E proprio lui, non lo stesso del 1831, ovviamente, ma il re dei belgi attuale, nato proprio in quel di Bruxelles, dovrà parlare di nazione, d'identità ed unità a quel popolo elettore che 400 e più giorni fa ha votato per un governo che ancora non c'è, ha visto vincere un partito dall'umore separatista, è sceso in piazza gridando vergogna, vanta un nuovo record del mondo non proprio da elogiare e ancora si domanda semmai ci sarà soluzione o rottura, magari in attesa di una parola consolatrice, uno spunto emozionale da quel re che li rappresenta, anche se quando parla olandese fa sorridere per l'accento - dice il collega belga, del nord, ovviamente - e ha sempre quell'espressione un po' triste un po' solenne, da giorni al centro di previsioni, vignette e scommesse, per capire cosa mai dirà nel suo discorso nazionale a quella che per molti appare come una non nazione, magari riassunta proprio in un quadro del loro celebre Magritte. Maestro del surrealismo, appunto.
Le scimmie, la matematica e il Belgio
Quando al liceo il prof di matematica ci consegnava i fogli per il compito in classe, quello sempre difficile, c'era sempre chi chiedeva quanto tempo ci fosse concesso, anche se si sapeva, anche se era sempre lo stesso, ma al prof piaceva ripeterlo, con un'espressione quasi di soddisfazione, e lo ripeteva, mai stanco. Però poi c'era sempre qualcuno che chiedeva quella mezzora in più, addirittura quell'ora in più, perché era difficile, perché gli integrali o le serie o i limiti e l'infinito, ma il tempo, quello lì, non poteva andare all'infinito e il prof lo sapeva bene (lo sapevamo bene anche noi, ma a ognuno la sua parte da recitare) e puntualmente risuonava quella sua frase "anche una scimmia riuscirebbe a passare questo compito di matematica, se avesse tutta l'eternità per farlo, la vostra bravura (e la vostra distinzione dalla scimmia) sta anche nel finirlo in 2 ore". E se poi qualcuno proprio non ci credeva, via con la storiella che all'infinito una scimmia potrebbe scrivere la Divina Commedia (e tutti i testi in tutte le lingue del mondo, incluso questo post) soltanto battendo a caso lettere su una tastiera. Il fascino del caso, che poi è un anagramma di caos, ma è solo un caso.
E un anno fa i belgi furono chiamati al voto, perché cadde il governo per la terza crisi di governo in tre anni, e ci furono vincitori e sconfitti e il re, quel povero re che oramai non sa più che fare (o quale nome inventarsi per i mediatori) diede un compito a quella classe politica, di formare il nuovo governo, dopo che il popolo aveva deciso le coalizioni maggiori, un compito non facile, per carità, ma dovrebbero saperlo anche loro, che all'infinito anche una scimmia sarebbe capace di formare un governo, anche in Belgio.
E un anno fa i belgi furono chiamati al voto, perché cadde il governo per la terza crisi di governo in tre anni, e ci furono vincitori e sconfitti e il re, quel povero re che oramai non sa più che fare (o quale nome inventarsi per i mediatori) diede un compito a quella classe politica, di formare il nuovo governo, dopo che il popolo aveva deciso le coalizioni maggiori, un compito non facile, per carità, ma dovrebbero saperlo anche loro, che all'infinito anche una scimmia sarebbe capace di formare un governo, anche in Belgio.
Foto di un anno fa del Metro, la scattai senza rendermi conto che a un anno di distanza sarebbe stata ancora attuale, pensa te. |
F.A.Q. sulla crisi politica belga
Ma davvero il Belgio è detentore del record del mondo di paese da più tempo senza un governo?
In effetti l'Iraq, il precedente detentore, è riuscito a resistere 289 giorni senza governo ma dopo 248 avevano già l'accordo sulla formazione del governo. In Belgio il re Alberto II ha appena confermato la missione di mediatore fino ai primi di marzo al ministro dell'economia del precedente governo, non esiste nessun accordo al momento e la crisi non è state risolta dopo 249 giorni dalla sua apertura: è record del mondo. Complimenti.
Come mai non si riesce a risolvere la crisi politica in Belgio?
I diversi partiti francofoni e nederlandofoni, rappresentanti le due spaccature linguistiche e culturali del paese, non riescono ad accordarsi su alcuni punti cruciali sulla riforma federale, i finanziamenti alla regione di Bruxelles e la famosa questione dei comuni nei dintorni di Bruxelles (problemi di diritti linguistici). Alle ultime elezioni gli indipendentisti fiamminghi hanno vinto al nord mentre i socialisti francofoni hanno vinto al sud: due lingue e tanti interessi economici in ballo.
Cosa è stato fatto finora per risolvere la crisi?
In pratica il re Alberto II ha seguito prima la prassi nominando dopo le elezioni un ispettore per un resoconto sui risultati e le richieste dei vincitori, poi un pre-formatore di governo convinto che la cosa sarebbe stata semplice e breve, poi dei mediatori in modo da aprire un dialogo tra le due parti in scontro, poi un chiarificatore per capire a che punto s'era, poi un altro mediatore richiamando tutti i partiti in causa appigliandosi al buon senso ed infine ad un informatore tanto per cambiare nome allo sconfitto di turno. Nel frattempo il tempo passava e hanno battuto il record del mondo.
Ma nel frattempo come fa il paese ad andare avanti senza governo?
In realtà esiste un governo temporaneo retto dal primo ministro uscente a cui son stati conferiti alcuni poteri temporanei ed alcuni compiti delicati in modo da non congelare il paese durante la crisi. La vita continua regolarmente, per molti addirittura sembra non ci sia differenza con o senza governo mentre in realtà il debito pubblico alquanto alto e l'inesistenza di un potere decisionale forte scoraggia molti investitori stranieri esponendo l'economia del paese a rischi sempre maggiori.
E i belgi riescono a tollerare tutto ciò?
I belgi sono un popolo calmo, molto calmo. Alcune delle proteste più gettonate sono state finora: non radersi la barba fino alla formazione di un nuovo governo, non concedersi sessualmente ai politici coinvolti fino ad una risoluzione di una crisi, scatenare una rivoluzione delle patatine fritte cercando di mostrare il proprio sdegno, magari spogliandosi in piazza il giorno del record. Ecco, a parte questi moti irruenti, 35.000 belgi sono scesi in piazza un mesetto fa al fine di manifestare il loro disappunto. Grande affluenza, nessuna violenza, tanto entusiasmo ma nulla è cambiato.
La crisi politica potrebbe sfociare in una spaccatura del paese?
