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Ci vuole fortuna
Ci vuole anche fortuna, dicono, quando vai all'estero, quando magari dopo qualche anno ti confronti e hai raggiunto certi obiettivi, ci vuole, dicono, anche culo perché in un qualche modo si ha il bisogno di giustificare certe mancanze, a volte anche limiti, o soltanto trovare un appiglio, un buco nero in cui buttare qualsiasi rimorso o fallimento personale: non ho avuto fortuna. Un po' è quell'endemico malessere mediterraneo del rimandare a domani, dell'oggi no che son stanco, che non so come, che non c'ho i soldi, che domani il Signore ci aiuta e vedremo; un po' è quella malizia del camuffare altro sotto il mantello della fortuna, una spintarella, una raccomandazione, una conoscenza, che senza quella fortuna non si va avanti, non si raggiungono certi obiettivi; un po' è semplicemente sminuire e dimenticare, a volte anche scoraggiare, che senza fortuna non si fanno grandi cose. Eppure basterebbe ricordarsi di Seneca, pure lui mediterraneo ma di altri tempi, e il suo "la fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l'occasione" o, come dicono world wide "Luck is where opportunity meets preparation". Ecco, stampatevela questa frase, prima di andare all'estero ma anche prima di finire gli studi, ovunque sia il vostro destino, in terra natia o straniera, l'importante è essere preparati, avere conoscenze e capacità, le fondamenta insomma, come diceva Randy Paush "Fundamentals, fundamentals, fundamentals. You’ve got to get the fundamentals down because otherwise the fancy stuff isn’t going to work.". Ma non è abbastanza. La preparazione in una landa desolata diventa presto sterile. Ci vogliono le opportunità, per aumentare le chance di un incontro perfetto. E allora ecco perché spesso si emigra, perché tu che hai appena ottenuto un dottorato di ricerca in Italia hai sì la preparazione ma vai via, perché altrove ci sono altri fondi, altri progetti, altre ricerche, ecco, altre opportunità. Lì, la fortuna sarà quell'incontro, tra la tua preparazione e le opportunità a portata di mano. E tu, che hai studiato informatica per anni, hai coltivato questa passione viscerale, sei preparato, ma finisci a Roma con un contratto poco chiaro e i limiti culturali e strutturali di una carriera già segnata, vai via, perché altrove meritocrazia e - ancora - opportunità aumenteranno speranze e sorrisi. Perché, come diceva Viktor Frankl, uno che d'opportunità e fortuna sapeva molto, "When we are no longer able to change a situation, we are challenged to change ourselves". E allora inizia il viaggio, per cambiarsi, per cambiare, verso altre opportunità. Ci vuole fortuna però, o soltanto la forza d'incontrarla.
Voglio vestirmi da ballerina
E poi tuo figlio di poco più di tre anni ti dice che per carnevale vuole vestirsi da ballerina, ballerino, gli dici tu, correggendo un accordo che magari ancora non domina, lui alle prese con spagnolo, italiano e francese dalla nascita e non sempre, non ancora, in grado di dominare alfabeti e accenti in digestione cerebrale, ballerina ripete lui, quella di Frozen, blue. E tu pensavi di essere di mente aperte, si direbbe, e invece rispondi ma come spiderman, un pompiere, qualsiasi cosa ma, no no no, la ballerina di Frozen, blue, no. E passano i giorni e la richiesta si fa insistente. E alla fine su Amazon sono due click e arriva a casa il vestito da ballerina di Frozen, blue.
Quando vedi tuo figlio con indosso quel vestito c'è qualcosa dentro che ti dice non va, è strano. Poi vedi il suo sorriso, la felicità nel far salti con quel vestito, l'allegria che riesce a diffondere con risate continue e spontanee, bellissime, e tutto il resto passa in secondo piano.
E arriva il giorno in cui a scuola i bambini devono andare travestiti per carnevale. E allora dici spiderman, un pompiere, qualsiasi cosa. Perché i bambini più grandi potrebbero non capire, potrebbero scherzarci, offendere, fare i bulli, pensi. Perché va bene a casa ma fuori non sai. Perché anche se un giorno sarà quello il suo essere naturale, e lo accetteresti per quello che è, natura, oggi non lo sai ed è come se siccome per il momento non lo sai, preferisci continuare a non saperlo, in qualche modo. Perché, infatti, continui ad applicare i tuoi schemi ottusi, che per quanto consideri aperti e flessibili, si trascinano dietro ragionamenti ancora da correggere, son schemi d'adulti e schemi antiquati, son schemi tuoi e non quelli di un bambino di tre anni, che vede solo colori, brillanti, e un bel vestito, la felicità d'indossarlo. E allora che vinca la felicità, dici. E va a scuola vestito da ballerina di Frozen, blue, in mezzo a pirati, supereroi, mostri. Ed è felicissimo, con un sorriso interminabile, felice di andarci così, di mostrarlo, soddisfatto, di esserci riuscito. E altri bambini vogliono lo stesso vestito, tu leggi un po' d'imbarazzo nel sorriso smorzato dei loro genitori, tu pure hai come un certo imbarazzo in tutto questo, perché quei maledetti schemi filtrano in qualche modo la realtà per una normalità, supposta, che si rompe all'improvviso. Eppure i bambini, loro, nello loro ingenuità, nella loro spensieratezza, sono bellissimi e vogliono solo divertirsi, indossando qualsiasi cosa, anche un vestito da ballerina blue, di Frozen, per un maschietto.
Ti vengono in mente le parole di Randy Pausch, "Anybody out there who is a parent, if your kids want to paint their bedrooms, as a favor to me, let them do it. It'll be OK.". Ecco, ti viene voglia di dire lo stesso: A tutti i genitori in ascolto: se tuo figlio vuole vestirsi da ballerina per carnevale, lascia che lo faccia, fammi questo piacere. Andrà tutto bene.
Quando vedi tuo figlio con indosso quel vestito c'è qualcosa dentro che ti dice non va, è strano. Poi vedi il suo sorriso, la felicità nel far salti con quel vestito, l'allegria che riesce a diffondere con risate continue e spontanee, bellissime, e tutto il resto passa in secondo piano.
E arriva il giorno in cui a scuola i bambini devono andare travestiti per carnevale. E allora dici spiderman, un pompiere, qualsiasi cosa. Perché i bambini più grandi potrebbero non capire, potrebbero scherzarci, offendere, fare i bulli, pensi. Perché va bene a casa ma fuori non sai. Perché anche se un giorno sarà quello il suo essere naturale, e lo accetteresti per quello che è, natura, oggi non lo sai ed è come se siccome per il momento non lo sai, preferisci continuare a non saperlo, in qualche modo. Perché, infatti, continui ad applicare i tuoi schemi ottusi, che per quanto consideri aperti e flessibili, si trascinano dietro ragionamenti ancora da correggere, son schemi d'adulti e schemi antiquati, son schemi tuoi e non quelli di un bambino di tre anni, che vede solo colori, brillanti, e un bel vestito, la felicità d'indossarlo. E allora che vinca la felicità, dici. E va a scuola vestito da ballerina di Frozen, blue, in mezzo a pirati, supereroi, mostri. Ed è felicissimo, con un sorriso interminabile, felice di andarci così, di mostrarlo, soddisfatto, di esserci riuscito. E altri bambini vogliono lo stesso vestito, tu leggi un po' d'imbarazzo nel sorriso smorzato dei loro genitori, tu pure hai come un certo imbarazzo in tutto questo, perché quei maledetti schemi filtrano in qualche modo la realtà per una normalità, supposta, che si rompe all'improvviso. Eppure i bambini, loro, nello loro ingenuità, nella loro spensieratezza, sono bellissimi e vogliono solo divertirsi, indossando qualsiasi cosa, anche un vestito da ballerina blue, di Frozen, per un maschietto.
Ti vengono in mente le parole di Randy Pausch, "Anybody out there who is a parent, if your kids want to paint their bedrooms, as a favor to me, let them do it. It'll be OK.". Ecco, ti viene voglia di dire lo stesso: A tutti i genitori in ascolto: se tuo figlio vuole vestirsi da ballerina per carnevale, lascia che lo faccia, fammi questo piacere. Andrà tutto bene.
Mentre vivi fuori
Quando vivi fuori, che sia all'estero o abbastanza lontano da casa da uscire da una bolla ed entrare in un'altra, dove fuori appunto è fuori dal tuo intorno e conoscenze, ecco ci son cose a cui non si pensa quasi mai, nonostante la loro importanza: se ti succede qualcosa, mentre vivi fuori. All'estero, come al solito, si applicano cose simili, ma nella cassa di risonanza della distanza e oltre i confini nazionali ci son giustamente alcune complicazioni, di lingua, di connessioni, di procedure. Se ti succede qualcosa, mentre vivi fuori, ci son cose che avresti potuto preparare, ci son cose che si possono fare col minimo sforzo e che, casomai, tornano utili se non a te almeno a chi avrà bisogno di avvicinarsi a te, velocemente.
Ecco quindi alcune cose che, quando vivi fuori, non sarebbe male preparare:
Ecco quindi alcune cose che, quando vivi fuori, non sarebbe male preparare:
- Condividi informazioni: il tuo indirizzo di casa, quello dell'ufficio, il tuo conto in banca, le coordinate, qualsiasi cosa che, se ti succede qualcosa, possa essere utile agli altri. Scrivi tutto in un'email o un documento condiviso sul cloud (Google Drive, Dropbox, per esempio) e condividilo con persone fidate (genitori, fratelli, migliori amici). Non condividere password o dati sensibili, il più delle volte non ce n'è bisogno. Non condividere solo le tue informazioni: anche quelle del tuo partner potrebbero tornare utili (se succede qualcosa a entrambi) o quelle su eventuali figli.
- Identifica persone del luogo: un amico che parli la tua lingua natia e una delle lingue del lungo, possibilmente più di un amico, il suo numero di telefono, il suo indirizzo, l'email, va aggiunto poi a questo documento: se ti succede qualcosa, lui o lei potrebbero aiutare gli altri, soprattutto in difficoltà linguistiche o semplicemente perché conoscono te e il posto in cui vivi. Metterle al corrente della cosa non farebbe male. Certo, Facebook o altre reti sociali possono già facilitare il contatto di persone sul luogo a te vicine, ma selezionarle a priori potrebbe facilitare di molto le cose.
- Programma notifiche automatiche: Google Inactivity Manager è un ottimo esempio: se non usi la tua email per un certo periodo (giorni, settimane, mesi?) un'email viene inviata automaticamente a una lista di contatti scelti da te e con un messaggio preparato da te. Non aiuta nell'immediato, perché potrebbe essere già passato del tempo nei casi peggiori, ma è un modo per condividere cose, la propria legacy, anche se scrivere quel messaggio non è sempre la cosa più facile del mondo. Qui puoi condividere password e dati sensibili, al limite.
- Fai sapere dove sei: nel caso peggiore, le autorità locali si metteranno sicuramente in contatto con l'ambasciata italiana sul posto. Se sei iscritto all'AIRE, si potrebbe guadagnare un po' di tempo, ma anche in caso negativo a quel punto sta alle entità italiane mettersi in contatto e far da tramite. Servizi tipo Dove siamo nel mondo possono tornare utili, non solo per delle vacanze.
- Tieni sempre tutto aggiornato: hai appena traslocato? L'amico prescelto ha lasciato il paese verso nuove avventure? Hai cambiato lavoro? Ecco, tutti i preparativi di cui sopra non servono a molto se non rimangono aggiornati.
Quando in famiglia o tra amici lontani si riceve un documento condiviso di questo tipo, è normale, scatta il panico, perché si pensa sempre al peggio. E invece certe cose vanno preparate proprio quando tutto è tranquillo.
Quello che i nonni non dicono
Ci pensi quando noti che le ricette che credevi di cucinare davvero bene poi riesci anche a migliorarle e poi, dopo altre prove, altri esperimenti, altra pratica, riesci addirittura e ancora a superare ulteriormente quello che prima rappresentava già un gran bel traguardo. E pensi a tuo nonno, lì, al tavolo la domenica mattina o ad ogni festa tradizionale, quando ci si riuniva tutti insieme e ognuno lasciava che il profumo dei piatti della nonna conquistasse palati e sorrisi: facile, per la nonna, cucinare bene, dopo anni e anni di prove, di raffinamenti, migliorie. Quello che però i nonni non raccontano, ai nipoti che stan lì a fianco a chiudere gli occhi e godersi le pietanze prelibate, è di quante volte han mangiato pasta scotta o sughi troppo liquidi, troppo secchi, troppo salati, troppo insipidi, quello che i nonni non dicono, perché non ricordano, perché non potrebbero, perché non vogliono, perché altrimenti si rovina una leggenda di forchette e acquoline in bocca, è che anche le nonne un tempo non sapevano cucinare, anche le nonne una volta preparavano piatti mediocri e loro, i nonni, erano lì a mangiarli, a condividere i risultati, a consigliare, giudicare, ingoiare, aspettare. Il segreto delle nonne è tanto banale quanto importante: se una cosa non ti riesce bene la prima volta, provaci ancora, perché solo fallendo e capendo dai tuoi errori puoi poi migliorarti; il segreto dei nonni ne è un corollario non meno importante: se una cosa non è riuscita bene, ingoia e sii paziente, supporta e costruisci insieme. Il segreto dei nonni era lì, ogni volta a tavola e tu non lo vedevi, loro non te lo dicevano, e tu intanto tornavi a casa poi e la tua pasta non era al punto giusto, la mantecatura non ti riusciva bene, fallivi e pensavi che non saresti mai riuscito a cucinare a certi livelli perché, in fondo, ti mancavano gli ingredienti principali che la ricetta non menzionava: il tempo, l'esperienza, la pazienza e la perseveranza. Ed è talmente universale, quel segreto dei nonni, che dovremmo ricordarcelo sempre, in cucina come al lavoro, nelle sfide personali e nei risultati di gruppo: non demordere, fallire è una cosa bellissima.
Piccola guida ai mini furti brussellesi
Succede a chi si trova a Bruxelles per un fine settimana di vacanza e porterà con sè il souvenir poco gradevole per coltivare poi stereotipi e racconti di città malfamate; succede a chi si trova di passaggio durante un viaggio di lavoro a lottare anche con imprevisti mai listati in agende già ben impegnate; succede anche a chi ci vive, a Bruxelles, e la vive quotidianamente, in tutti i suoi aspetti, tanti, diversi, controversi. Succede che qualcuno ti ruba qualcosa, via la borsa, il cellulare o il portatile, ed allora ecco qui una lista di tecniche provenienti da storie vere, di amici e conoscenti, accadute a Bruxelles, ancora e ancora.