Sebbene questa ipotesi prenda sempre più piede sotto la tipica domanda "ma se parlano due lingue perché non si dividono?", la questione non è semplice a causa del forte debito pubblico e la gestione di Bruxelles, capitale e cuore economico del paese situata nella parte nord dove si parla fiammingo ma città a maggioranza francofona a causa della sua travagliata storia, nonché sede amministrativa di quell'Europa che vorrebbe unire ma forse cade a pezzi.
Cosa si prevede allora?
Una lunga attesa, mentre i politici si riuniscono periodicamente mentendosi a vicenda, guerreggiandosi a colpi di battute sterili e costringendo il re Alberto II ad inventarsi sempre nuovi nomi per l'arbitro di turno. Ottenuto il record, bisogna temporeggiare quanto più possibile, in modo da renderlo davvero imbattibile.
In effetti l'Iraq, il precedente detentore, è riuscito a resistere 289 giorni senza governo ma dopo 248 avevano già l'accordo sulla formazione del governo. In Belgio il re Alberto II ha appena confermato la missione di mediatore fino ai primi di marzo al ministro dell'economia del precedente governo, non esiste nessun accordo al momento e la crisi non è state risolta dopo 249 giorni dalla sua apertura: è record del mondo. Complimenti.
Come mai non si riesce a risolvere la crisi politica in Belgio?
I diversi partiti francofoni e nederlandofoni, rappresentanti le due spaccature linguistiche e culturali del paese, non riescono ad accordarsi su alcuni punti cruciali sulla riforma federale, i finanziamenti alla regione di Bruxelles e la famosa questione dei comuni nei dintorni di Bruxelles (problemi di diritti linguistici). Alle ultime elezioni gli indipendentisti fiamminghi hanno vinto al nord mentre i socialisti francofoni hanno vinto al sud: due lingue e tanti interessi economici in ballo.
Cosa è stato fatto finora per risolvere la crisi?
In pratica il re Alberto II ha seguito prima la prassi nominando dopo le elezioni un ispettore per un resoconto sui risultati e le richieste dei vincitori, poi un pre-formatore di governo convinto che la cosa sarebbe stata semplice e breve, poi dei mediatori in modo da aprire un dialogo tra le due parti in scontro, poi un chiarificatore per capire a che punto s'era, poi un altro mediatore richiamando tutti i partiti in causa appigliandosi al buon senso ed infine ad un informatore tanto per cambiare nome allo sconfitto di turno. Nel frattempo il tempo passava e hanno battuto il record del mondo.
Ma nel frattempo come fa il paese ad andare avanti senza governo?
In realtà esiste un governo temporaneo retto dal primo ministro uscente a cui son stati conferiti alcuni poteri temporanei ed alcuni compiti delicati in modo da non congelare il paese durante la crisi. La vita continua regolarmente, per molti addirittura sembra non ci sia differenza con o senza governo mentre in realtà il debito pubblico alquanto alto e l'inesistenza di un potere decisionale forte scoraggia molti investitori stranieri esponendo l'economia del paese a rischi sempre maggiori.
E i belgi riescono a tollerare tutto ciò?
I belgi sono un popolo calmo, molto calmo. Alcune delle proteste più gettonate sono state finora: non radersi la barba fino alla formazione di un nuovo governo, non concedersi sessualmente ai politici coinvolti fino ad una risoluzione di una crisi, scatenare una rivoluzione delle patatine fritte cercando di mostrare il proprio sdegno, magari spogliandosi in piazza il giorno del record. Ecco, a parte questi moti irruenti, 35.000 belgi sono scesi in piazza un mesetto fa al fine di manifestare il loro disappunto. Grande affluenza, nessuna violenza, tanto entusiasmo ma nulla è cambiato.
La crisi politica potrebbe sfociare in una spaccatura del paese?
Sebbene questa ipotesi prenda sempre più piede sotto la tipica domanda "ma se parlano due lingue perché non si dividono?", la questione non è semplice a causa del forte debito pubblico e la gestione di Bruxelles, capitale e cuore economico del paese situata nella parte nord dove si parla fiammingo ma città a maggioranza francofona a causa della sua travagliata storia, nonché sede amministrativa di quell'Europa che vorrebbe unire ma forse cade a pezzi.
Cosa si prevede allora?
Una lunga attesa, mentre i politici si riuniscono periodicamente mentendosi a vicenda, guerreggiandosi a colpi di battute sterili e costringendo il re Alberto II ad inventarsi sempre nuovi nomi per l'arbitro di turno. Ottenuto il record, bisogna temporeggiare quanto più possibile, in modo da renderlo davvero imbattibile.
Qualcuno durante la manifestazione Shame aveva già proposto l'arbitro giusto, ma forse il re Alberto II non c'avrà fatto caso, eppure potrebbe essere proprio lui il Signor Wolf della situazione. Foto scattata qui. |
Shame!
Vergogna! La manifestazione di oggi contro la classe politica belga che da più di 6 mesi è impegnata (stagnata) nella formazione di un nuovo governo dopo le recenti elezioni. 35.000 e più voci di dissenso. Foto scattate qui. |
E i belgi si svegliarono incazzati
E mentre molte famiglie brussellesi lasciano gli alberi di natale fuori la porta, per la strada, sui marciapiedi, come tanti scheletri delle feste passate, al freddo e denudati, niente addobbi né colori dopo le lunghe notti di regali e rumori, nell'attesa che gli addetti comunali passino a raccoglierli per l'ultimo processo del loro destino: un riciclaggio che nobilita, si dice; mentre la metro ricomincia ad affollarsi nuovamente, per respirare nel sospiro altrui in ragnatele di braccia sospese e corse affrettate verso scrivania ed impegni, nel ritorno alla macina quotidiana, sicuramente reso più duro dalla pausa appena terminata; mentre si rivedono le stesse facce in Gare du Midi, quelle che il Natale non è mai arrivato, quelle per cui la baraonda dei saldi di inizio anno non esiste né provoca eccitante insonnia, le facce dei senzatetto aggrappate a corpi senza troppe energie, mentre nel bicchiere lasciato lì, accanto ai piedi o teso tra i muscoli paralizzati, cadono poche monete spesso spese per una Jupiler in più, perché magari meglio stordire le cento voci dei probabili tormenti con un po' di birra, meglio cadere nell'ennesima sonnolenza alienante e sperare in uno straccio di sogno, elemosinando alle connessioni neurali qualche surreale soddisfazione che lasci poi un sorriso al risveglio, anche solo per qualche instante; mentre Bruxelles ritorna ai suoi ritmi consueti, insomma, ecco che i belgi si svegliano un po' incazzati per l'anno nuovo, perché dopo più di sei mesi senza governo, da quando il re subito dopo le elezioni di giugno è dovuto passare dall'ispettore al pre-formatore, dai mediatori al chiarificatore fino al conciliatore (tante cariche, pochi risultati) per formare il nuovo governo cercando di trovare un accordo tra i diversi partiti francofoni e nederladofoni (per la finanziaria, per la regione di Bruxelles e la sopravvivenza del paese inteso come Belgio), si è arrivati ad un punto in cui non si può cercare di far bere un cavallo che non ha sete, e la risoluzione della crisi di governo sembra ritardare sempre più, anzi sembra impossibile tanto che si decide di scendere in piazza con un'unica parola, Vergogna (ufficialmente Shame, in inglese, giusto per non dividersi già dal titolo della manifestazione, anche questo è Belgio).
Resta da vedere quanto incazzati saranno questi belgi, se alla fine saranno i soliti cori monolingui dell'ultima volta, conferma e non altro di un paese che - per alcuni - non c'è, o l'atteso stimolo efficace (?) per smuovere trattative sempre più macchinose e deludenti. Intanto Bruxelles continua, inevitabilmente.
Vergogna. Nessun governo per il nostro paese dopo 200 giorni. Va bene, va bene, si sono incazzati. |
Il re del Belgio, Alberto II: La Costa d'Avorio, ecco un paese! Votano e una settimana dopo hanno due governi! Qui... sei mesi... e che? Da una vignetta del quotidiano Le Soir, ironizzando sul Belgio e la recente (e drammatica) situazione in Costa d'Avorio. |
Tardi, ma la battuta sull'Italia è arrivata
E alla fine non è neanche chissà quale battuta, voglio dire, si poteva fare sicuramente di meglio visto il tema e le allusioni e forse non è neanche la prima, ma non seguo molto la televisione belga, quindi mi limito a quello che leggo sul giornale di maggior diffusione francofona. Così il canale televisivo RTL-TVi parlando di Elio Di Rupo, pre-formatore del momento (una sorta di selezionatore del prossimo governo dopo le recenti elezioni) di origini italiane (e qui il binomio Italia-politica rende facili molte battute), dichiara "malgrado le sue origini italiane, Elio Di Rupo sarà più riflessivo di quello che si possa supporre". Una nullità, si poteva fare decisamente meglio, eppure la battuta non è passata per nulla inosservata, anzi si parla già di gaffe razzista, di commento scomodo, di scuse attese. Sarà che in Belgio non sono abituati a giocare con stereotipi o scherzare con nazionalità ed origini (attitudine da ammirare, anche se la satira ha le sue regole, quando si fa della satira ovviamente) o che come sempre ai giornali fa comodo riempire gli spazi anche con notizie che magari lasciano indifferenti, e allora c'è chi si schiera dalla parte del commento affermando che gli italiani oggi non pensano tanto, non ci sono molti intellettuali e filosofi moderni del Bel paese e allora ha senso la battuta, sperando che Di Rupo rifletta molto prima di prendere qualsiasi decisione (anche perché la questione politica belga attuale è abbastanza delicata) e c'è chi pensa si riferisse al carattere impulsivo degli italiani, al sangue caldo, che mal si accosterebbe a decisioni politiche, chi invece si scalda e urla al ridicolo, alle scuse pretese, richiamando paragoni con la comunità magrebina (quanto si arriva lontano, eh?) che degraderebbe la città mentre quella italiana lavorerebbe per far avanzare il paese e dunque esige rispetto o che in caso di politico di origini musulmane e di una tale battuta, le scuse sarebbero arrivate repentine. Insomma, di tutto! E a voi? Quel commento, quel richiamo alle origini italiane, che effetto vi fa?
Belgio e burqa: pretese di diritti che si scontrano
Recentemente Belgio e burqa han creato più di un titolo sui giornali internazionali per una questione sicuramente delicata in cui si scontrano diritti che, a quanto pare, possono sembrar ragionevoli da ogni parte. Un mesetto fa una ragazza belga, Samia, ha inviato una lettera al principale quotidiano belga, Le Soir, per raccontare la sua esperienza personale in relazione al burqa e condividere le sue considerazione in materia di diritti della persona e libertà di scelte. Ve ne traduco di seguito alcune parti interessanti:
"Non sono né una teologa né una attivista. Sono una cittadina belga nata in Belgio 30 anni fa. Mia madre, belga, e il mio patrigno sono stati istruiti secondo principi atei. Solo dopo un percorso personale ho scelto di diventare musulmana. Da undici anni indosso un abito che nasconde il mio corpo ed il viso tranne gli occhi. È una scelta personale. Non lo considero un obbligo, ma come un tributo alla espressione della mia fede. [...]
Io non chiedo a nessuno di aderire alla scelta che ho fatto, chiedo soltanto di rispettarla, semplicemente. [...] Ci sono circostanze in cui mostrare la mia faccia sembra del tutto logico e normale, come quando occorre aggiornare la carta di identità o quando passo le frontiere, ecc. Si tratta di una questione di buon senso. Io non mi considero diversa per il sol fatto di indossare il velo. Tuttavia, non capisco come ciò possa comportare restrizioni alla mia libertà. [...] E' con dolore e tristezza che prendo atto della disparità di risorse e di tempo e lo sforzo fatto per limitare le libertà individuali ed i diritti fondamentali, soprattutto quanto ci si riferisce ad un numero molto limitato di persone. Questo avviene in un momento in cui la maggioranza dei nostri cittadini deve affrontare difficoltà e problemi di ben più ampie dimensioni."
I diritti reclamati da Samia sono gli stessi che hanno poi spinto Human Rights Watch ad alzare la voce non appena il parlamento belga qualche giorno fa ha approvato all'unanimità (un vero e proprio plebiscito direi: 136 voti favorevoli, 2 astenuti, 0 contrari) il divieto di circolare in spazi pubblici con il volto coperto o mascherato con qualsiasi capo d'abbigliamento che non renda identificabili, da cui ovviamente ne deriva il divieto di burqa e niqāb. Dal canto loro, i politici rilanciano la campagna per i diritti delle donne, perché il burqa rappresenta un controllo inaccettabile della sessualità e della propria identità, orgogliosi di lanciarsi a prima nazione in Europa ad approvare un tale cambiamento. Diritti che si scontrano con i diritti di religione e libertà d'espressione secondo Amnesty International. Insomma, chi ha ragione? Burqa si' o burqa no?