Il benvenuto alla stazione: siete appena arrivati a Gare Central o a Gare du Midi, con lo zaino sullo spalle e la testa nell'aria a cercare sul tabellone il vostro treno o qualsiasi altra informazione necessaria, e lì, nella tasca dello zaino, appena dentro la sacca, c'è il portatile dalla sagoma in bella vista. E scompare, all'improvviso. Consiglio: nelle stazioni, muovete sempre lo zaino dalle spalle al torso, sotto il vostro controllo.
Il volantino di troia: siete lì ad una terrazza a godervi una birra, la piazzetta popolosa, impegnati in qualche chiacchiera, il cellulare lì poggiato sul tavolo, pensate in bella vista, e invece arriva qualcuno che lascia un volantino, uno dei tanti, volantini sempre da ignorare, lo poggia sul tavolo, anzi sul cellulare, che magicamente poi scompare. Consiglio: attenti al cellulare sul tavolo, soprattutto dopo la terza birra.
L'amore non è cieco: sei lì nel vagone della metro affollata verso la tua prossima destinazione urbana e a fianco c'è questa coppia che si bacia, si bacia tanto, ma proprio tanto, e giustamente ti giri dall'altro lato, per non guardare, perché sarebbe scortese, perché non ti interessa, perché non sei al cinema, e intanto uno dei due ti sta mettendo la mano nella giacca, nella borsa, nei pantaloni, e ciao cellulare. Consiglio: stai lontano dagli ormoni nella metro.
L'odore che colpisce: sei lì di nuovo nella metro sempre affollata e a fianco c'è il barbone puzzone che non si muove, rimane intorno, non c'è spazio per andar altrove, e siccome puzza tanto tu guardi altrove, per respirare, per sopravvivere, per sopportare, mentre magari una mano ti entra nella borsa, nella giacca, nei pantaloni e ciao portafogli. Consiglio: se qualcosa puzza, tappati il naso ma non gli occhi.
La telefonata che non salva la vita: sei lì che passeggi per Avenue Louise, a guardare vetrine inutili, e all'improvviso ti ferma qualcuno anche ben vestito, ti chiede una cortesia, una telefonata, due minuti, ha il cellulare scarico, è importante, non sai che fare, ti senti al sicuro, nulla di male, lo vuoi aiutare, e poi via a razzo, scappa con il tuo cellulare tra le mani. Consiglio: anche il tuo cellulare è sempre scarico, che spiacevole coincidenza.
Quindi Bruxelles è pericolosa? Beh, non più di altre capitali europee, dove la gente non è meno distratta, sfortunata, sovrappensiero della gente di Bruxelles però. Occhi aperti dunque, ma senza paranoie, cercando giusto di non abbandonare troppo la testa tra le nuvole di Magritte.
Il benvenuto alla stazione: siete appena arrivati a Gare Central o a Gare du Midi, con lo zaino sullo spalle e la testa nell'aria a cercare sul tabellone il vostro treno o qualsiasi altra informazione necessaria, e lì, nella tasca dello zaino, appena dentro la sacca, c'è il portatile dalla sagoma in bella vista. E scompare, all'improvviso. Consiglio: nelle stazioni, muovete sempre lo zaino dalle spalle al torso, sotto il vostro controllo.
Il volantino di troia: siete lì ad una terrazza a godervi una birra, la piazzetta popolosa, impegnati in qualche chiacchiera, il cellulare lì poggiato sul tavolo, pensate in bella vista, e invece arriva qualcuno che lascia un volantino, uno dei tanti, volantini sempre da ignorare, lo poggia sul tavolo, anzi sul cellulare, che magicamente poi scompare. Consiglio: attenti al cellulare sul tavolo, soprattutto dopo la terza birra.
L'amore non è cieco: sei lì nel vagone della metro affollata verso la tua prossima destinazione urbana e a fianco c'è questa coppia che si bacia, si bacia tanto, ma proprio tanto, e giustamente ti giri dall'altro lato, per non guardare, perché sarebbe scortese, perché non ti interessa, perché non sei al cinema, e intanto uno dei due ti sta mettendo la mano nella giacca, nella borsa, nei pantaloni, e ciao cellulare. Consiglio: stai lontano dagli ormoni nella metro.
L'odore che colpisce: sei lì di nuovo nella metro sempre affollata e a fianco c'è il barbone puzzone che non si muove, rimane intorno, non c'è spazio per andar altrove, e siccome puzza tanto tu guardi altrove, per respirare, per sopravvivere, per sopportare, mentre magari una mano ti entra nella borsa, nella giacca, nei pantaloni e ciao portafogli. Consiglio: se qualcosa puzza, tappati il naso ma non gli occhi.
La telefonata che non salva la vita: sei lì che passeggi per Avenue Louise, a guardare vetrine inutili, e all'improvviso ti ferma qualcuno anche ben vestito, ti chiede una cortesia, una telefonata, due minuti, ha il cellulare scarico, è importante, non sai che fare, ti senti al sicuro, nulla di male, lo vuoi aiutare, e poi via a razzo, scappa con il tuo cellulare tra le mani. Consiglio: anche il tuo cellulare è sempre scarico, che spiacevole coincidenza.
Quindi Bruxelles è pericolosa? Beh, non più di altre capitali europee, dove la gente non è meno distratta, sfortunata, sovrappensiero della gente di Bruxelles però. Occhi aperti dunque, ma senza paranoie, cercando giusto di non abbandonare troppo la testa tra le nuvole di Magritte.
Ogni volta
Ogni volta che inciampate nel lamento vorace della nuvola passeggera, della pioggia deludente e l'ennesima mancanza di sole che lascia senza energie perché divora il vostro umore e di conseguenza quello degli altri attorno, appena iniziate ad addossare le colpe di qualsiasi cosa alla crisi, al governo, alla corruzione, agli alieni, quando vi fermate perché c'è una paura che inghiotte la grinta, oscura la passione, consuma gli interessi, ecco, ogni volta che volevate provarci ma, che pensavate di esser forti però, ricordatevi di questo video.
E come ogni mercoledì
E come ogni mercoledì arriva il paniere bio Gasap, puntuale, da oramai 2 anni. Prodotti belgi, freschissimi, ogni volta stringendo la mano direttamente all'agricoltore, che oramai conosciamo personalmente. Si aiuta l'economica locale e si mangia sano. E i sapori son quelli d'altri tempi. |
Come si vive a Bruxelles?
È una domanda che viene posta spesso, da chi ha in programma un trasferimento a Bruxelles, ed è una domanda a cui non è facile rispondere, perché ognuno vive la propria Bruxelles, con le proprie aspettative, compromessi, abitudini, con il proprio carattere ed il proprio bagaglio culturale, esperienze lavorative, connessioni sociali. C'è una Bruxelles per tutti, ma non è detto che tutti la trovino.
Chi si lamenta di Bruxelles cade sempre su almeno uno dei classici argomenti:
- la città è sporca: vero, soprattutto in centro, i trasporti, le strade. Dipende molto dalle zone che si frequentano, ma il primo impatto è sempre un po' impressionante, più che altro per le attese e lo stereotipo di città del nord pulita e perfetta.
- la burocrazia è assurda: vero, ma è il Belgio in quanto stato ad essere complesso, spesso surreale, incastrato in un politicamente corretto perenne tra francofoni e fiamminghi e nella decentralizzazione di diversi poteri. L'Europa, seppur qui rappresentata con istituzioni e bandiere, è ancora un progetto molto lontano e la burocrazia e le tempistiche che affronterete ve lo confermeranno.
- la città è un continuo cantiere: vero, ma dovrebbe essere una cosa positiva, vuol dire che le cose si muovono, cambiano, si adattano. Ovviamente anche qui i cantieri durano tanto, spesso troppo, e nel frattempo bisogna conviverci.
- la microcriminalità impazza: vero secondo le statistiche recenti, e sono molti gli amici o conoscenti che hanno subito almeno una volta uno scippo, un finestrino della macchina sfondato, un furto in appartamento. Bisogna fare attenzione, anche nelle strade più alla moda potrebbero sempre strapparvi il telefono dalle mani e scappare. È una delle conseguenze negative del boom demografico degli ultimi anni. Per fortuna non riguarda tutti, personalmente in 4 anni non ho nulla da denunciare e non mi sono mai sentito in pericolo.
- il traffico è asfissiante: vero secondo le statistiche, che riportano Bruxelles tra le città più imbottigliate d'Europa, ma probabilmente vi riguarderebbe solo nel caso in cui doveste prendere il ring ogni giorno. I problemi di parcheggio poi sono quelli tipici di ogni città. E bisogna abituarsi alla santa precedenza a destra, sempre.
- il cielo è sempre grigio: siamo nel nord Europa, di cosa ci meravigliamo? Sebbene se ne parli sempre però, la pioggia non la fa da padrona, a Bruxelles piove relativamente poco. Il cielo però ha spesso quel grigiore che può influire sul morale. Quando i cambiamenti climatici porteranno il sole perpetuo anche qui, ci si lamenterà del troppo caldo (che rende la città appiccicosa e maleodorante, per la sua alta umidità e per la naturale inadeguatezza infrastrutturale).
- i belgi sono razzisti: chi lo dice è un tacchino, tutto qui.
Chi invece elogia la città vi parlerà sicuramente di almeno uno dei suoi punti forti:
- Bruxelles è viva: festival, concerti, manifestazioni d'ogni genere sono all'ordine del giorno: le mille organizzazioni europee ed internazionali, il mix culturale e le varie comunità della città generano una maratona continua d'eventi, di iniziative, per ogni tipo di pubblico. Annoiarsi è davvero difficile.
- Bruxelles è internazionale: probabilmente non ci sono altre città in Europa dalle stesse dimensioni e lo stesso livello internazionale di Bruxelles, un concentrato di multiculturalismo dovuto sì alla presenza delle istituzioni europee, ma anche alla NATO, al passato coloniale in Congo, alla lingua che richiama molti dai paesi nord africani, alla posizione geografica vantaggiosa, creando una torre di babele, un mix incredibile ed una diversità apprezzata da molti come ricchezza unica.
- Bruxelles è mediterranea: sebbene situata nel nord Europa, la città ha molto di mediterraneo, con i suoi pro e contro ovviamente. Ma i suoi mercatini multicolore, le sue piazze popolose, le terrazze incuranti del tempo e la vita che s'incontra per strada, ricordano a tutti gli effetti altre latitudini.
- Bruxelles è un villaggio: le dimensioni ridotte ed il sottoinsieme di città che alla fine ci si ritrova a frequentare, rendono Bruxelles un villaggio dove incontrerete spesso per strade facce conosciute, amici, colleghi, aiutandovi a sentire più parte del tessuto urbano, riducendo tempistiche di spostamenti ed incontri, sapendo di essere sempre a non più di 10 minuti di taxi da casa.
- Bruxelles è verde: più di 30 parchi sparsi per tutta la città (tra le più verdi d'Europa), molti spesso da scoprire, polmoni urbani che accolgono sportivi, lettori, famiglie, eventi ed attività, che si trasformano in spiagge estive e perfetti luoghi d'incontro per socializzare e ricaricarsi.
- Bruxelles offre opportunità: tantissime, grazie alle istituzioni ed enti, aziende internazionali presenti. Ma c'è anche tanta competitività, di persone qualificate che arrivano da tutta Europa pronte a farsi valere. Bisogna essere preparati e motivati. E provarci.
- Bruxelles è al centro di tutto: a metà strada tra Parigi ed Amsterdam, tra Londra e Francoforte, tutto è a poche ore di treno o di macchina, offrendo fughe rilassanti a portata di fine settimana.
Difficile descrivere tutto ed in modo verghiano. Nessuno vi dirà mai come voi vivrete in una città, perché nessun altro è voi. Chi valora o si ritrova in diversi punti forti, dimentica, si adatta, assorbe più facilmente quelli lamentabili; chi invece cade nella spirale dei lamenti, ignora, sminuisce, critica quelli positivi o semplicemente non li ritiene abbastanza consistenti per giustificare la propria permanenza. Come in tutte le città, sono scelte, tutta questione di compromessi e bilanciamenti personali. E siccome la vostra felicità dipende soprattutto dal posto in cui vivete, compromessi e bilanciamenti sono vitali per il vostro sorriso.
Ah, e Bruxelles è anche italiana, tanto, forse troppo, punto forte per alcuni o lamento per altri, l'importante è non prendere troppo sul serio la propria nazionalità. Soprattutto a Bruxelles.
Chi si lamenta di Bruxelles cade sempre su almeno uno dei classici argomenti:
- la città è sporca: vero, soprattutto in centro, i trasporti, le strade. Dipende molto dalle zone che si frequentano, ma il primo impatto è sempre un po' impressionante, più che altro per le attese e lo stereotipo di città del nord pulita e perfetta.
- la burocrazia è assurda: vero, ma è il Belgio in quanto stato ad essere complesso, spesso surreale, incastrato in un politicamente corretto perenne tra francofoni e fiamminghi e nella decentralizzazione di diversi poteri. L'Europa, seppur qui rappresentata con istituzioni e bandiere, è ancora un progetto molto lontano e la burocrazia e le tempistiche che affronterete ve lo confermeranno.
- la città è un continuo cantiere: vero, ma dovrebbe essere una cosa positiva, vuol dire che le cose si muovono, cambiano, si adattano. Ovviamente anche qui i cantieri durano tanto, spesso troppo, e nel frattempo bisogna conviverci.
- la microcriminalità impazza: vero secondo le statistiche recenti, e sono molti gli amici o conoscenti che hanno subito almeno una volta uno scippo, un finestrino della macchina sfondato, un furto in appartamento. Bisogna fare attenzione, anche nelle strade più alla moda potrebbero sempre strapparvi il telefono dalle mani e scappare. È una delle conseguenze negative del boom demografico degli ultimi anni. Per fortuna non riguarda tutti, personalmente in 4 anni non ho nulla da denunciare e non mi sono mai sentito in pericolo.
- il traffico è asfissiante: vero secondo le statistiche, che riportano Bruxelles tra le città più imbottigliate d'Europa, ma probabilmente vi riguarderebbe solo nel caso in cui doveste prendere il ring ogni giorno. I problemi di parcheggio poi sono quelli tipici di ogni città. E bisogna abituarsi alla santa precedenza a destra, sempre.
- il cielo è sempre grigio: siamo nel nord Europa, di cosa ci meravigliamo? Sebbene se ne parli sempre però, la pioggia non la fa da padrona, a Bruxelles piove relativamente poco. Il cielo però ha spesso quel grigiore che può influire sul morale. Quando i cambiamenti climatici porteranno il sole perpetuo anche qui, ci si lamenterà del troppo caldo (che rende la città appiccicosa e maleodorante, per la sua alta umidità e per la naturale inadeguatezza infrastrutturale).
- i belgi sono razzisti: chi lo dice è un tacchino, tutto qui.
Chi invece elogia la città vi parlerà sicuramente di almeno uno dei suoi punti forti:
- Bruxelles è viva: festival, concerti, manifestazioni d'ogni genere sono all'ordine del giorno: le mille organizzazioni europee ed internazionali, il mix culturale e le varie comunità della città generano una maratona continua d'eventi, di iniziative, per ogni tipo di pubblico. Annoiarsi è davvero difficile.
- Bruxelles è internazionale: probabilmente non ci sono altre città in Europa dalle stesse dimensioni e lo stesso livello internazionale di Bruxelles, un concentrato di multiculturalismo dovuto sì alla presenza delle istituzioni europee, ma anche alla NATO, al passato coloniale in Congo, alla lingua che richiama molti dai paesi nord africani, alla posizione geografica vantaggiosa, creando una torre di babele, un mix incredibile ed una diversità apprezzata da molti come ricchezza unica.
- Bruxelles è mediterranea: sebbene situata nel nord Europa, la città ha molto di mediterraneo, con i suoi pro e contro ovviamente. Ma i suoi mercatini multicolore, le sue piazze popolose, le terrazze incuranti del tempo e la vita che s'incontra per strada, ricordano a tutti gli effetti altre latitudini.
- Bruxelles è un villaggio: le dimensioni ridotte ed il sottoinsieme di città che alla fine ci si ritrova a frequentare, rendono Bruxelles un villaggio dove incontrerete spesso per strade facce conosciute, amici, colleghi, aiutandovi a sentire più parte del tessuto urbano, riducendo tempistiche di spostamenti ed incontri, sapendo di essere sempre a non più di 10 minuti di taxi da casa.
- Bruxelles è verde: più di 30 parchi sparsi per tutta la città (tra le più verdi d'Europa), molti spesso da scoprire, polmoni urbani che accolgono sportivi, lettori, famiglie, eventi ed attività, che si trasformano in spiagge estive e perfetti luoghi d'incontro per socializzare e ricaricarsi.
- Bruxelles offre opportunità: tantissime, grazie alle istituzioni ed enti, aziende internazionali presenti. Ma c'è anche tanta competitività, di persone qualificate che arrivano da tutta Europa pronte a farsi valere. Bisogna essere preparati e motivati. E provarci.
- Bruxelles è al centro di tutto: a metà strada tra Parigi ed Amsterdam, tra Londra e Francoforte, tutto è a poche ore di treno o di macchina, offrendo fughe rilassanti a portata di fine settimana.
Difficile descrivere tutto ed in modo verghiano. Nessuno vi dirà mai come voi vivrete in una città, perché nessun altro è voi. Chi valora o si ritrova in diversi punti forti, dimentica, si adatta, assorbe più facilmente quelli lamentabili; chi invece cade nella spirale dei lamenti, ignora, sminuisce, critica quelli positivi o semplicemente non li ritiene abbastanza consistenti per giustificare la propria permanenza. Come in tutte le città, sono scelte, tutta questione di compromessi e bilanciamenti personali. E siccome la vostra felicità dipende soprattutto dal posto in cui vivete, compromessi e bilanciamenti sono vitali per il vostro sorriso.
Ah, e Bruxelles è anche italiana, tanto, forse troppo, punto forte per alcuni o lamento per altri, l'importante è non prendere troppo sul serio la propria nazionalità. Soprattutto a Bruxelles.
Perché senza Linkedin hai un'arma in meno
Rimango ancora sorpreso dal numero di persone che mi contattano perché alla ricerca di un lavoro all'estero, in particolare a Bruxelles, ma senza un account Linkedin. Anche i più riluttanti e contrari ai social network dovrebbero abbandonare certi preconcetti, soprattutto se alla ricerca di un lavoro, e creare un profilo Linkedin, quanto prima, curarlo anche più del proprio curriculum e lavorarci, migliorarlo, espandere la propria rete di contatti. Perché? Linkedin, comunità virtuale che conta oramai 200+ milioni di utenti, è diventato praticamente indispensabile per la ricerca di un lavoro qualificato ed utilizzato da recruiters e personale delle risorse umane (HR) per cercare profili interessanti e proporre opportunità di lavoro. Non averlo significa perdere già una serie di possibilità e canali di comunicazione che, se state cercando lavoro, potrebbero risparmiarvi tempo ed energie.
I consigli che non smetto di ripetere potrebbero farne capire l'importanza:
I consigli che non smetto di ripetere potrebbero farne capire l'importanza:
- Create un profilo a partire dal vostro curriculum, affinatelo, cercando di essere brevi ma precisi; elencando titoli ed esperienze e concentrandovi su parole chiave e punti da mettere in risalto. Siate onesti, ma sappiate anche vendervi per quello che potete offrire. Periodicamente revisionatelo e domandatevi se rispecchia davvero le vostre potenzialità, se risulta interessante a chi lo vede e potrebbe chiamarvi per un colloquio.
- Espandete la vostra rete di connessioni, con colleghi, amici, conoscenze. No, non siamo su Facebook, vanno bene anche quelli che non conoscete bene. Perché? Perché più connessioni avete, più la vostra rete di possibili contatti (quelli a 2 gradi di connessione) si estende, aiutandovi nei risultati delle ricerche, nei dettagli che potrebbero interessarvi, nei profili che vorreste aggiungere (nei limiti di un account gratuito).
- Arricchite il vostro profilo con competenze e progetti a cui avete lavorato. Chiedete ai vostri colleghi di raccomandarvi o incoraggiare (+1) alcune conoscenze. No, non c'è gara all'abbondanza e non avranno un ruolo determinante nel vostro profilo, ma averne non vi danneggerà di sicuro.
- Se state cercando lavoro a Bruxelles, per esempio, vi servono contatti del posto che aprano nuove connessioni (a 2 gradi da voi). Cercate recruiters e personale HR di aziende che operano sul posto e che potete contattare direttamente: nella maggior parte dei casi vi aggiungeranno e automaticamente avrete nel vostro flusso di notizie i loro aggiornamenti, quasi sempre relativi ad offerte di lavoro da valutare e magari considerare. Quando qualcuno mi contatta cercando lavoro a Bruxelles, lo aggiungo alla mia rete per facilitarne il raggio d'azione in Belgio ed in più ho già pronti una trentina di contatti (recruiters, HR, ma relativi al campo informatico) da proporre, che saranno quindi a 2 gradi di connessioni e che potrebbero aiutare nella ricerca del lavoro.
- Con un profilo professionale ed una rete ben estesa, contattate direttamente recruiters e personale HR: il messaggio deve essere breve (per limite di caratteri consentiti), formale e preciso; siete alla ricerca di un certo tipo di impiego a Bruxelles (non qualsiasi cosa), disponibili, in attesa di riscontri; andate al sodo, mandatelo in inglese, non perdetevi in traduzioni francesi o addirittura olandesi. E attenti ai copia e incolla.
- Preparatevi una lettera di motivazione (in inglese) che sarà un modello da mantenere per il 70%, ma da personalizzare in base ad azienda, posizione, competenze richieste. Non elencate di nuovo il vostro cv, si chiama lettera di motivazioni: esprimete le vostre motivazioni. Vi servirà quando i contatti acquisiti tramite Linkedin inizieranno a rispondere. E ricordate che i recruiters non sono angeli: chiarite sempre tutto prima di accordare colloqui.
- Linkedin vi offre un mare di dati: usatelo. Siete interessati ad una azienda? Cercate chi ci lavora, cosa fa, come descrive il suo lavoro nel proprio profilo, che tecnologie usa, che clienti hanno, progetti, esperienze. Cercate chi ci ha lavorato (sempre tramite la ricerca avanzata di Linkedin) e come ha evoluto la sua posizione, per quanto tempo ci ha lavorato e cosa ha fatto durante quell'esperienza di lavoro (potete rendervi conto, per esempio, se un'azienda di consulenza fa davvero del body shopping facendo cambiare progetti ogni 3 mesi ai propri impiegati). Avete un colloquio fissato? Cercate il vostro contatto su Linkedin, la sua carriera, i suoi punti forti, studiatevelo in modo da poter essere pronti a qualsiasi domanda (funziona, ve lo assicuro). Cercate il direttore del dipartimento per il quale dovreste lavorare, il suo profilo, le sue competenze (e mentre guardate profili altrui, potete anche nascondervi). I dati sono tutti lì, se siete motivati e svegli, saprete come usarli per il vostro fine e, sì, adesso capite sicuramente meglio perché vi serve una rete estesa.
- Giocate alla pesca: andate a visitare i profili di personale HR o recruiters che non potete contattare o preferite non contattare direttamente. Nei loro aggiornamenti sapranno che avrete visto il loro profilo, una buona parte verrà incuriosito a visitare il vostro, qualcuno potrebbe contattarvi. Chi dorme non prende pesci, vale anche su Linkedin.
- Nella maggior parte dei casi, non vi serve un account a pagamento. Consideratelo solo se in difficoltà con l'espansione della propria rete e in caso si volessero contattare determinate persone (con i messaggi InMail).
- Come al solito, Linkedin è solo uno strumento, complementare ad altri che non vanno abbandonati nella ricerca del lavoro, ma che usato con creatività e astuzia può aprire nuove ed interessanti opportunità grazie all'enorme mole di dati fornita. È tutto lì, dovete solo usarlo: in bocca al lupo.
Quando parli con un fiammingo
Ci son due cose essenziali da non trascurare, quando parli con un fiammingo (e probabilmente anche quando parli con un tedesco, un danese, uno svedese), che saltano all'occhio quando ne inizi a studiare la lingua e quindi la cultura, cose che nell'evoluzione di un popolo s'influenzano a vicenda, inevitabilmente. La prima, all'apparenza banale, è che il linguaggio è molto più diretto rispetto a lingue latine, rispetto anche alla tua quindi, e non ci sono troppe giravolte intorno ad un concetto o formule esasperatamente lunghe in ambiti formali: meglio andare al sodo, brevemente, senza ambiguità né altalene linguistiche. Può sembrare a volte troppo diretto, quasi sgarbato per alcuni, e invece è semplicemente la lingua (e le abitudini che poi si trasmettono alle altre lingue parlate). Attenti però a non cadere nell'errore del tacchino, nel concludere che la lingua sia meno espressiva, meno ricca, soltanto perché meno pomposa: ogni lingua ha una propria espressività, perfetta per la cultura che ne è indissolubilmente associata, ed in grado di comunicare tutto quello di cui si ha bisogno. Capita spesso, per esempio, d'incontrare italiani all'estero elogiare l'italiano perché mille volte più espressivo dell'inglese, confondendo però per inglese quel 20% d'inglese che si conosce: la tua lingua madre sarà sempre più espressiva delle altre, per te, perché è tua e perché sei cresciuto nella cultura che combacia con essa.
La seconda cosa da non trascurare, quando si parla con un fiammingo, è che spesso il verbo o la negazione possono comparire alla fine della frase, in costrutti linguistici a noi ovviamente non familiari, e proprio a causa o grazie a questa struttura interrompere qualcuno mentre parla più che intollerabile diventa insensato: se il verbo è alla fine e m'interrompi alla terza parola, hai solo il 30% delle informazioni necessarie, non puoi sapere cosa sto per dirti, mentre in una lingua latina probabilmente avresti già il verbo e con esso l'80% del significato. Certo interrompere non è mai cosa gradita, ma in certe lingue diventa ancora più difficile da giustificare. E abituati a certe lingue, anche parlandone altre rimane l'abitudine a non essere interrotto (o non tollerarlo come in altre).
Per questo, se vi trovate a Bruxelles per un colloquio e di fronte avete un fiammingo - e ve ne accorgerete facilmente, non solo dall'aspetto, ma anche dall'accento nel parlare inglese (o francese) - meglio non interrompere, mai. E meglio non girar troppo intorno alle domande, dando risposte veloci e precise. Un fiammingo, per esempio, avrebbe scritto questo post con la metà delle parole. O anche meno.
La seconda cosa da non trascurare, quando si parla con un fiammingo, è che spesso il verbo o la negazione possono comparire alla fine della frase, in costrutti linguistici a noi ovviamente non familiari, e proprio a causa o grazie a questa struttura interrompere qualcuno mentre parla più che intollerabile diventa insensato: se il verbo è alla fine e m'interrompi alla terza parola, hai solo il 30% delle informazioni necessarie, non puoi sapere cosa sto per dirti, mentre in una lingua latina probabilmente avresti già il verbo e con esso l'80% del significato. Certo interrompere non è mai cosa gradita, ma in certe lingue diventa ancora più difficile da giustificare. E abituati a certe lingue, anche parlandone altre rimane l'abitudine a non essere interrotto (o non tollerarlo come in altre).
Per questo, se vi trovate a Bruxelles per un colloquio e di fronte avete un fiammingo - e ve ne accorgerete facilmente, non solo dall'aspetto, ma anche dall'accento nel parlare inglese (o francese) - meglio non interrompere, mai. E meglio non girar troppo intorno alle domande, dando risposte veloci e precise. Un fiammingo, per esempio, avrebbe scritto questo post con la metà delle parole. O anche meno.
Quando all'estero sei un tacchino
Ma tu, ragazzo appena sbarcato dalla nave dei dubbi e delle speranze, qui sull'isola della lingua straniera e della cultura differente, con la tua valigia digitale imbottita di radici ed il curriculum in formati tridimensionali che potrebbe bloccarsi in un nodo, della cravatta, al primo colloquio in alfabeti non tuoi, lo sai che potresti facilmente trasformarti in un tacchino? Sebbene l'estero possa sembrarti al principio un po' il paese dei balocchi, in preda alle emozioni del cambiamento, ubriacandoti di novità inattese ed avventure sociali, difficilmente ti trasformerai in asino come pinocchio perché ci sarà tanto da fare per vincere la tua scommessa personale e trovare un equilibrio altrove, riuscire a metter in ordine priorità e compromessi e finalmente arrivare ad un sorriso sereno. Però potresti inavvertitamente trasformati in tacchino, quello di Russell.