Le preoccupazioni sulla sicurezza negli ambienti pubblici potrebbero sembrare ragionevoli almeno per giustificare l'esistenza dei tanti sistemi di sorveglianza presenti nella metro, poste, banche, bancomat ed in tanti altri luoghi di vita quotidiana, il cui scopo verrebbe enormemente compromesso non potendo identificare un individuo (e con un casco da motociclista o un burqa risulterebbe molto difficile); e come afferma un opinionista del NYT, siamo liberi fin tanto che siamo individui responsabili che possono essere accusati (leggi, identificati) per le proprie azioni davanti ai nostri simili. Tutto il polverone però sembra esagerato a molti, per via dei problemi ben più gravi cui la nazione deve rispondere e considerando le statistiche inesistenti di reati legati al burqa e addirittura la presenza di tali pratiche in Belgio: in un anno a Bruxelles avrò visto non più di 5 donne con il burqa in giro per il centro (certo, non posso assicurare che siano state sempre diverse, per ovvi motivi, ma sicuramente la loro frequenza è più elevata in altre zone della città); la BBC addirittura stima che non siamo più di 30 le donne che indossino il burqa in tutto il Belgio. Quindi un provvedimento del tutto simbolico? In nome dei diritti delle donne? O di una incombente necessità di sicurezza? Paura di un'Eurabia o tentativo di accaparrarsi i consensi più estremisti?
Di tutto e di niente. Se davvero è cosi' ristretto il numero di burqa, sarebbe stato più sensato creare servizi sociali, di integrazione, di supporto, addirittura di dialoghi individuali nel nome dei diritti della donna, non di certo il proibizionismo che non risolve affatto la questione, anzi ne crea un'altra: la ghettizzazione. Pensare che quelle donne d'improvviso cambino idea e si adattino alla gente è alquanto sciocco; la conseguenza immediata è vederle relegate in casa. Se davvero il tasso di criminalità è cosi' alto da giustificare un provvedimento del genere, non si risolve molto con questo divieto ne' si colpiscono alcune tipologie ben determinate di crimini. Se si voleva rubare l'esclusiva europea di una tale norma ai cugini francesi (che dal 2004 già lo vietano in tutte le scuole pubbliche), sarebbe stato meglio provarci in condizioni di governo normali e non nel bel mezzo dell'ennesima crisi di identità.
Intanto la polemica continua ed i diritti diametralmente opposti difficilmente troveranno punti d'incontro.
"Non sono né una teologa né una attivista. Sono una cittadina belga nata in Belgio 30 anni fa. Mia madre, belga, e il mio patrigno sono stati istruiti secondo principi atei. Solo dopo un percorso personale ho scelto di diventare musulmana. Da undici anni indosso un abito che nasconde il mio corpo ed il viso tranne gli occhi. È una scelta personale. Non lo considero un obbligo, ma come un tributo alla espressione della mia fede. [...]
Io non chiedo a nessuno di aderire alla scelta che ho fatto, chiedo soltanto di rispettarla, semplicemente. [...] Ci sono circostanze in cui mostrare la mia faccia sembra del tutto logico e normale, come quando occorre aggiornare la carta di identità o quando passo le frontiere, ecc. Si tratta di una questione di buon senso. Io non mi considero diversa per il sol fatto di indossare il velo. Tuttavia, non capisco come ciò possa comportare restrizioni alla mia libertà. [...] E' con dolore e tristezza che prendo atto della disparità di risorse e di tempo e lo sforzo fatto per limitare le libertà individuali ed i diritti fondamentali, soprattutto quanto ci si riferisce ad un numero molto limitato di persone. Questo avviene in un momento in cui la maggioranza dei nostri cittadini deve affrontare difficoltà e problemi di ben più ampie dimensioni."
I diritti reclamati da Samia sono gli stessi che hanno poi spinto Human Rights Watch ad alzare la voce non appena il parlamento belga qualche giorno fa ha approvato all'unanimità (un vero e proprio plebiscito direi: 136 voti favorevoli, 2 astenuti, 0 contrari) il divieto di circolare in spazi pubblici con il volto coperto o mascherato con qualsiasi capo d'abbigliamento che non renda identificabili, da cui ovviamente ne deriva il divieto di burqa e niqāb. Dal canto loro, i politici rilanciano la campagna per i diritti delle donne, perché il burqa rappresenta un controllo inaccettabile della sessualità e della propria identità, orgogliosi di lanciarsi a prima nazione in Europa ad approvare un tale cambiamento. Diritti che si scontrano con i diritti di religione e libertà d'espressione secondo Amnesty International. Insomma, chi ha ragione? Burqa si' o burqa no?
Le preoccupazioni sulla sicurezza negli ambienti pubblici potrebbero sembrare ragionevoli almeno per giustificare l'esistenza dei tanti sistemi di sorveglianza presenti nella metro, poste, banche, bancomat ed in tanti altri luoghi di vita quotidiana, il cui scopo verrebbe enormemente compromesso non potendo identificare un individuo (e con un casco da motociclista o un burqa risulterebbe molto difficile); e come afferma un opinionista del NYT, siamo liberi fin tanto che siamo individui responsabili che possono essere accusati (leggi, identificati) per le proprie azioni davanti ai nostri simili. Tutto il polverone però sembra esagerato a molti, per via dei problemi ben più gravi cui la nazione deve rispondere e considerando le statistiche inesistenti di reati legati al burqa e addirittura la presenza di tali pratiche in Belgio: in un anno a Bruxelles avrò visto non più di 5 donne con il burqa in giro per il centro (certo, non posso assicurare che siano state sempre diverse, per ovvi motivi, ma sicuramente la loro frequenza è più elevata in altre zone della città); la BBC addirittura stima che non siamo più di 30 le donne che indossino il burqa in tutto il Belgio. Quindi un provvedimento del tutto simbolico? In nome dei diritti delle donne? O di una incombente necessità di sicurezza? Paura di un'Eurabia o tentativo di accaparrarsi i consensi più estremisti?
Di tutto e di niente. Se davvero è cosi' ristretto il numero di burqa, sarebbe stato più sensato creare servizi sociali, di integrazione, di supporto, addirittura di dialoghi individuali nel nome dei diritti della donna, non di certo il proibizionismo che non risolve affatto la questione, anzi ne crea un'altra: la ghettizzazione. Pensare che quelle donne d'improvviso cambino idea e si adattino alla gente è alquanto sciocco; la conseguenza immediata è vederle relegate in casa. Se davvero il tasso di criminalità è cosi' alto da giustificare un provvedimento del genere, non si risolve molto con questo divieto ne' si colpiscono alcune tipologie ben determinate di crimini. Se si voleva rubare l'esclusiva europea di una tale norma ai cugini francesi (che dal 2004 già lo vietano in tutte le scuole pubbliche), sarebbe stato meglio provarci in condizioni di governo normali e non nel bel mezzo dell'ennesima crisi di identità.