Già, perché nei tuoi processi logici quotidiani l'induzione sarà il metodo razionale tra i più naturali, quello di raccogliere esperienze, collezionare conoscenze, eppoi dal particolare all'universale sfornare leggi cosmiche sul nuovo intorno che ti circonda, generalizzando. Se un collega belga mangia broccoli a colazione (non lo fanno, è un esempio) e l'amico belga di un tuo conoscente mangia broccoli a colazione, al telefono la sera dirai a tua madre che sì, i belgi, tutti, mangiano broccoli a colazione. Dal particolare all'universale. Certo, usavi l'induzione magari anche in patria, ma all'estero le possibili generalizzazioni ed errori nascosti potrebbero moltiplicarsi facilmente, perché è qualcosa di nuovo, una cultura che non conosci, una città che ti scappa tra le mani, una nuova lingua da padroneggiare, un lavoro da trovare, l'appartamento, le conoscenze, un te stesso da riscoprire attraverso un'esperienza che no, non capirai mai fino in fondo leggendo pagine di wikipedia, risposte su un forum o commenti su un blog: poi tocca alla vita reale, se ci vuoi provare davvero. E poi corri il rischio di diventare un tacchino, quello di Russell, quello che per tutto l'anno aveva ricevuto il mangime alle 9 di mattina e allora, dal particolare alll'universale, ecco che per tutta la vita avrebbe ricevuto la colazione alle 9 di mattina - pensava - fin quando poi il giorno del ringraziamento viene ucciso, per essere servito a tavola, e la sua legge universale cade, si dimostra falsa.
Però tranquillo, siamo tutti un po' tacchini, probabilmente, soprattutto quando si sente in giro che i belgi, per esempio, non esistono, soltanto perché per un expat è naturale vivere con altri expat, è naturale conoscere altri emigranti e non persone del luogo, per via di abitudini e bisogni (corsi di lingue, per dirne una, in cui difficilmente trovereste qualcuno del luogo, beh, almeno fuori da Belgio, diciamo), per reti sociali già create (quante persone conoscete di Roma che a Roma escono con stranieri? Nessuna? Vuol mica dire che a Roma non ci vivono stranieri, no?), per facilità d'interazione (da expat ti troverai facilmente nel tuo circolo di gente che parla globish, l'inglese degli stranieri, in cui un locale potrebbe essere escluso o che troverebbe poco interessante). Siamo ancora tacchini quando, sempre dal particolare all'universale, diciamo che i belgi, per esempio, son razzisti, sempre collegandoci alla legge universale precedente, solo perché non escono con noi, non li vediamo, si nascondono, ci evitano, e invece no, hanno semplicemente già la loro vita da risolvere, che esisteva prima del nostro arrivo e continua ad esistere nonostante noi. Siamo ancora tacchini quando dal menu turistico di un ristorante in una stradina di una città, poi pretendiamo di conoscere la cultura culinaria di un paese e confrontarla, denigrarla, perché la nostra è migliore, perché la nostra è più salutare, e non perché alla nostra siamo abituati, fin da piccoli, tutto qui.
Probabilmente aveva ragione Popper, quando diceva che l'induzione dovrebbe essere usata per distruggere e non per creare, per trovare controesempi e non per generare l'ennesimo stereotipo personale, anche perché nell'induzione c'è già inconsciamente la sovrapposizione dei nostri schemi mentali alla realtà osservata, ma è difficile evitare d'indurre, ad ogni osservazione, soprattutto all'estero, soprattutto all'inizio, soprattutto in preda allo shock culturale. E allora? E allora tu, ragazzo appena sbarcato con la voglia matta di scoprire il mondo e la generalizzazione facile lì sempre sulla punta della lingua, puoi provare a frenare un po' la fretta del giudizio, magari ingoiando un po' di politicamente corretto o semplicemente raccontare il particolare: l'altro, l'universale, proviamo a lasciarlo agli altri. Poi, quando hai tempo, puoi anche studiarli, gli altri.
Già, perché nei tuoi processi logici quotidiani l'induzione sarà il metodo razionale tra i più naturali, quello di raccogliere esperienze, collezionare conoscenze, eppoi dal particolare all'universale sfornare leggi cosmiche sul nuovo intorno che ti circonda, generalizzando. Se un collega belga mangia broccoli a colazione (non lo fanno, è un esempio) e l'amico belga di un tuo conoscente mangia broccoli a colazione, al telefono la sera dirai a tua madre che sì, i belgi, tutti, mangiano broccoli a colazione. Dal particolare all'universale. Certo, usavi l'induzione magari anche in patria, ma all'estero le possibili generalizzazioni ed errori nascosti potrebbero moltiplicarsi facilmente, perché è qualcosa di nuovo, una cultura che non conosci, una città che ti scappa tra le mani, una nuova lingua da padroneggiare, un lavoro da trovare, l'appartamento, le conoscenze, un te stesso da riscoprire attraverso un'esperienza che no, non capirai mai fino in fondo leggendo pagine di wikipedia, risposte su un forum o commenti su un blog: poi tocca alla vita reale, se ci vuoi provare davvero. E poi corri il rischio di diventare un tacchino, quello di Russell, quello che per tutto l'anno aveva ricevuto il mangime alle 9 di mattina e allora, dal particolare alll'universale, ecco che per tutta la vita avrebbe ricevuto la colazione alle 9 di mattina - pensava - fin quando poi il giorno del ringraziamento viene ucciso, per essere servito a tavola, e la sua legge universale cade, si dimostra falsa.
Introspezioni di un migrante. |
Probabilmente aveva ragione Popper, quando diceva che l'induzione dovrebbe essere usata per distruggere e non per creare, per trovare controesempi e non per generare l'ennesimo stereotipo personale, anche perché nell'induzione c'è già inconsciamente la sovrapposizione dei nostri schemi mentali alla realtà osservata, ma è difficile evitare d'indurre, ad ogni osservazione, soprattutto all'estero, soprattutto all'inizio, soprattutto in preda allo shock culturale. E allora? E allora tu, ragazzo appena sbarcato con la voglia matta di scoprire il mondo e la generalizzazione facile lì sempre sulla punta della lingua, puoi provare a frenare un po' la fretta del giudizio, magari ingoiando un po' di politicamente corretto o semplicemente raccontare il particolare: l'altro, l'universale, proviamo a lasciarlo agli altri. Poi, quando hai tempo, puoi anche studiarli, gli altri.
Prossimamente, a Bruxelles
Insieme ad un amico, io il mezzo braccio, lui la mente generatrice, si è deciso di ripetere un esperimento ben riuscito in Olanda e vedere di nascosto l'effetto che farà. Per parlare di narrativa e non solo, ci si organizza qui per riunirsi intorno a un tavolo, prossimamente, a Bruxelles. Non siate timidi.
Adotta anche tu un ragazzo all'estero
Il collega da due settimane in Belgio ti chiede consigli sul dove andar in giro la sera a Bruxelles e tra le righe c'è quasi il messaggio di invitarlo ad uscire con te. Questo non lo adotto, hai pensato. Il ragazzo incontrato l'altra sera al centro, da pochi giorni a Bruxelles, ti domandava suggerimenti sul che fare il fine settimana, su che tipo di persone frequenti e nell'aria c'era la pubblicità subliminale di un invito allo scambio di numeri di telefono. Oggi non adotto nessuno, ti sei detto. Il conoscente dell'amico ti parla con insistenza di tante cose, troppe cose, ma sembra quasi chiaro che stia cercando di incrociare prossime uscite serali. Tutte adozioni mancate.
Quando arrivi in un paese straniero, appena agli inizi in una città sconosciuta, se qualcuno ti adotta succede che ti salva un po' la vita, te la rende molto più facile, introducendoti in un gruppo di sorrisi, inserendoti in un vortice di connessioni sociali che altrimenti magari avresti incontrato ugualmente, ma non così facilmente. Sbarcando in un paese straniero, che sia da Catania a Milano o da Brindisi a Londra, entrare in un buon circolo di reti sociali può cambiare totalmente l'esperienza e gli umori, rendere meno ostile l'adattamento o trasformare uno sforzo in una piacevole esperienza. Se si trova qualcuno che ci adotti, che ci apra le porte di serate organizzate, cene e incontri al parco, ecco all'improvviso mille connessioni altrimenti meno evidenti, si passa dall'obbligarsi ad uscire, magari frequentare qualche corso di lingua o incontrarsi su forum della propria comunità altrove, a ricevere chiamate ed inviti che danno una spinta incredibile al supporto morale, nel rispondere alle classiche domande iniziali o semplicemente nel condividere una risata innocua. Perché da soli non è mai la stessa esperienza e nella maggioranza dei casi in compagnia si migliora, grazie ed attraverso gli altri, ecco perché spesso ci si adotta a vicenda con il ragazzo incontrato in ostello la prima settimana o il connazionale incrociato per caso alla stazione e a cui mai avreste dato il vostro numero di telefono in patria o almeno non con tanta facilità. Si abbassano barriere, si vincono timidezze, si dimenticano avvertenze, nel nome del bisogno di contatti sociali, di una guida, un aiuto, un'adozione.
Poi, prima o poi, ci si ritrova dall'altro lato, quello di chi ha già il circolo di amicizie, l'agenda piena, gli impegni infrasettimanali e il weekend già stracolmo di cose da fare. E a quel punto si capisce che non si può adottare tutti, nella sicurezza dei propri circoli creati, senza quel bisogno di sopravvivenza iniziale, si rialzano le barriere, si ripristinano timidezze, si ricordano avvertenze, e allora una chiacchierata non va più in là di uno scambio di parole così come una bella serata magari non vuol dire necessariamente doversi incontrare di nuovo (o almeno non in modo programmato). Si fa una selezione, né più né meno dei locali, di quelli che in quel posto ci son nati e che spesso scambiamo per freddi e asociali, accusandoli a volte della nostra mancata integrazione o attribuendogli magari stereotipi non meritati.
A Dublino ci siamo adottati, io ed un ragazzo salentino, vivendo un mese in ostello, per poi adottarne altri ancora, fino a formare un gruppo. A Bruxelles mi ha adottato un amico che già viveva qui, per poi adottarne a mia volta altri, formando diversi gruppi, complementari. Ma se avessi fatto amicizia con tutti gli italiani (e non) conosciuti a Bruxelles, per esempio, non avrei più vita privata né tempo per gli amici iniziali. Selezioni. Ugualmente, se un brussellese facesse amicizia con tutti gli stranieri incontrati al bancone del bar per uno scambio di battute, non avrebbe più vita privata né tempo per gli amici di una vita. Selezioni. Nessun egoismo, nessun razzismo, nessuna discriminazione (o quasi).
Principalmente è uno dei motivi per cui si creano più facilmente gruppi tra nuovi arrivati che tra veterani o locali; o, nel caso peggiore, il perché nonostante un lavoro, un salario, un appartamento perfetto, si vorrebbe tornare a casa, quando non si era disposti a farsi adottare, non ci si è adottati a vicenda o, maledetta sfortuna, hanno adottato quello proprio davanti a te, nella fila disorganizzata alle amicizie.
Quando arrivi in un paese straniero, appena agli inizi in una città sconosciuta, se qualcuno ti adotta succede che ti salva un po' la vita, te la rende molto più facile, introducendoti in un gruppo di sorrisi, inserendoti in un vortice di connessioni sociali che altrimenti magari avresti incontrato ugualmente, ma non così facilmente. Sbarcando in un paese straniero, che sia da Catania a Milano o da Brindisi a Londra, entrare in un buon circolo di reti sociali può cambiare totalmente l'esperienza e gli umori, rendere meno ostile l'adattamento o trasformare uno sforzo in una piacevole esperienza. Se si trova qualcuno che ci adotti, che ci apra le porte di serate organizzate, cene e incontri al parco, ecco all'improvviso mille connessioni altrimenti meno evidenti, si passa dall'obbligarsi ad uscire, magari frequentare qualche corso di lingua o incontrarsi su forum della propria comunità altrove, a ricevere chiamate ed inviti che danno una spinta incredibile al supporto morale, nel rispondere alle classiche domande iniziali o semplicemente nel condividere una risata innocua. Perché da soli non è mai la stessa esperienza e nella maggioranza dei casi in compagnia si migliora, grazie ed attraverso gli altri, ecco perché spesso ci si adotta a vicenda con il ragazzo incontrato in ostello la prima settimana o il connazionale incrociato per caso alla stazione e a cui mai avreste dato il vostro numero di telefono in patria o almeno non con tanta facilità. Si abbassano barriere, si vincono timidezze, si dimenticano avvertenze, nel nome del bisogno di contatti sociali, di una guida, un aiuto, un'adozione.
Poi, prima o poi, ci si ritrova dall'altro lato, quello di chi ha già il circolo di amicizie, l'agenda piena, gli impegni infrasettimanali e il weekend già stracolmo di cose da fare. E a quel punto si capisce che non si può adottare tutti, nella sicurezza dei propri circoli creati, senza quel bisogno di sopravvivenza iniziale, si rialzano le barriere, si ripristinano timidezze, si ricordano avvertenze, e allora una chiacchierata non va più in là di uno scambio di parole così come una bella serata magari non vuol dire necessariamente doversi incontrare di nuovo (o almeno non in modo programmato). Si fa una selezione, né più né meno dei locali, di quelli che in quel posto ci son nati e che spesso scambiamo per freddi e asociali, accusandoli a volte della nostra mancata integrazione o attribuendogli magari stereotipi non meritati.
A Dublino ci siamo adottati, io ed un ragazzo salentino, vivendo un mese in ostello, per poi adottarne altri ancora, fino a formare un gruppo. A Bruxelles mi ha adottato un amico che già viveva qui, per poi adottarne a mia volta altri, formando diversi gruppi, complementari. Ma se avessi fatto amicizia con tutti gli italiani (e non) conosciuti a Bruxelles, per esempio, non avrei più vita privata né tempo per gli amici iniziali. Selezioni. Ugualmente, se un brussellese facesse amicizia con tutti gli stranieri incontrati al bancone del bar per uno scambio di battute, non avrebbe più vita privata né tempo per gli amici di una vita. Selezioni. Nessun egoismo, nessun razzismo, nessuna discriminazione (o quasi).
Principalmente è uno dei motivi per cui si creano più facilmente gruppi tra nuovi arrivati che tra veterani o locali; o, nel caso peggiore, il perché nonostante un lavoro, un salario, un appartamento perfetto, si vorrebbe tornare a casa, quando non si era disposti a farsi adottare, non ci si è adottati a vicenda o, maledetta sfortuna, hanno adottato quello proprio davanti a te, nella fila disorganizzata alle amicizie.
Lavorare come informatici a Bruxelles
Essere informatici oggi significa avere sicuramente molta più flessibilità ed opportunità rispetto ad altre figure professionali in termini di spostamenti in paesi stranieri e sono tanti quelli che in un modo o in un altro finiscono a Bruxelles. Bruxelles spesso non è la meta iniziale o almeno non prima di altre città con fama migliore (come Londra, Amsterdam, Dublino), ma tramite un cv pubblicato online arriva magari una chiamata ed ecco che si atterra da questi parti. Avevo già fornito alcune informazioni pratiche sul mondo del lavoro a Bruxelles, ma essendo informatico ed essendo fresco di nuovi colloqui e selezioni, preferisco trattare l'argomento in particolare.
Il mercato informatico a Bruxelles funziona in prevalenza tramite consulenza e non mancano i casi di outsourcing e body shopping, anche qui, ci sono aziende che fanno consulenze di secondo e terzo livello per ritrovarvi poi a riempire tre timesheet a fine mese o altre che vi potrebbero spostare da un progetto ad un altro ogni 3 mesi. Per fortuna, non sono la maggioranza, ma ci sono ed è meglio esserne al corrente. Moltissimi sono anche i freelancer ma non mancano posizioni interne in aziende di media e piccola taglia. In generale, se vi contatteranno dall'estero, vi sarà richiesta soltanto una conoscenza dell'inglese che, ovviamente, non dovrebbe fermarsi soltanto ai dettagli tecnici ed al dizionario classico degli informatici (ma nella maggior parte dei casi non si aspettano neanche la dominanza della lingua, tranquilli). Ovviamente in base alle responsabilità richieste ed alle posizioni, potrebbe essere necessario conoscere anche il francese e l'olandese. Da non sottovalutare, una volta trasferiti a Bruxelles, la necessità di studiare la prima e con il tempo, in base ad ambizioni e profili (personali e/o aziendali), l'eventualità di iniziare anche con la seconda. La vostra evoluzione professionale potrebbe dipendere anche (e giustamente) da fattori linguistici.
Anche qui, come altrove, i recruiter sono spesso sciacalli in cerca di cv da piazzare: alcune posizioni ed offerte di lavoro sono fittizie, servono soltanto a raccogliere cv (ve ne potreste accorgere se la descrizione è abbastanza generica, per esempio), spesso il recruiter che vi contatterà avrà letto velocemente il vostro cv in cerca di key word e niente più, quasi sempre vi riempiono la testa di parole (fanno il proprio mestiere, insomma) e cercano di mandarvi dove vogliono loro non dove sia meglio per voi. Ricordate quindi di mettere subito le cose in chiaro e filtrare le telefonate di recruiters in base alle offerte reali e a cosa realmente state cercando, in fondo saranno le aziende a pagarli, non voi, e siete voi che dovreste usarli da tramite, non il contrario (come spesso accade).
Il mercato informatico punta molto su tecnologie Java anche se il mondo .NET ha la sua buona fetta da difendere. Per quanto riguarda Java, come al solito per sviluppo web e back-end sono richieste conoscenze su GWT, WS (JAX-WS, JAX-RS), Spring (Core, MVC, Batch, Sec), ORM (JPA e/o Hibernate), application servers (JBoss, Weblogic e, anche se propriamente non lo è, Tomcat) e unit testing (JUnit ma anche Mockito, PowerMock). Queste almeno le tecnologie che tirano di più, ma il mercato è così vario da non poter elencarle tutte. Le metodologie di gestione più utilizzate sono quelle Agile (in Francia e Belgio ultimamente tira molto SCRUM), con la classica accoppiata di continuous integration Hudson+Sonar(+Cobertura). Progetti SOA ce ne sono a migliaia, mentre sono ancora rare le richieste per Cloud Computing (con skills magari richiesti su frameworks come Force.com). Se finora non ho nominato nessuna tecnologia conosciuta e cercavate sul mercato Java, beh allora c'è un problema.
Le certificazioni non sono quasi mai richieste o richieste in alcuni casi come un plus, ma raramente sono un requisito imprescindibile (e ne potremmo parlare molto, sul valore delle certificazioni, io ne ho 4, per esempio, ma servono più a vendere la propria voglia di imparare e l'impegno che eventuali skill tecnici, per quelli poi parla l'esperienza il più delle volte).
I colloqui ovviamente cambiano in base alla posizione richiesta e le aziende, in generale però: aspettatevi domande tecniche (design patterns, concorrenza, GC, transazioni), magari anche test tecnici (questionari, prove sul posto, pezzi di codice da capire e valutare), quasi mai domande Monte Fuji (domande tipo quanti barbieri ci sono a Bruxelles? Poste al solo scopo di testare la vostra abilità nel ragionamento). Ovviamente senza tralasciare i classici approcci: saper descrivere il proprio cv, la propria esperienza, mostrarsi motivato, conoscere un minimo l'azienda e così via.
Di motori di ricerca e bacheche di offerte online ce ne sono moltissime, quelle che consiglio sono: Monster, Linkedin, TipTopJobs, Ictjob, Stepstone. Si consiglia però un approccio pro-attivo. Per esempio, Linkedin offre diverse possibilità: potreste cercare profili di recruiters per vedere se nei loro status abbiano offerte di lavoro (spesso ne hanno) e per capire quali aziende stiano cercando sul mercato (e poi andare sul sito della specifica azienda e spulciare le posizioni aperte), nel caso abbiate un colloquio fissato potreste cercare la persona che vi testerà e magari studiarvi il suo cv (se tecnico) e durante il colloquio nominare una o due di quelle tecnologie (l'ho fatto e ho vinto più di un sorriso). I pigri avranno sempre vita difficile, ci sono migliaia di modi diversi di utilizzare la rete a proprio vantaggio, bisogna soltanto cercarli, anche inventandoseli.
Una grossa fetta degli informatici in cerca di lavoro a Bruxelles finisce spesso in Commissione. La Commissione Europea ha una miriade di progetti informatici aperti dove si lavora prettamente tramite consulenza ma generalmente con missioni molto lunghe (negli anni). Vi hanno contattato dall'Italia per un posto di sviluppatore Java in Commissione, è l'occasione che aspettavate per andare all'estero, finalmente, siete contentissimi ed in più un’esperienza in Commissione sul vostro cv sarà sicuramente fantastica. Penserete. E io non sarei d’accordo, ma sono punti di vista. Personalmente ho già rifiutato diverse proposte in diversi progetti in Commissione (anche come Architect), ma ho sempre detto no per i seguenti motivi: i ritmi sono estremamente lenti, tonnellate di meeting inutili, evoluzione professionale quasi nulla, meritocrazia applicata discutibile (puramente in base agli anni di esperienza e non alle capacità pratiche), tecnologie spesso vecchie o restii al cambio (in tanti mi hanno confessato di aver avuto più competenze prima di esservi entrati che dopo qualche anno di lavoro). Ovviamente le cose cambiano da progetto e dipartimento (è facile generalizzare, c'è anche chi lavora duro su progetti interessanti, magari) e sono compromessi, potrebbe essere il lavoro perfetto per molti: ambiente di lavoro molto rilassato, uffici centrali e ben collegati, inglese lingua dominante (anzi, chiamiamolo per quello che è, globish), il prestigio.
Senza contare ovviamente il classico package (quindi non solo per la Commissione) per i consulenti informatici a Bruxelles assunti dall’estero con contratto a tempo indeterminato (CDI in Belgio): macchina aziendale, benzina pagata fino a 30.000km, RSI applicato al salario (speciale sistema di tassazione, si paga quasi metà delle tasse sotto alcune condizioni).
Difficile coprire tutte le possibili sfaccettature e riassumere un mercato così vario ed in continua evoluzione. Se avete quindi domande, dubbi, correzioni o consigli, non siate timidi e ne parliamo nei commenti. E, ovviamente, in bocca al lupo per tutto.
Il mercato informatico a Bruxelles funziona in prevalenza tramite consulenza e non mancano i casi di outsourcing e body shopping, anche qui, ci sono aziende che fanno consulenze di secondo e terzo livello per ritrovarvi poi a riempire tre timesheet a fine mese o altre che vi potrebbero spostare da un progetto ad un altro ogni 3 mesi. Per fortuna, non sono la maggioranza, ma ci sono ed è meglio esserne al corrente. Moltissimi sono anche i freelancer ma non mancano posizioni interne in aziende di media e piccola taglia. In generale, se vi contatteranno dall'estero, vi sarà richiesta soltanto una conoscenza dell'inglese che, ovviamente, non dovrebbe fermarsi soltanto ai dettagli tecnici ed al dizionario classico degli informatici (ma nella maggior parte dei casi non si aspettano neanche la dominanza della lingua, tranquilli). Ovviamente in base alle responsabilità richieste ed alle posizioni, potrebbe essere necessario conoscere anche il francese e l'olandese. Da non sottovalutare, una volta trasferiti a Bruxelles, la necessità di studiare la prima e con il tempo, in base ad ambizioni e profili (personali e/o aziendali), l'eventualità di iniziare anche con la seconda. La vostra evoluzione professionale potrebbe dipendere anche (e giustamente) da fattori linguistici.
Anche qui, come altrove, i recruiter sono spesso sciacalli in cerca di cv da piazzare: alcune posizioni ed offerte di lavoro sono fittizie, servono soltanto a raccogliere cv (ve ne potreste accorgere se la descrizione è abbastanza generica, per esempio), spesso il recruiter che vi contatterà avrà letto velocemente il vostro cv in cerca di key word e niente più, quasi sempre vi riempiono la testa di parole (fanno il proprio mestiere, insomma) e cercano di mandarvi dove vogliono loro non dove sia meglio per voi. Ricordate quindi di mettere subito le cose in chiaro e filtrare le telefonate di recruiters in base alle offerte reali e a cosa realmente state cercando, in fondo saranno le aziende a pagarli, non voi, e siete voi che dovreste usarli da tramite, non il contrario (come spesso accade).
Il mercato informatico punta molto su tecnologie Java anche se il mondo .NET ha la sua buona fetta da difendere. Per quanto riguarda Java, come al solito per sviluppo web e back-end sono richieste conoscenze su GWT, WS (JAX-WS, JAX-RS), Spring (Core, MVC, Batch, Sec), ORM (JPA e/o Hibernate), application servers (JBoss, Weblogic e, anche se propriamente non lo è, Tomcat) e unit testing (JUnit ma anche Mockito, PowerMock). Queste almeno le tecnologie che tirano di più, ma il mercato è così vario da non poter elencarle tutte. Le metodologie di gestione più utilizzate sono quelle Agile (in Francia e Belgio ultimamente tira molto SCRUM), con la classica accoppiata di continuous integration Hudson+Sonar(+Cobertura). Progetti SOA ce ne sono a migliaia, mentre sono ancora rare le richieste per Cloud Computing (con skills magari richiesti su frameworks come Force.com). Se finora non ho nominato nessuna tecnologia conosciuta e cercavate sul mercato Java, beh allora c'è un problema.
Le certificazioni non sono quasi mai richieste o richieste in alcuni casi come un plus, ma raramente sono un requisito imprescindibile (e ne potremmo parlare molto, sul valore delle certificazioni, io ne ho 4, per esempio, ma servono più a vendere la propria voglia di imparare e l'impegno che eventuali skill tecnici, per quelli poi parla l'esperienza il più delle volte).
I colloqui ovviamente cambiano in base alla posizione richiesta e le aziende, in generale però: aspettatevi domande tecniche (design patterns, concorrenza, GC, transazioni), magari anche test tecnici (questionari, prove sul posto, pezzi di codice da capire e valutare), quasi mai domande Monte Fuji (domande tipo quanti barbieri ci sono a Bruxelles? Poste al solo scopo di testare la vostra abilità nel ragionamento). Ovviamente senza tralasciare i classici approcci: saper descrivere il proprio cv, la propria esperienza, mostrarsi motivato, conoscere un minimo l'azienda e così via.
Di motori di ricerca e bacheche di offerte online ce ne sono moltissime, quelle che consiglio sono: Monster, Linkedin, TipTopJobs, Ictjob, Stepstone. Si consiglia però un approccio pro-attivo. Per esempio, Linkedin offre diverse possibilità: potreste cercare profili di recruiters per vedere se nei loro status abbiano offerte di lavoro (spesso ne hanno) e per capire quali aziende stiano cercando sul mercato (e poi andare sul sito della specifica azienda e spulciare le posizioni aperte), nel caso abbiate un colloquio fissato potreste cercare la persona che vi testerà e magari studiarvi il suo cv (se tecnico) e durante il colloquio nominare una o due di quelle tecnologie (l'ho fatto e ho vinto più di un sorriso). I pigri avranno sempre vita difficile, ci sono migliaia di modi diversi di utilizzare la rete a proprio vantaggio, bisogna soltanto cercarli, anche inventandoseli.
Una grossa fetta degli informatici in cerca di lavoro a Bruxelles finisce spesso in Commissione. La Commissione Europea ha una miriade di progetti informatici aperti dove si lavora prettamente tramite consulenza ma generalmente con missioni molto lunghe (negli anni). Vi hanno contattato dall'Italia per un posto di sviluppatore Java in Commissione, è l'occasione che aspettavate per andare all'estero, finalmente, siete contentissimi ed in più un’esperienza in Commissione sul vostro cv sarà sicuramente fantastica. Penserete. E io non sarei d’accordo, ma sono punti di vista. Personalmente ho già rifiutato diverse proposte in diversi progetti in Commissione (anche come Architect), ma ho sempre detto no per i seguenti motivi: i ritmi sono estremamente lenti, tonnellate di meeting inutili, evoluzione professionale quasi nulla, meritocrazia applicata discutibile (puramente in base agli anni di esperienza e non alle capacità pratiche), tecnologie spesso vecchie o restii al cambio (in tanti mi hanno confessato di aver avuto più competenze prima di esservi entrati che dopo qualche anno di lavoro). Ovviamente le cose cambiano da progetto e dipartimento (è facile generalizzare, c'è anche chi lavora duro su progetti interessanti, magari) e sono compromessi, potrebbe essere il lavoro perfetto per molti: ambiente di lavoro molto rilassato, uffici centrali e ben collegati, inglese lingua dominante (anzi, chiamiamolo per quello che è, globish), il prestigio.