Intanto la polemica continua ed i diritti diametralmente opposti difficilmente troveranno punti d'incontro.
We believe in Belgium, sì ma quale?
Il governo belga è caduto per la terza volta in tre anni, il che basterebbe a rendere l'idea delle difficoltà della gestione politica di una nazione non nazione, di una questione linguistica e culturale che vede il paese spaccato in due, dalle Fiandre nederlandofone del nord alla Vallonia francofona del sud, in un diverbio continuo su quella zolla di terra dove tutti dovrebbero convivere in un equilibrio difficile da mantenere: Bruxelles. Il Post, nuovo giornale di Luca Sofri, riassume abbastanza bene la questione (vergognose invece le edizioni online di diversi quotidiani nazionali, ad esempio Repubblica recentemente parla di Belgio soltanto per un prete pedofilo mentre sul Corriere soltanto per una denuncia al fumetto belga Tintin: nessuno dei due prende in considerazione la delicata questione di politica estera).
Ieri un gruppo di non più di cento persone si è riunito in Place Surlet de Chokier, a Bruxelles, per manifestare la volontà di un'unica nazione, il Belgio, contro le numerose ipotesi di divisione nate dalla recente crisi di governo. Sotto la statua della Brabançonne, nome dell'inno nazionale belga, studenti e non han iniziato a sventolare bandiere ed intonare canzoni e motti tra megafoni e gole stonate. Quando all'uscita della metro Madou ho intravisto un ragazzo che indossava la bandiera a mantello, ho subito capito di essere nel posto giusto per scattare qualche foto. Dopo un paio di minuti però ho intuito qualcosa di strano: si stava manifestando per l'unione del Belgio, ma la manifestazione non rappresentava il Belgio, non univa nulla, perché inni, canzonette, striscioni, tutto era in francese ed inglese, lì c'era un pezzettino di Vallonia, di Bruxelles francofona, ma quasi nulla di Belgio inteso nella sua totalità, nella sua diversità, causa prima delle discordie e della manifestazione stessa. Soltanto dopo un buon quarto d'ora una signora ha gridato qualche parola in nederlandese ma la risposta in coro era lieve, timida e sommessa se paragonata alla baldoria delle eco francesi.
Quando poi un signore abbastanza anziano si è presentato da lontano sventolando uno slogan indipendentista con la bandiera delle Fiandre, una pioggia di fischi si è alzata con cori a seguire ed attimi di tensione quando un ragazzo lo ha inseguito tentando un approccio non gentilissimo, ma per fortuna la polizia era nella piazza a sorvegliare ed intervenire se necessario.
In maggioranza eran ragazzi (la manifestazione è stata organizzata in collaborazione con un gruppo universitario di Bruxelles), ma non mancavano persone di tutte le età, persone francofone che volevano un Belgio unito senza però conoscere l'altra lingua, usando magari l'inglese che collante non è ma ennesima conferma di un divario evidente. E allora we believe in Belgium, ma forse invece di una manifestazione isolata sarebbe meglio esprimere le proprie volontà d'unione attraverso uno sforzo linguistico nel tentativo di ricucire relazioni altrimenti lontanissime, perché se io parlo la mia lingua musicale ed elegante (il francese) e tu il tuo accento forte e spezzato (il nederlandese) quello che ne vien fuori è soltanto un rumore stonato, una comunicazione stentata o, come avviene oramai da tempo, due monologhi paralleli.
Manifestazione per l'unione del Belgio. Il vostro reporter d'assalto, andima, era sul luogo. Foto scattata qui. |
Qualcuno tenta di boicottare la manifestazione. Foto scattata qui. |
In maggioranza eran ragazzi (la manifestazione è stata organizzata in collaborazione con un gruppo universitario di Bruxelles), ma non mancavano persone di tutte le età, persone francofone che volevano un Belgio unito senza però conoscere l'altra lingua, usando magari l'inglese che collante non è ma ennesima conferma di un divario evidente. E allora we believe in Belgium, ma forse invece di una manifestazione isolata sarebbe meglio esprimere le proprie volontà d'unione attraverso uno sforzo linguistico nel tentativo di ricucire relazioni altrimenti lontanissime, perché se io parlo la mia lingua musicale ed elegante (il francese) e tu il tuo accento forte e spezzato (il nederlandese) quello che ne vien fuori è soltanto un rumore stonato, una comunicazione stentata o, come avviene oramai da tempo, due monologhi paralleli.
Occhialoni, capello da bravo ragazzo, mantello, insomma Superman arriva alla manifestazione. Riuscirà a salvare il Belgio? Foto scattata qui. |
Ruote con le bandiere delle due regioni, Manneken Pis al centro con tanto di getto d'acqua + due modelle sulla sinistra: una invenzione per unificare il paese? Foto scatta qui. |
Alla fine non resta che la birra: su questo probabilmente sono tutti d'accordo;) Foto scattata qui. |
Non intolleranza, ma difesa? (2)
Se volete comprare casa in alcuni aeree limitrofe di Bruxelles, probabilmente vi verrà rifiutato addirittura l'appuntamento per una visita o per una chiacchiera preliminare con l'agenzia se non parlate nederlandese in modo fluente. Si', perché a quanto pare alcuni comuni hanno accordi ufficiosi con diverse agenzie immobiliari nel non vendere case in alcune aeree a chiunque non parli nederlandese o non sia disposto ad impararlo, sotto visione di una speciale commissione comunale che elabora la lista di candidati acquirenti. Quando la prof al corso di francese ce lo accenno' perché era capitato ad una sua amica e perché era conoscenza diffusa qui a Bruxelles, a molti ragazzi sembro' davvero strano, me compreso. Ora che sui giornali locali si parla di pratica diffusa da oramai più di dieci anni, tutto sembra più chiaro ma la cosa che lascia davvero perplessi e' che tale discriminazione vada contro la carta europea dei diritti umani e contro principi dettati dalla stessa costituzione belga!