Senza contare ovviamente il classico package (quindi non solo per la Commissione) per i consulenti informatici a Bruxelles assunti dall’estero con contratto a tempo indeterminato (CDI in Belgio): macchina aziendale, benzina pagata fino a 30.000km, RSI applicato al salario (speciale sistema di tassazione, si paga quasi metà delle tasse sotto alcune condizioni).
Difficile coprire tutte le possibili sfaccettature e riassumere un mercato così vario ed in continua evoluzione. Se avete quindi domande, dubbi, correzioni o consigli, non siate timidi e ne parliamo nei commenti. E, ovviamente, in bocca al lupo per tutto.
Tre servizi da usare a Bruxelles
Villo. Il servizio di bike sharing esistente a Bruxelles già da qualche anno. Lo uso personalmente da 2 anni ed è praticissimo. Completi la form online, paghi 30 euro annui, ricevi la card Villo ed eccoti servita una bici quasi ovunque quasi sempre.
Pro:
- Si ha il vantaggio di una bici pur non essendone proprietario e a Bruxelles le distanze in bici diventano quasi nulle.
- Le stazioni villo sono oramai ovunque e nei pressi di ogni stazione metro/tram.
- La prima mezzora di utilizzo è gratuita e in 30 minuti si arriva un po' ovunque in bici a Bruxelles.
Contro:
- Le bici sono abbastanza pesanti e Bruxelles non è affatto piatta, a volte potreste pentirvi di aver scelto la bici, anche perché la città non è molto organizzata in quanto a percorsi riservati ai ciclisti e chi è al voltante crede spesso di essere un pilota di formula 1.
- Se la stazione Villo di destinazione è piena, beh vi tocca cercare la prossima nei paraggi. Pedalare, pedalare.
- Se la stazione Villo che volevate usare è vuota, beh vi tocca rinunciare alla bici o cercarne un'altra nei paraggi. Camminare, camminare.
Cambio. Il servizio di car sharing esistente a Bruxelles da diversi anni. Funziona come Villo ma invece delle bici si tratta di auto, con le uniche (grosse) differenze che bisogna riportare la macchina alla stazione di partenza e che il servizio funziona su prenotazione. Lo uso da quasi un anno, tra traslochi, spesoni mensili e occasioni particolari e non è per nulla male avere la possibilità di una macchina pur non avendone (felicemente) una a Bruxelles. Si compila la form online, si riceve un invito alla sede Cambio, si ottiene una card, un training di gruppo e via. Basta prenotare l'auto (su internet o per telefono), passare la card su un dispositivo installato sull'auto e l'auto si apre, all'interno è necessario introdurre il proprio codice segreto su un altro dispositivo interno e prendere le chiavi.
Pro:
- Le stazioni Cambio sono ovunque e sempre nei pressi di stazioni metro/tram, come per le Villo insomma.
- Diversi tipi di macchine sono disponibili, anche mini van molto utili in caso di traslochi.
- Dalle 22 alle 7 del mattino il servizio è gratuito.
Contro:
- Purtroppo non tutti sono civili e spesso si trovano le auto in condizioni non proprio accettabili.
- Prima di partire bisogna sempre ispezionare l'auto dentro e fuori in modo da poter segnalare difetti esistenti e bisogna quindi avere un minimo di conoscenze del francese nel caso si debba chiamare alla centrale.
- Nei fine settimana ed in altri giorni particolari è davvero difficile trovare un'auto disponibile se non prenotata almeno il giorno prima, quindi bisogna organizzarsi un po', non è esattamente come avere un'auto propria, insomma.
Gasap. Il servizio di prodotti BIO belgi esistente a Bruxelles da qualche anno. Si ha la possibilità di avere ogni settimana un paniere BIO disponibile in diverse dimensioni (e prezzi) di prodotti belgi coltivati da produttori locali che si possono direttamente incontrare instaurando un rapporto totalmente diverso dal classico consumatore di prodotti da supermercato.Lo uso da tre settimane e ho già scoperto due cose nuove.
Pro:
- Si aiuta l'economia locale, evitando di acquistare prodotti provenienti da altri continenti dove magari norme e diritti di lavoro sarebbero fuori dai nostri standard.
- Si mangiano prodotti sani, senza l'utilizzo di sostanze tossiche durante la fase di produzione.
- Si impara a conoscere prodotti che probabilmente non avremmo mai comprato al mercato o al supermercato (come il ravanello nero, la barbabietola o il salsifis, lo conoscevate voi il salsifis?).
Contro:
- Non si conosce a priori il contenuto del paniere, perché dipende dalla produzione corrente. Questo ovviamente obbliga ad un po' di flessibilità e qualche cambio di abitudini o a dover fare la spesa nel caso servisse qualcosa in particolare.
- Non essendoci importazioni, i panieri sono riempiti con i prodotti disponibili al momento, in base alla stagione e alla produzione locale. Se si voleva qualcosa in particolare (e oggi siamo abituati ad avere qualsiasi tipo di frutta o verdura in qualsiasi giorno dell'anno), beh c'è bisogno di far la spesa al supermercato.
- Il paniere minimo (da 10 euro) a volte è troppo anche per una coppia. Il servizio non è propriamente pensato per scapoli o coppie che consumino poche verdure o che non amino cucinare.
Pro:
- Si ha il vantaggio di una bici pur non essendone proprietario e a Bruxelles le distanze in bici diventano quasi nulle.
- Le stazioni villo sono oramai ovunque e nei pressi di ogni stazione metro/tram.
- La prima mezzora di utilizzo è gratuita e in 30 minuti si arriva un po' ovunque in bici a Bruxelles.
Contro:
- Le bici sono abbastanza pesanti e Bruxelles non è affatto piatta, a volte potreste pentirvi di aver scelto la bici, anche perché la città non è molto organizzata in quanto a percorsi riservati ai ciclisti e chi è al voltante crede spesso di essere un pilota di formula 1.
- Se la stazione Villo di destinazione è piena, beh vi tocca cercare la prossima nei paraggi. Pedalare, pedalare.
- Se la stazione Villo che volevate usare è vuota, beh vi tocca rinunciare alla bici o cercarne un'altra nei paraggi. Camminare, camminare.
Cambio. Il servizio di car sharing esistente a Bruxelles da diversi anni. Funziona come Villo ma invece delle bici si tratta di auto, con le uniche (grosse) differenze che bisogna riportare la macchina alla stazione di partenza e che il servizio funziona su prenotazione. Lo uso da quasi un anno, tra traslochi, spesoni mensili e occasioni particolari e non è per nulla male avere la possibilità di una macchina pur non avendone (felicemente) una a Bruxelles. Si compila la form online, si riceve un invito alla sede Cambio, si ottiene una card, un training di gruppo e via. Basta prenotare l'auto (su internet o per telefono), passare la card su un dispositivo installato sull'auto e l'auto si apre, all'interno è necessario introdurre il proprio codice segreto su un altro dispositivo interno e prendere le chiavi.
Pro:
- Le stazioni Cambio sono ovunque e sempre nei pressi di stazioni metro/tram, come per le Villo insomma.
- Diversi tipi di macchine sono disponibili, anche mini van molto utili in caso di traslochi.
- Dalle 22 alle 7 del mattino il servizio è gratuito.
Contro:
- Purtroppo non tutti sono civili e spesso si trovano le auto in condizioni non proprio accettabili.
- Prima di partire bisogna sempre ispezionare l'auto dentro e fuori in modo da poter segnalare difetti esistenti e bisogna quindi avere un minimo di conoscenze del francese nel caso si debba chiamare alla centrale.
- Nei fine settimana ed in altri giorni particolari è davvero difficile trovare un'auto disponibile se non prenotata almeno il giorno prima, quindi bisogna organizzarsi un po', non è esattamente come avere un'auto propria, insomma.
Gasap. Il servizio di prodotti BIO belgi esistente a Bruxelles da qualche anno. Si ha la possibilità di avere ogni settimana un paniere BIO disponibile in diverse dimensioni (e prezzi) di prodotti belgi coltivati da produttori locali che si possono direttamente incontrare instaurando un rapporto totalmente diverso dal classico consumatore di prodotti da supermercato.Lo uso da tre settimane e ho già scoperto due cose nuove.
Pro:
- Si aiuta l'economia locale, evitando di acquistare prodotti provenienti da altri continenti dove magari norme e diritti di lavoro sarebbero fuori dai nostri standard.
- Si mangiano prodotti sani, senza l'utilizzo di sostanze tossiche durante la fase di produzione.
- Si impara a conoscere prodotti che probabilmente non avremmo mai comprato al mercato o al supermercato (come il ravanello nero, la barbabietola o il salsifis, lo conoscevate voi il salsifis?).
Contro:
- Non si conosce a priori il contenuto del paniere, perché dipende dalla produzione corrente. Questo ovviamente obbliga ad un po' di flessibilità e qualche cambio di abitudini o a dover fare la spesa nel caso servisse qualcosa in particolare.
- Non essendoci importazioni, i panieri sono riempiti con i prodotti disponibili al momento, in base alla stagione e alla produzione locale. Se si voleva qualcosa in particolare (e oggi siamo abituati ad avere qualsiasi tipo di frutta o verdura in qualsiasi giorno dell'anno), beh c'è bisogno di far la spesa al supermercato.
- Il paniere minimo (da 10 euro) a volte è troppo anche per una coppia. Il servizio non è propriamente pensato per scapoli o coppie che consumino poche verdure o che non amino cucinare.
Di cervelli in fuga e neuroni mancanti
Succede che leggi il solito periodico articolo sulla brain drain, succede che scrivi un post elencando 10 cose che sicuramente ti capiteranno se vai all'estero e che nessuno ti racconta prima di partire perché tutti intenti a pubblicizzarti l'unica soluzione possibile (ma non sempre va bene, no), succede che il post venga pubblicato su un network che promuove scambi culturali europei e succede che il post giri un po' in rete. Bene. Succede che tra i commenti a quel post, all'articolo del network e la sua pagina facebook, leggi che l'autore di quel post debba essere un bambaccione, un Giacomo Leopardi, un chiuso di mente, un bimbominchia, un poveraccio, uno che fa ridere, un provinciale, uno da bar sport e tanto altro. Bene. Succede che le critiche fanno bene, altrimenti si potrebbe avere l'impressione che sia tutto fittizio, unidirezionale; succede anche che c'è chi si trova d'accordo e chi esprime il disaccordo in modi diversi; e succede che magari il titolo, magari qualche approfondimento, forse il testo poteva essere scritto meglio. Benissimo. Eppoi le critiche vanno incassate perché fanno bene, certo magari dopo quasi cinque anni all'estero qualcosa la dovresti sapere a riguardo. Qualcosa.
Però. Succede che proprio su certe comunità online e certe pagine facebook ci vadano quelli che all'estero ci vogliono andare o che già hanno un piano a breve termine, succede che tra loro tanti si facciamo una risata di quei 10 punti (e ridere fa bene al cuore, per fortuna) fissandosi magari sul dito mentre dietro c'è una luna enorme (ma enorme davvero) e fermandosi alla superficie, spesso spavaldi, ma ad ogni modo non inclini al dialogo civile; e succederà, non fosse altro che per un mero campionario statistico, che molti di loro all'estero ci andranno davvero. Appunto. Il punto è proprio quello: quando dicono che all'estero c'è un'Italia migliore, che fuori c'è una selezione o che bisogna andar via per poi tornare e addirittura migliorare il paese (come se l'estero fosse davvero una scuola, ma da una scuola ne escono formati solo gli alunni capaci, non tutti), ecco si sottostima sempre un punto fondamentale, importantissimo. Al gate all'aeroporto, quando controllano la carta d'identità o il passaporto, non c'è filtro, no, di nessun tipo, all'estero ci vanno anche le teste di cazzo, fuori si forma lo stesso sottoinsieme di eccelsi e di ebeti, di onesti e di ladroni, una micro-Italia che vien fuori da quello che è il paese di partenza. Certo, rimaniamo ottimisti, poi alcuni migliorano. Alcuni.
Però, quando dicono 'vivo all'estero' non hanno detto nulla. Nulla. Non è un aggettivo né un discriminante. Un altro stereotipo, questo è. Vive all'estero è uno stereotipo, Eh ma quello vive all'estero è un contenitore spesso pieno di cose immaginarie. Quando si parla noiosamente con quell'espressione, cervelli in fuga, si dimentica spesso che all'estero ci vanno anche quelli con i neuroni mancanti, che sono frutto della nostra società, non vengono mica dal nulla, se l'Italia è quello che è al momento non sarà mica tutta colpa della classe politica (che pur emerge da una certa società, appunto). Quindi sappiatelo, non bisognerebbe mai ammirare qualcuno solo perché vive all'estero (o perché ha intenzione di andare), perché vivere altrove non lo farebbe in alcun modo più speciale di voi, potrebbe essere l'ennesimo a fissare il dito, orgoglioso di vivere in questo o quel paese ai rientri in patria, ma poi incastrato lì con pochi conoscenti, nel compromesso di un lavoro che non voleva, a lamentarsi di un intorno che non gli piace. E ce ne sono. Tanti.
Però. Succede che proprio su certe comunità online e certe pagine facebook ci vadano quelli che all'estero ci vogliono andare o che già hanno un piano a breve termine, succede che tra loro tanti si facciamo una risata di quei 10 punti (e ridere fa bene al cuore, per fortuna) fissandosi magari sul dito mentre dietro c'è una luna enorme (ma enorme davvero) e fermandosi alla superficie, spesso spavaldi, ma ad ogni modo non inclini al dialogo civile; e succederà, non fosse altro che per un mero campionario statistico, che molti di loro all'estero ci andranno davvero. Appunto. Il punto è proprio quello: quando dicono che all'estero c'è un'Italia migliore, che fuori c'è una selezione o che bisogna andar via per poi tornare e addirittura migliorare il paese (come se l'estero fosse davvero una scuola, ma da una scuola ne escono formati solo gli alunni capaci, non tutti), ecco si sottostima sempre un punto fondamentale, importantissimo. Al gate all'aeroporto, quando controllano la carta d'identità o il passaporto, non c'è filtro, no, di nessun tipo, all'estero ci vanno anche le teste di cazzo, fuori si forma lo stesso sottoinsieme di eccelsi e di ebeti, di onesti e di ladroni, una micro-Italia che vien fuori da quello che è il paese di partenza. Certo, rimaniamo ottimisti, poi alcuni migliorano. Alcuni.