Quando il mese scorso parlavo di intolleranza e difesa per la vicenda linguistica sul nome di un ristorante che non poteva essere in francese nonostante fossimo in Belgio perché in quel comune era vietato per tutti i locali pubblici, partendo dalle vicende storiche del nederlandese a Bruxelles e dintorni e di come fu discriminato nei secoli come lingua di basso ceto sociale e marginata quasi come la peste, beh quella vicenda sembro' più una difesa delle proprie origini e non un caso di estrema intolleranza, anche se personalmente permettere il bilinguismo (parola d'ordine in Belgio) dell'insegna sarebbe stata la scelta più giusta: mantenere le tradizioni ma con la consapevolezza dell'intorno, della propria nazione e dello stato attuale delle cose.
Parlando con il mio collega belga (del nord), che a fianco al mouse ha sempre un dizionario di francese, lingua straniera per lui, e che preferisce sempre parlare in inglese se l'altra persona non conosce il nederlandese, lui difende senza batter ciglio tale discriminazione, come salvaguardia della identità delle Fiandre e per evitare invasioni di stranieri (ma anche un belga può essere straniero). Ecco, se pur con toni decisamente più educati ed argomentando in modo più chiaro ed aperto, mi ha ricordato diversi concetti della nostra Lega razzista, perché quando si parla di rispetto e difesa delle proprie origini, e' facile cadere in intolleranze ed agire discriminando e se durante la storia si e' stati vittima di discriminazioni prolungate e dolorose non e' certo discriminando contro che si dimostra di aver imparato qualcosa. Il contrasto con la carta dei diritti umani dovrebbe già dire tutto, l'incostituzionalità palese, l'Illegalità documentata di tali procedure, ma quei comuni delle Fiandre letteralmente se ne fregano e vanno avanti; in particolare, uno dei commissari incaricati a discutere sulla vicenda, e' stato in passato sindaco di uno di quei comuni' in cui già si praticava tale discriminazione come normalità diffusa, insomma la persona ideale..
Ora capisco, quando sfogliavo dei volantini sulla discriminazione diffusi dai comuni della Vallonia, parte sud del paese, in una recente iniziativa, ora capisco che non si parlava soltanto di discriminazione sociale, razziale, religiosa, non soltanto per gli stranieri, ma anche per i belgi verso i belgi, stranieri tra loro, in uno stato tanto piccolo quanto inversamente complesso.
Quando il mese scorso parlavo di intolleranza e difesa per la vicenda linguistica sul nome di un ristorante che non poteva essere in francese nonostante fossimo in Belgio perché in quel comune era vietato per tutti i locali pubblici, partendo dalle vicende storiche del nederlandese a Bruxelles e dintorni e di come fu discriminato nei secoli come lingua di basso ceto sociale e marginata quasi come la peste, beh quella vicenda sembro' più una difesa delle proprie origini e non un caso di estrema intolleranza, anche se personalmente permettere il bilinguismo (parola d'ordine in Belgio) dell'insegna sarebbe stata la scelta più giusta: mantenere le tradizioni ma con la consapevolezza dell'intorno, della propria nazione e dello stato attuale delle cose.
Parlando con il mio collega belga (del nord), che a fianco al mouse ha sempre un dizionario di francese, lingua straniera per lui, e che preferisce sempre parlare in inglese se l'altra persona non conosce il nederlandese, lui difende senza batter ciglio tale discriminazione, come salvaguardia della identità delle Fiandre e per evitare invasioni di stranieri (ma anche un belga può essere straniero). Ecco, se pur con toni decisamente più educati ed argomentando in modo più chiaro ed aperto, mi ha ricordato diversi concetti della nostra Lega razzista, perché quando si parla di rispetto e difesa delle proprie origini, e' facile cadere in intolleranze ed agire discriminando e se durante la storia si e' stati vittima di discriminazioni prolungate e dolorose non e' certo discriminando contro che si dimostra di aver imparato qualcosa. Il contrasto con la carta dei diritti umani dovrebbe già dire tutto, l'incostituzionalità palese, l'Illegalità documentata di tali procedure, ma quei comuni delle Fiandre letteralmente se ne fregano e vanno avanti; in particolare, uno dei commissari incaricati a discutere sulla vicenda, e' stato in passato sindaco di uno di quei comuni' in cui già si praticava tale discriminazione come normalità diffusa, insomma la persona ideale..
Ora capisco, quando sfogliavo dei volantini sulla discriminazione diffusi dai comuni della Vallonia, parte sud del paese, in una recente iniziativa, ora capisco che non si parlava soltanto di discriminazione sociale, razziale, religiosa, non soltanto per gli stranieri, ma anche per i belgi verso i belgi, stranieri tra loro, in uno stato tanto piccolo quanto inversamente complesso.
L'importanza del non dimenticare il passato
Recentemente in Belgio c'è una certa polemica riguardante i festeggiamenti dell'anniversario della indipendenza del paese dall'allora regno d'Olanda. L'evento sarà a luglio e qualche affermazione fuori coro arriva relativamente ad un'altra indipendenza, quella della Repubblica Democratica del Congo, antica colonia belga e scenario storico di invasioni, massacri e guerre civili. Già, perché se pur con numeri non ufficiali (ma il comparire in certe tabelle e' già di per se una vergogna), il re che guido' il colonialismo belga (Leopoldo II) annovera diversi milioni di vittime nell'intento di creare un suo giardino privato in terra africana ed arricchire il proprio reame, con annesse rivolte sedate, mutilazioni, saccheggio di risorse e ricchezze naturali, noncuranza dei più semplici diritti umani, fino a totalizzare circa 10 milioni di congolesi morti a causa di scontri armati e sfruttamento.
Ma la memoria belga non sembra ricordare molto bene tali avvenimenti o almeno tende a dimenticarli. Specialmente nella mente di alcuni politici, quando affermano che non vorrebbero mai delle delegazioni congolesi presenti alle celebrazioni dell'indipendenza belga, perché sarebbe assurdo affiancare la propria milizia a saccheggiatori, assassini e stupratori. Beh, va bene che dopo il colonialismo, il Congo per quasi 50 anni e' stato poi teatro di conflitti interni, guerre civili (e prede di corporazioni europee ed americane che continuavano ad investire e sfruttare le ricchezze di quelle terre), terminando poi in storia recente della più devastante guerra africana per numero di vittime, e che magari quelle milizie non sono tra le più pure e lodevoli, ma certi appellativi, certe responsabilità delle conseguenze, una certa coscienza del passato non bisognerebbe mai perderla, anche perché tutt'oggi il Belgio rimane il maggior importatore di prodotti del Congo.
Forse fa parte del politichese, dimenticarsi del passato, e forse e' cosi' in tutte le latitudini. Sara' per questo che spesso esponenti politici cambiano partiti cosi' come partner in una danza complessa o si lanciano in affermazioni senza freni che magari non si possono ben apprezzare nel filtro televisivo, perché la televisione non ha memoria, ma che grazie alla rete e' facile ritrovare, confrontare, scavare nella notizie ed informarsi.
Succede anche da noi, sarebbero migliaia gli esempi, e succede sempre più spesso. Forse succede anche a noi, nel nostro piccolo, nella politica delle nostre relazioni sociali, quando non ci accorgiamo della violenza di una parola appena detta e dei fantasmi delle eco passate, certo pero' ai politici non farebbe male pensarci un po' meglio, magari quel famoso conta fino a 10 sarebbe già un gran bel miglioramento.
Ma la memoria belga non sembra ricordare molto bene tali avvenimenti o almeno tende a dimenticarli. Specialmente nella mente di alcuni politici, quando affermano che non vorrebbero mai delle delegazioni congolesi presenti alle celebrazioni dell'indipendenza belga, perché sarebbe assurdo affiancare la propria milizia a saccheggiatori, assassini e stupratori. Beh, va bene che dopo il colonialismo, il Congo per quasi 50 anni e' stato poi teatro di conflitti interni, guerre civili (e prede di corporazioni europee ed americane che continuavano ad investire e sfruttare le ricchezze di quelle terre), terminando poi in storia recente della più devastante guerra africana per numero di vittime, e che magari quelle milizie non sono tra le più pure e lodevoli, ma certi appellativi, certe responsabilità delle conseguenze, una certa coscienza del passato non bisognerebbe mai perderla, anche perché tutt'oggi il Belgio rimane il maggior importatore di prodotti del Congo.
Forse fa parte del politichese, dimenticarsi del passato, e forse e' cosi' in tutte le latitudini. Sara' per questo che spesso esponenti politici cambiano partiti cosi' come partner in una danza complessa o si lanciano in affermazioni senza freni che magari non si possono ben apprezzare nel filtro televisivo, perché la televisione non ha memoria, ma che grazie alla rete e' facile ritrovare, confrontare, scavare nella notizie ed informarsi.
Succede anche da noi, sarebbero migliaia gli esempi, e succede sempre più spesso. Forse succede anche a noi, nel nostro piccolo, nella politica delle nostre relazioni sociali, quando non ci accorgiamo della violenza di una parola appena detta e dei fantasmi delle eco passate, certo pero' ai politici non farebbe male pensarci un po' meglio, magari quel famoso conta fino a 10 sarebbe già un gran bel miglioramento.
Non intolleranza, ma difesa
Su Le soir di ieri si legge di una vicenda (poi ripresa praticamente uguale sul metro di oggi) di lingue e nazionalismi: ad Halle, paese reso noto dalle cronache recenti per il tragico incidente ferroviario, non sono graditi nomi di locali pubblici in francese. Un programma televisivo belga assegna a diversi concorrenti di un reality la gestione di un ristorante ed al termine della trasmissione una coppia vince l'attività commerciale. I concorrenti di Halle pero' hanno deciso un nome, "Les Deux", che non e' piaciuto alla comunità della cittadina, dove e' stato deciso da alcuni anni l'obbligo di nomi soltanto fiamminghi, per conservare il proprio carattere e tradizioni.
Il tutto viene giustificato dalle autorità locali come salvaguardia della propria storia e difesa dall'aumento sempre maggiore di francesizzazione degli ultimi anni; e soprattutto affermando "che non e' certamente una espressione di intolleranza fiamminga". Non tolleranza, ma difesa.
Dall'altro fronte, quello francofono, c'è un dibattito sempre aperto sull'importanza della identità vallona, sull'identificazione di Namur come capitale della Vallonia, per resistere alle pressioni della parte nord del paese, le Fiandre, forte di una recente economia più solida e fiorente.
E a Bruxelles? Bruxelles e' geograficamente nella parte nord ma costituisce in realtà una sorta di terra di mezzo a maggioranza francofona, dove questi umori, questi nazionalismi, queste presunte intolleranze e legittime difese delle tradizioni devono convivere nell'idea di una capitale che dovrebbe rappresentare tutte le sfaccettature del paese. Quando questa mattina ho chiesto al mio collega belga (del nord) di commentare l'articolo, ha subito chiuso con "eh, e' una lunga storia". Eppure io volevo capire se davvero c'era del politichese dietro quella non intolleranza e se quella difesa era soltanto la giustificazione ad un nazionalismo radicato o una protezione da minacce reali.
Ed e' davvero una lunga storia, che si può ripercorrere attraverso la storia linguistica della capitale. Bisogna partire addirittura dal medioevo, quando a Bruxelles si parlava la lingua dei commerci dell'epoca, il latino, ed il nederlandese (essendo nel nord) mentre al sud si parlava francese per le vicinanze geografiche alla Francia. Con il dominio spagnolo poi (1531), il nederlandese divenne una lingua anti-cattolica ed il francese fu privilegiato nelle corti e nella vita politica della città. Questa emarginazione relego' il nederlandese a lingua di strada in concomitanza con il declino delle repubbliche del nord, lingua del ceto povero (il che vuol dire parlata dalla maggioranza) diversa dal francese dei ceti ricchi (una minoranza). Tale stato fu rafforzato con la dominazione successiva (1794), quella francese, sotto il motto "una nazione, una lingua" (indovinate quale lingua) e con l'utopia di forzare il passaggio al francese (ma come poteva una maggioranza povera iniziare a parlare da un giorno all'altro una lingua cosi' differente?).
Nelle case pero' si continuava a parlare nederlandese fino al declino di Napoleone e l'avanzata del regno d'Olanda (1815), sotto il quale tale lingua riconquisto' Bruxelles (mentre nel sud del Belgio si continuava a parlare francese). Con la rivoluzione belga (1830) che porta l'indipendenza dall'Olanda si hanno nuovi cambiamenti linguistici: una forte massa di francofoni si sposta nella capitale in una situazione già alquanto complessa, ma la città rimane a maggioranza nederlandofona.
Il sommo Baudelaire riassunse il tutto con: "a Bruxelles, la gente in realtà non parla francese, ma fa finta di non saper parlare fiammingo. Per loro e' buon gusto. La prova pero' che in realtà si parla fiammingo è che abbaiano ordini ai loro dipendenti, in fiammingo".
Seguono anni complessi. Onde migratorie vengono dal nord povero e a Bruxelles per differenziarsi molti iniziano a parlare francese, la lingua superiore, e le nuove generazioni crescono adattandosi a tale lingua. Con il tempo il francese perde questo valore di superiorità ma diventa ovviamente lo strumento unico per un progresso sociale. Solo nel 1921 il governo riconosce il principio territoriale, secondo il quale si accetta il nederlandese al nord, il francese al sud, Bruxelles come terra bilingue.