Però, quando dicono 'vivo all'estero' non hanno detto nulla. Nulla. Non è un aggettivo né un discriminante. Un altro stereotipo, questo è. Vive all'estero è uno stereotipo, Eh ma quello vive all'estero è un contenitore spesso pieno di cose immaginarie. Quando si parla noiosamente con quell'espressione, cervelli in fuga, si dimentica spesso che all'estero ci vanno anche quelli con i neuroni mancanti, che sono frutto della nostra società, non vengono mica dal nulla, se l'Italia è quello che è al momento non sarà mica tutta colpa della classe politica (che pur emerge da una certa società, appunto). Quindi sappiatelo, non bisognerebbe mai ammirare qualcuno solo perché vive all'estero (o perché ha intenzione di andare), perché vivere altrove non lo farebbe in alcun modo più speciale di voi, potrebbe essere l'ennesimo a fissare il dito, orgoglioso di vivere in questo o quel paese ai rientri in patria, ma poi incastrato lì con pochi conoscenti, nel compromesso di un lavoro che non voleva, a lamentarsi di un intorno che non gli piace. E ce ne sono. Tanti.
10 motivi per (non) andare all'estero
Periodicamente si torna a parlare di brain drain, per dichiarazioni discutibili di politici di turno o perché le statistiche vanno aggiornate e così le conclusioni spremute dai loro risultati. Andiamo allora controcorrente e proviamo (facendo uno sforzo) a riportare un decalogo del perché andare all'estero potrebbe non essere la scelta ottimale:
1. La lingua. Altrove si parla un'altra lingua, che per quanto possiate parlare (o credere di parlare) bene, rimane comunque una lingua straniera. Se vi sentite pronti ad affrontare i primi colloqui o le prime avventure tra accenti maldestri e verbi mal coniugati, provate a pensarvi la prima settimana in un ospedale, perché qualcosa del genere può sempre succedere nelle coincidenze incaute della vita, e pensate a dover descrivere le parti del corpo che vi fanno male (quelle per cui non è facile risolvere tutto in un qui, là, questa cosa) o i sintomi (vi brucia? vi preme? vi tira?). Certo oggi è tutto più facile, ma bisogna anche avere fortuna, siete pronti?
2. Lo shock culturale. Un altro paese è un altro paese, altri modi di fare, di essere, di vivere, e questi modi vi potrebbero sembrare tutti sbagliati, vittime dello shock culturale, quando si perdono i punti di riferimento e dopo un periodo estasiante da foglio bianco dovuto al cambio, vi potreste ritrovare in un umori grigi tra rifiuti e lamenti, rigettando il diverso che vi circonda all'estero. Ci vuole comprensione, autocritica e voglia di capire. Pronti?
3. Le reti sociali. E non quelle virtuali, ma di amicizie e conoscenze reali. In un paese straniero le reti sociali sono da ricostruire totalmente e se non si hanno già degli amici sul posto, non sempre è facilissimo crearsi un proprio gruppo, soprattutto con i locali, già impegnati nelle proprie reti sociali come voi lo sareste in patria, o con i colleghi, spesso non coetanei e magari restii a rapporti extra-lavorativi. Corsi di lingua, vita mondana, coincidenze, possono aiutare, con un po' di fortuna, pazienza, voglia di conoscere. Siete pronti?
4. Il tuo paese, visto da fuori. Uscire e vedersi da fuori non è semplice e non sempre l'effetto fa piacere. Sgretolare convinzioni secolari, punti fermi figli di educazione nazionale o propaganda unilaterale, può lasciare un senso di smarrimento ma anche difesa, avendo l'impressione che un attacco, una critica o un commento non siano diretti al paese ma a voi. Ci saranno differenze tra il paese reale e quello percepito e non reagire sempre a spada tratta non è facile. Siete pronti a voler conoscere un altro paese, il vostro?
5. Gli stereotipi. Ritrovarsi a rappresentare l'Italia tutta, tu, in una sola persona, in conversazioni o rapporti con stranieri, significa anche avere una certa responsabilità, nel confermare o contraddire gli stereotipi con cui gli italiani sono visti dagli occhi altrui e diventare una finestra su un paese che attraverso voi non sarà sicuramente pizza, sole e mandolino, ma non sarà neanche quello reale, perché voi non siete l'Italia tutta né probabilmente la conoscete tutta, voi siete voi, solo che gli altri spesso non lo sanno e vi confondono con un italiano. Siete pronti anche voi a muovere la testa e non solo il corpo?
6. Il lamento. Potreste trasformarvi in un lamento continuo, perché il clima non è ideale, perché i trasporti non sono come immaginati, perché il lavoro è un compromesso, perché il cibo non vi piace, perché non c'è mamma a cucinarvi e perché fuori anche le piccole cose, quelle una volta etichettate come insignificanti, possono avere un peso nella bilancia quotidiana quando si rompono gli schemi e con essi le abitudini e bisogna ricostruire un po' tutto. E se il lamento non viene da voi, potrebbe venire da vostri connazionali all'estero. Ci vuole resistenza, pazienza e serenità. Pronti?
7. I ritorni a casa. Tornando a casa ci sarà una voce che prima non esisteva nella testa, quella del confronto. Tutto sarà un confronto, nuovo, perché finalmente si ha un termine di paragone. I ritorni a casa, insomma, non saranno mai più gli stessi, rimettendo in discussione molto di quello che precedentemente rappresentava il vostro intorno abituale in un equilibrio oramai rotto. E le vacanze non saranno mai vacanze. Pronti a non sentirvi a vostro agio a casa?
8. I commenti. Diventare italiano all'estero significa anche portarsi dietro una certa lista di etichette, a cui bene o male ci si può abituare con risposte pronte o spallucce veloci. Ci sarà sempre il genio di turno a commentarvi come vigliacco, perché è facile partire e lasciare tutto, è facile criticare il proprio paese da fuori, perché (d'improvviso) non si conosce più il paese non vivendoci realmente o a denigrare il paese da cui venite ed una qualità di vita che non può, in nessun modo, essere superiore a quella italiana. E tante altre storielle che ritroverete puntualmente tra ritorni e chat. Sinceramente, chi ve lo fa fare?
9. Le mancanze. Ci sarà sempre quel momento, quello in cui manca una piazza, una panchina, il sorriso di un amico, la carezza della famiglia o il piatto della nonna, è il problema dell'emigrante, e con esso la voglia di ritornare, il rimorso di non aver fatto quello anziché questo. E ancora, ci sarà la mancanza di quel passato comune di voi verso gli altri e viceversa, quello che solo una cultura comune può costruire e che non troverete in amici stranieri e potrebbe portare rapporti sociali non più lontano di un certo limite. Ve la sentite?
10. Il limbo. Partire è un po' morire, dicono, e infatti qualcosa muore mentre altro nasce. Partire significa perdere qualcosa della propria nazionalità e guadagnarne un'altra, di cosa, che non ha nazionalità, o le ha tutte. Diventare uno straniero ovunque può però avere effetti collaterali, come non sentir nessun luogo proprio, sentirsi a disagio nell'intorno natio o cadere nella voglia di voler cambiar luogo ogni anno, continuamente, alla ricerca di se stessi quando il signor Se stessi è con voi, basta solo fermarsi ed ascoltarlo. Sicuri di voler iniziare?
Detto questo, la felicità è soprattutto dove vivi. Appena (e se) potete però, fate la valigia e andate via, almeno per un po', male non vi farà.
1. La lingua. Altrove si parla un'altra lingua, che per quanto possiate parlare (o credere di parlare) bene, rimane comunque una lingua straniera. Se vi sentite pronti ad affrontare i primi colloqui o le prime avventure tra accenti maldestri e verbi mal coniugati, provate a pensarvi la prima settimana in un ospedale, perché qualcosa del genere può sempre succedere nelle coincidenze incaute della vita, e pensate a dover descrivere le parti del corpo che vi fanno male (quelle per cui non è facile risolvere tutto in un qui, là, questa cosa) o i sintomi (vi brucia? vi preme? vi tira?). Certo oggi è tutto più facile, ma bisogna anche avere fortuna, siete pronti?
2. Lo shock culturale. Un altro paese è un altro paese, altri modi di fare, di essere, di vivere, e questi modi vi potrebbero sembrare tutti sbagliati, vittime dello shock culturale, quando si perdono i punti di riferimento e dopo un periodo estasiante da foglio bianco dovuto al cambio, vi potreste ritrovare in un umori grigi tra rifiuti e lamenti, rigettando il diverso che vi circonda all'estero. Ci vuole comprensione, autocritica e voglia di capire. Pronti?
3. Le reti sociali. E non quelle virtuali, ma di amicizie e conoscenze reali. In un paese straniero le reti sociali sono da ricostruire totalmente e se non si hanno già degli amici sul posto, non sempre è facilissimo crearsi un proprio gruppo, soprattutto con i locali, già impegnati nelle proprie reti sociali come voi lo sareste in patria, o con i colleghi, spesso non coetanei e magari restii a rapporti extra-lavorativi. Corsi di lingua, vita mondana, coincidenze, possono aiutare, con un po' di fortuna, pazienza, voglia di conoscere. Siete pronti?
4. Il tuo paese, visto da fuori. Uscire e vedersi da fuori non è semplice e non sempre l'effetto fa piacere. Sgretolare convinzioni secolari, punti fermi figli di educazione nazionale o propaganda unilaterale, può lasciare un senso di smarrimento ma anche difesa, avendo l'impressione che un attacco, una critica o un commento non siano diretti al paese ma a voi. Ci saranno differenze tra il paese reale e quello percepito e non reagire sempre a spada tratta non è facile. Siete pronti a voler conoscere un altro paese, il vostro?
5. Gli stereotipi. Ritrovarsi a rappresentare l'Italia tutta, tu, in una sola persona, in conversazioni o rapporti con stranieri, significa anche avere una certa responsabilità, nel confermare o contraddire gli stereotipi con cui gli italiani sono visti dagli occhi altrui e diventare una finestra su un paese che attraverso voi non sarà sicuramente pizza, sole e mandolino, ma non sarà neanche quello reale, perché voi non siete l'Italia tutta né probabilmente la conoscete tutta, voi siete voi, solo che gli altri spesso non lo sanno e vi confondono con un italiano. Siete pronti anche voi a muovere la testa e non solo il corpo?
6. Il lamento. Potreste trasformarvi in un lamento continuo, perché il clima non è ideale, perché i trasporti non sono come immaginati, perché il lavoro è un compromesso, perché il cibo non vi piace, perché non c'è mamma a cucinarvi e perché fuori anche le piccole cose, quelle una volta etichettate come insignificanti, possono avere un peso nella bilancia quotidiana quando si rompono gli schemi e con essi le abitudini e bisogna ricostruire un po' tutto. E se il lamento non viene da voi, potrebbe venire da vostri connazionali all'estero. Ci vuole resistenza, pazienza e serenità. Pronti?
7. I ritorni a casa. Tornando a casa ci sarà una voce che prima non esisteva nella testa, quella del confronto. Tutto sarà un confronto, nuovo, perché finalmente si ha un termine di paragone. I ritorni a casa, insomma, non saranno mai più gli stessi, rimettendo in discussione molto di quello che precedentemente rappresentava il vostro intorno abituale in un equilibrio oramai rotto. E le vacanze non saranno mai vacanze. Pronti a non sentirvi a vostro agio a casa?
8. I commenti. Diventare italiano all'estero significa anche portarsi dietro una certa lista di etichette, a cui bene o male ci si può abituare con risposte pronte o spallucce veloci. Ci sarà sempre il genio di turno a commentarvi come vigliacco, perché è facile partire e lasciare tutto, è facile criticare il proprio paese da fuori, perché (d'improvviso) non si conosce più il paese non vivendoci realmente o a denigrare il paese da cui venite ed una qualità di vita che non può, in nessun modo, essere superiore a quella italiana. E tante altre storielle che ritroverete puntualmente tra ritorni e chat. Sinceramente, chi ve lo fa fare?
9. Le mancanze. Ci sarà sempre quel momento, quello in cui manca una piazza, una panchina, il sorriso di un amico, la carezza della famiglia o il piatto della nonna, è il problema dell'emigrante, e con esso la voglia di ritornare, il rimorso di non aver fatto quello anziché questo. E ancora, ci sarà la mancanza di quel passato comune di voi verso gli altri e viceversa, quello che solo una cultura comune può costruire e che non troverete in amici stranieri e potrebbe portare rapporti sociali non più lontano di un certo limite. Ve la sentite?
10. Il limbo. Partire è un po' morire, dicono, e infatti qualcosa muore mentre altro nasce. Partire significa perdere qualcosa della propria nazionalità e guadagnarne un'altra, di cosa, che non ha nazionalità, o le ha tutte. Diventare uno straniero ovunque può però avere effetti collaterali, come non sentir nessun luogo proprio, sentirsi a disagio nell'intorno natio o cadere nella voglia di voler cambiar luogo ogni anno, continuamente, alla ricerca di se stessi quando il signor Se stessi è con voi, basta solo fermarsi ed ascoltarlo. Sicuri di voler iniziare?
Detto questo, la felicità è soprattutto dove vivi. Appena (e se) potete però, fate la valigia e andate via, almeno per un po', male non vi farà.
Ma quanti evasori all'estero
Sei partito per l'estero con una valigia piena di speranze, incertezze e voglia di fare e hai iniziato a lavorare altrove? E hai iniziato a guadagnare, magari con qualche progetto di ritorno anche se poi ma non si sa dopo vedremo adesso non ci penso? E magari hai iniziato a lavorare a metà anno, magari a settembre? E tra trovare casa, trovare lavoro, lingua nuova, città nuova, reti sociali nuove, il pub, la scuola di lingue, l'ufficio e tanto altro, hai mai pensato per un attimo al fisco italiano? Sì, fisco, proprio lui. No? Allora probabilmente sei un evasore o lo sei stato. Ma, tranquillo: non sei solo e non è facile capirlo. Qui ci proviamo, ringraziando Francesco (da Bruxelles) e Simone (in partenza per Londra) per chiarimenti, correzioni e revisioni delle informazioni.