Nel 1960 si identificano i bordi linguistici che circondano la capitale ed alcune città passano da una amministrazione ad un'altra in base al linguaggio ufficiale scelto. Ma dopo la seconda guerra mondiale il declino economico del sud e la rinascita del nord mette nuovamente in primo piano il nederlandese, almeno fin quando la comunità economica europea prende sede a Bruxelles e molti stranieri iniziano ad immigrare prediligendo il francese come lingua da apprendere.
Le preoccupazioni politiche di molti partiti del nord sono sulla scomparsa della lingua da Bruxelles. Minoranze francesi che vivono nelle Fiandre chiedono la ratifica della convenzione sulla protezione delle minoranze' nazionali, che in Belgio non e' stata ancora totalmente approvata. Tale convenzione consentirebbe il diritto di usare anche il francese nel nord del paese nella comunicazione con le autorità, nelle scuole, etc. Ma le Fiandre non vogliono, non riconoscono i francofoni del nord come una minoranza e sono preoccupati della scomparsa della propria lingua.
Ed ecco come quell'articolo su un programma televisivo e le preferenze di un comune belga si collocano in uno scenario di difesa, più che di intolleranza, e all'ombra di certe affermazioni c'è una lunga storia di equilibri mai raggiunti, di culture differenti che tentano di vivere in armonia sullo stesso pezzettino di terra in un paese tanto piccolo quanto inversamente complesso.
Il tutto viene giustificato dalle autorità locali come salvaguardia della propria storia e difesa dall'aumento sempre maggiore di francesizzazione degli ultimi anni; e soprattutto affermando "che non e' certamente una espressione di intolleranza fiamminga". Non tolleranza, ma difesa.
Dall'altro fronte, quello francofono, c'è un dibattito sempre aperto sull'importanza della identità vallona, sull'identificazione di Namur come capitale della Vallonia, per resistere alle pressioni della parte nord del paese, le Fiandre, forte di una recente economia più solida e fiorente.
E a Bruxelles? Bruxelles e' geograficamente nella parte nord ma costituisce in realtà una sorta di terra di mezzo a maggioranza francofona, dove questi umori, questi nazionalismi, queste presunte intolleranze e legittime difese delle tradizioni devono convivere nell'idea di una capitale che dovrebbe rappresentare tutte le sfaccettature del paese. Quando questa mattina ho chiesto al mio collega belga (del nord) di commentare l'articolo, ha subito chiuso con "eh, e' una lunga storia". Eppure io volevo capire se davvero c'era del politichese dietro quella non intolleranza e se quella difesa era soltanto la giustificazione ad un nazionalismo radicato o una protezione da minacce reali.
Ed e' davvero una lunga storia, che si può ripercorrere attraverso la storia linguistica della capitale. Bisogna partire addirittura dal medioevo, quando a Bruxelles si parlava la lingua dei commerci dell'epoca, il latino, ed il nederlandese (essendo nel nord) mentre al sud si parlava francese per le vicinanze geografiche alla Francia. Con il dominio spagnolo poi (1531), il nederlandese divenne una lingua anti-cattolica ed il francese fu privilegiato nelle corti e nella vita politica della città. Questa emarginazione relego' il nederlandese a lingua di strada in concomitanza con il declino delle repubbliche del nord, lingua del ceto povero (il che vuol dire parlata dalla maggioranza) diversa dal francese dei ceti ricchi (una minoranza). Tale stato fu rafforzato con la dominazione successiva (1794), quella francese, sotto il motto "una nazione, una lingua" (indovinate quale lingua) e con l'utopia di forzare il passaggio al francese (ma come poteva una maggioranza povera iniziare a parlare da un giorno all'altro una lingua cosi' differente?).
Nelle case pero' si continuava a parlare nederlandese fino al declino di Napoleone e l'avanzata del regno d'Olanda (1815), sotto il quale tale lingua riconquisto' Bruxelles (mentre nel sud del Belgio si continuava a parlare francese). Con la rivoluzione belga (1830) che porta l'indipendenza dall'Olanda si hanno nuovi cambiamenti linguistici: una forte massa di francofoni si sposta nella capitale in una situazione già alquanto complessa, ma la città rimane a maggioranza nederlandofona.
Il sommo Baudelaire riassunse il tutto con: "a Bruxelles, la gente in realtà non parla francese, ma fa finta di non saper parlare fiammingo. Per loro e' buon gusto. La prova pero' che in realtà si parla fiammingo è che abbaiano ordini ai loro dipendenti, in fiammingo".
Seguono anni complessi. Onde migratorie vengono dal nord povero e a Bruxelles per differenziarsi molti iniziano a parlare francese, la lingua superiore, e le nuove generazioni crescono adattandosi a tale lingua. Con il tempo il francese perde questo valore di superiorità ma diventa ovviamente lo strumento unico per un progresso sociale. Solo nel 1921 il governo riconosce il principio territoriale, secondo il quale si accetta il nederlandese al nord, il francese al sud, Bruxelles come terra bilingue.
Nel 1960 si identificano i bordi linguistici che circondano la capitale ed alcune città passano da una amministrazione ad un'altra in base al linguaggio ufficiale scelto. Ma dopo la seconda guerra mondiale il declino economico del sud e la rinascita del nord mette nuovamente in primo piano il nederlandese, almeno fin quando la comunità economica europea prende sede a Bruxelles e molti stranieri iniziano ad immigrare prediligendo il francese come lingua da apprendere.
Le preoccupazioni politiche di molti partiti del nord sono sulla scomparsa della lingua da Bruxelles. Minoranze francesi che vivono nelle Fiandre chiedono la ratifica della convenzione sulla protezione delle minoranze' nazionali, che in Belgio non e' stata ancora totalmente approvata. Tale convenzione consentirebbe il diritto di usare anche il francese nel nord del paese nella comunicazione con le autorità, nelle scuole, etc. Ma le Fiandre non vogliono, non riconoscono i francofoni del nord come una minoranza e sono preoccupati della scomparsa della propria lingua.
Ed ecco come quell'articolo su un programma televisivo e le preferenze di un comune belga si collocano in uno scenario di difesa, più che di intolleranza, e all'ombra di certe affermazioni c'è una lunga storia di equilibri mai raggiunti, di culture differenti che tentano di vivere in armonia sullo stesso pezzettino di terra in un paese tanto piccolo quanto inversamente complesso.
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