Già, perché per gli italiani all'estero non iscritti all'AIRE (e nel primo anno quasi nessuno lo è, anche perché l'AIREnon accetta consiglia iscrizioni per periodi maggiori all'anno almeno durante il primo anno) che abbiano lavorato in un paese straniero meno di 183 giorni durante il primo anno dovrebbero sempre pensare al fisco italiano e non solo loro. Anche per gli inscritti all'AIRE, bisogna guardare ai propri interessi mantenuti nel territorio nazionale e addirittura si parla non solo di proprietà, attività o statuti, ma anche delle presenza fisica dei familiari (sì, lo so, sembra assurdo) o di un conto in banca e l'uso di una carta di credito.
Il problema nasce dalla differenza tra domicilio fiscale e residenza fiscale, anche se affinché il soggetto venga riconosciuto fiscalmente residente in Italia, sarà sufficiente dimostrare anche soltanto la sussistenza in Italia del suo domicilio civilistico (cioè non iscritti all'AIRE, come una gran maggior parte degli italiani all'estero, nei primi anni ma anche oltre). E il proprio legame con l'Italia deve intendersi comprensivo non solo dei rapporti di natura patrimoniale ed economica, ma anche (e soprattutto) di quelli morali, familiari e sociali. La residenza fiscale in Italia si concretizza qualora la famiglia dell'interessato abbia mantenuto la dimora in Italia o comunque nel caso in cui emergano atti o fatti tali da indurre a ritenere che il soggetto interessato ha lì mantenuto il centro dei suoi affari ed interessi. Sorpresi? Dovreste pagare le tasse soltanto in Italia qualora si verificassero almeno una delle contemporaneamente tre condizioni all'estero: 1) il lavoratore residente in Italia presta la sua attività altrove per meno di 183 giorni; 2) le remunerazioni sono pagate da un datore di lavoro residente in Italia; 3) l'onere non è sostenuto da una stabile organizzazione o base fissa che il datore di lavoro ha nel paese straniero. Va bene, non capita spesso. Nel momento in cui tali condizioni non si verifichino, entrano in vigore le varie convenzioni (qui quella ancora in vigore tra Belgio ed Italia, per esempio) tra stato straniero ed Italia, per evitare le doppie tassazioni, stabilendo talvolta che i redditi di lavoro dipendente percepiti debbano essere assoggettati a tassazione sia in Italia sia nel paese straniero (sì, in entrambi). E se il lavoratore all'estero non è iscritto all'AIRE (quindi residente in Italia) ma è: I) impiegato per un periodo superiore ai 183 giorni annui, II) impiegato da una azienda straniera III) l'onere non sia sostituito da una stabile organizzazione o base fissa che il datore di lavoro ha nel paese straniero; ecco, l'imposizione fiscale sarà per la maggior parte esclusiva del paese sede del posto di lavoro, ma non è ancora sufficiente: gli stessi redditi dovrebbero (ma occhio alle convenzioni) essere comunicati all'Agenzia delle Entrate che applicherà, dove ritenuto il caso, l'imposizione rimanente. Supponendo che il lavoratore all'estero abbia già corrisposto il 30%, dovrà, se opportuno, pagare al fisco italiano il restante 10%. Questione di aliquote.
Ovviamente dichiarazione non significa tributo, probabilmente una dichiarazione non obbligherebbe a pagare nulla al fisco italiano, ma lascia ad ogni modo aperta la possibilità del dubbio, dove appunto si cela l'evasione. Inoltre, per redditi minori a 7.500 euro, il fisco italiano non richiede nessuna dichiarazione, ovviamente bisogna calcolare nel caso dei 183 giorni se tra lavoro in Italia e lavoro estero si sia superato il limite. Quindi, riassumendo, per i non iscritti all'AIRE, bisognerebbe dichiarare solo in Italia lavorando per meno di 183 giorni (e le altre condizioni di sopra), altrimenti bisognerebbe dichiarare (che non significa necessariamente pagare) le tasse nei due paesi (Italia e paese straniero), con un occhio alle convenzioni tra di due stati, che spesso rendono opzionale la dichiarazione nel paese natio; per gli iscritti all'AIRE invece, le tasse bisognerebbe pagarle soltanto nel paese straniero lavorando per più di 183 giorni (con datore di lavoro estero e stabile organizzazione all'estero), altrimenti ancora in Italia. Se in Italia avete lasciato una macchina a vostro nome o ancor peggio possedete proprietà, a quel punto dichiarare i vostri introiti esteri diventa un obbligo che, se volete, potete ignorare, ma ne saprete di più un giorno magari, al vostro rientro definitivo o alla richiesta di pensione o anche prima, visto che il fisco può applicare presunzioni sulle vostre connessioni con l'Italia e aprire un fascicolo.
Esempio facile: hai iniziato a lavorare a novembre a Dublino, hai un conto corrente in Italia e trasferisci denaro dall'Irlanda su quel conto. Ovviamente hai lavorato meno di 183 giorni in quell'anno e poi non hai dichiarato nulla in Italia, perché giustamente vivevi a Dublino, avevi lavoro a Dublino e pagavi le tassi a Dublino. Ecco, potresti essere un evasore (e come te migliaia) se nello stesso anno hai lavorato anche in Italia e la somma dei due redditi supera la quota dei 7.500.
Altro esempio: non siete iscritti all'AIRE, in Italia avete ancora un'auto, lavorate per più di 183 giorni in un paese straniero, dove pagate regolarmente le tasse, ma non dichiarate nulla in Italia. Ecco, magari non dovreste pagare nulla al fisco italiano, ma non avendo dichiarato nulla potreste essere già in difetto, la risposta bisognerà trovarla nelle convenzioni tra i due stati.
Morale della favola, è bene sapere che il cordone ombelicale non si taglia soltanto con una valigia ed un volo low cost ed i confini fiscali hanno disegni ben diversi da quelli naturali, linguistici o soltanto immaginati, purtroppo. Ovviamente, se avete esperienze a riguardo siete i benvenuti nei commenti, perché a quanto pare anche gli addetti ai lavori hanno pareri distinti e spesso contraddittori.
Già, perché per gli italiani all'estero non iscritti all'AIRE (e nel primo anno quasi nessuno lo è, anche perché l'AIRE
Il problema nasce dalla differenza tra domicilio fiscale e residenza fiscale, anche se affinché il soggetto venga riconosciuto fiscalmente residente in Italia, sarà sufficiente dimostrare anche soltanto la sussistenza in Italia del suo domicilio civilistico (cioè non iscritti all'AIRE, come una gran maggior parte degli italiani all'estero, nei primi anni ma anche oltre). E il proprio legame con l'Italia deve intendersi comprensivo non solo dei rapporti di natura patrimoniale ed economica, ma anche (e soprattutto) di quelli morali, familiari e sociali. La residenza fiscale in Italia si concretizza qualora la famiglia dell'interessato abbia mantenuto la dimora in Italia o comunque nel caso in cui emergano atti o fatti tali da indurre a ritenere che il soggetto interessato ha lì mantenuto il centro dei suoi affari ed interessi. Sorpresi? Dovreste pagare le tasse soltanto in Italia qualora si verificasse
Ovviamente dichiarazione non significa tributo, probabilmente una dichiarazione non obbligherebbe a pagare nulla al fisco italiano, ma lascia ad ogni modo aperta la possibilità del dubbio, dove appunto si cela l'evasione. Inoltre, per redditi minori a 7.500 euro, il fisco italiano non richiede nessuna dichiarazione, ovviamente bisogna calcolare nel caso dei 183 giorni se tra lavoro in Italia e lavoro estero si sia superato il limite. Quindi, riassumendo, per i non iscritti all'AIRE, bisognerebbe dichiarare solo in Italia lavorando per meno di 183 giorni (e le altre condizioni di sopra), altrimenti bisognerebbe dichiarare (che non significa necessariamente pagare) le tasse nei due paesi (Italia e paese straniero), con un occhio alle convenzioni tra di due stati, che spesso rendono opzionale la dichiarazione nel paese natio; per gli iscritti all'AIRE invece, le tasse bisognerebbe pagarle soltanto nel paese straniero lavorando per più di 183 giorni (con datore di lavoro estero e stabile organizzazione all'estero), altrimenti ancora in Italia. Se in Italia avete lasciato una macchina a vostro nome o ancor peggio possedete proprietà, a quel punto dichiarare i vostri introiti esteri diventa un obbligo che, se volete, potete ignorare, ma ne saprete di più un giorno magari, al vostro rientro definitivo o alla richiesta di pensione o anche prima, visto che il fisco può applicare presunzioni sulle vostre connessioni con l'Italia e aprire un fascicolo.
Esempio facile: hai iniziato a lavorare a novembre a Dublino, hai un conto corrente in Italia e trasferisci denaro dall'Irlanda su quel conto. Ovviamente hai lavorato meno di 183 giorni in quell'anno e poi non hai dichiarato nulla in Italia, perché giustamente vivevi a Dublino, avevi lavoro a Dublino e pagavi le tassi a Dublino. Ecco, potresti essere un evasore (e come te migliaia) se nello stesso anno hai lavorato anche in Italia e la somma dei due redditi supera la quota dei 7.500.
Altro esempio: non siete iscritti all'AIRE, in Italia avete ancora un'auto, lavorate per più di 183 giorni in un paese straniero, dove pagate regolarmente le tasse, ma non dichiarate nulla in Italia. Ecco, magari non dovreste pagare nulla al fisco italiano, ma non avendo dichiarato nulla potreste essere già in difetto, la risposta bisognerà trovarla nelle convenzioni tra i due stati.
Morale della favola, è bene sapere che il cordone ombelicale non si taglia soltanto con una valigia ed un volo low cost ed i confini fiscali hanno disegni ben diversi da quelli naturali, linguistici o soltanto immaginati, purtroppo. Ovviamente, se avete esperienze a riguardo siete i benvenuti nei commenti, perché a quanto pare anche gli addetti ai lavori hanno pareri distinti e spesso contraddittori.
La coscienza (degli acquisti) che ci manca
Torniamo da poco da un centro Oxfam, dove abbiamo lasciato due sacchi di tutto: jeans, giacche, t-shirt, maglioni e anche una cravatta; è incredibile quante cose escono fuori da un armadio, cose quasi dimenticate, cose prima amate e poi scartate, colori neanche troppo sbiaditi ma parte di un tempo passato o soltanto di un gusto cambiato, ma cose praticamente quasi nuove, lì, lasciate per mesi, a volte anche un anno, magari soltanto perché associate ad un ricordo, un periodo o quell'immancabile scrupolo del dire "poi qualche volta lo indosserò". E invece poi rimangono lì.
Abbiamo riempito due sacchi e li abbiamo portati ad un centro Oxfam nei paraggi: raccolgono vestiti di ogni tipo, quelli in buono stato vengono lasciati alla vendita di seconda mano, tutto ciò in stato deteriorato viene inviato al riciclaggio. I ricavi vengono investiti in progetti umanitari. Lì abbiamo trovato delle signore gentilissime ad accoglierci con un sorriso sereno, già impegnate a selezionare da una montagna di articoli d'abbigliamento. Ci siam fatti un giro tra tutto quello che era in vendita di seconda mano ed è impressionante vedere quanto vestiario praticamente nuovo sia stato accumulato (facile il cliché, ma la maggioranza era abbigliamento femminile, bisogna dirlo). A saperlo prima, avrei comprato lì tutto l'occorrente per andare a sciare e probabilmente anche qualcosa di più.
Nell'era di H&M, di Zara e delle tante altre catene di abbigliamento a basso costo, è facile comprare e comprare e comprare, quando qualcosa non costa praticamente nulla in relazione al proprio stipendio e spesso si compra senza la coscienza degli acquisti, magari soltanto per qualche mese, spesso pensando di indossarlo soltanto un paio di volte ma il prezzo ne vale la pena e allora subito alla cassa, specialmente nella pazzia dei saldi e così si accumula materiale senza la coscienza dell'ambiente, dell'impatto dei 10 euro spesi per una maglietta in più e di tanto altro di cui magari non se ne avrebbe davvero bisogno.
Proprio mentre stiamo per uscire dal centro Oxfam, una signora entrata dopo di noi prende un maglioncino appena aggiunto alla selezione di seconda mano: è il mio, 9 euro in saldi da Zara, messo non più di tre volte in un anno, praticamente nuovo. Magari lo avrà comprato, magari no, ma almeno non è più in un armadio a far compagnia al silenzio e forse chissà, verrà venduto e contribuirà ad un progetto umanitario. Mica male.
Abbiamo riempito due sacchi e li abbiamo portati ad un centro Oxfam nei paraggi: raccolgono vestiti di ogni tipo, quelli in buono stato vengono lasciati alla vendita di seconda mano, tutto ciò in stato deteriorato viene inviato al riciclaggio. I ricavi vengono investiti in progetti umanitari. Lì abbiamo trovato delle signore gentilissime ad accoglierci con un sorriso sereno, già impegnate a selezionare da una montagna di articoli d'abbigliamento. Ci siam fatti un giro tra tutto quello che era in vendita di seconda mano ed è impressionante vedere quanto vestiario praticamente nuovo sia stato accumulato (facile il cliché, ma la maggioranza era abbigliamento femminile, bisogna dirlo). A saperlo prima, avrei comprato lì tutto l'occorrente per andare a sciare e probabilmente anche qualcosa di più.
Nell'era di H&M, di Zara e delle tante altre catene di abbigliamento a basso costo, è facile comprare e comprare e comprare, quando qualcosa non costa praticamente nulla in relazione al proprio stipendio e spesso si compra senza la coscienza degli acquisti, magari soltanto per qualche mese, spesso pensando di indossarlo soltanto un paio di volte ma il prezzo ne vale la pena e allora subito alla cassa, specialmente nella pazzia dei saldi e così si accumula materiale senza la coscienza dell'ambiente, dell'impatto dei 10 euro spesi per una maglietta in più e di tanto altro di cui magari non se ne avrebbe davvero bisogno.
Proprio mentre stiamo per uscire dal centro Oxfam, una signora entrata dopo di noi prende un maglioncino appena aggiunto alla selezione di seconda mano: è il mio, 9 euro in saldi da Zara, messo non più di tre volte in un anno, praticamente nuovo. Magari lo avrà comprato, magari no, ma almeno non è più in un armadio a far compagnia al silenzio e forse chissà, verrà venduto e contribuirà ad un progetto umanitario. Mica male.
Un negozio non tanto differente da quelli super conosciuti, ma questo aiuta gli altri. Foto scattata qui. |
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