Ma che davvero per la nuova legge controesodo, così, di colpo, adesso tutti gli italiani all'estero decideranno di tornare? Per quelle righe acclamate come un regalo di Natale, come una presa di coscienza, come un atteso passo verso il rientro di quella massa di cervelli in fuga, capitale economico in uscita nei conti dei numeri e del progresso? Peccato che, quel decreto, venga proprio da una classe politica che fino a pochi giorni prima aveva dimostrato per l'ennesima volta la sua materia prima, la sua corruzione, la sua svendita fisica e morale; peccato che ad eleggerla sia stato proprio quell'insieme gelatinoso d'insani rappresentanti della democrazia e detentori del volere degli italiani, sì proprio loro, e anche di quelli emigrati.
Ma che davvero per la nuova legge controesodo, così, di colpo, adesso tutti gli italiani all'estero decideranno di lasciare tutto quello creato altrove in anni di sacrifici, battaglie, compromessi, sconfitte e soddisfazioni? Come se di colpo bastassero tre anni di benefici fiscali a cambiare un paese, una mentalità, un'attitudine culturale, un equilibrio sociale che magari fu davvero causa della partenza, della valigia e dell'emigrazione? O bastano davvero tre anni di sgravi fiscali per ridurre di colpo l'equazione di benessere risolta in un altro posto, per disincantare piaceri ed emozioni scoperte in qualche altro intorno nel mondo e richiamare alla patria, al portafoglio e la dichiarazione dei redditi? Peccato che una legge non è magia e anche se ci sarà quel 30% in meno per lei, quel 20% in meno per lui, fuori per la strada, in ufficio o in coda alla posta, sarà esattamente lo stesso e se s'era lasciato per cambiare, il controesodo cambia poco.
Ma non sarebbe stato più utile ed efficace un cambiamento più pratico e reale, una bella dimissione di massa, una rinuncia di chi è colluso con la mafia, di chi ha cambiato parte ignorando l'elettorato dimenticato, di chi sa gridare solamente al razzismo e l'intolleranza, di chi lascia crollare mura antiche pompeane, di chi vorrebbe arrestare già nella culla chiunque domani possa scendere in piazza e gridare al dissenso, di chi s'inchina alle istituzioni medioevali e papali e chi sorride davanti all'ennesimo plastico di Vespa o detta le notizie di propaganda e insipidità ai telegiornali unilaterali, ecco, non sarebbe stato un miglior regalo di Natale?
Ma che davvero gli italiani all'estero non aspettavano altro che qualche soldo in più in Italia per tornare a casa, rientrare nei confini di lingua e sole, volare indietro e non lasciare più pasta, pizza e busta paga? E tu, tu davvero tornerai ringraziando col sorriso il controesodo? Io no, ma quel provvedimento è diventato l'ennesimo pretesto familiare per rinforzare la classica domanda "ma quando torni?" perché adesso ci sono anche gli sgravi fiscali, c'è la coscienza delle cose, il governo ti aiuterà a rientrare (ma chi aveva chiesto aiuto? Ha bisogno d'aiuto chi è in difficoltà non chi sta bene altrove... ) e più che un regalo è servito ad inquinare umori altrimenti migliori. Succede anche questo, il giorno di Natale.
La fuga dei cervelli al sapor di cioccolato
Così dopo una sosta a Roma e prima del ritorno a casa, il rientro dell'emigrante fa una tappa oramai tradizionale all'università, per il pranzo natalizio del laboratorio dove hai lavorato a due tesi di laurea, dove poi hai continuato con un contratto di un annetto e dove a malincuore hai deciso di non tentare un dottorato di ricerca per umori allora poco stabili scaturiti poi nella partenza per Dublino.
Quando il professore scarta la scatola dei famosi cioccolatini belgi che hai portato nella valigia mai troppo piena per certi pensieri, tra il laboratorio affollato, la tavola bandita a festa e le tante voci, forchette e sorrisi, c'è chi non aspetta altro che provare una pralina e mischiarne al ripieno i mille sapori già assaggiati. Ed ecco che il prof si lascia andare ad una battuta che irrimediabilmente farà echo tra gli sguardi persi nel finestrino del treno lungo il viaggio di ritorno:
Fuga di cervelli - urla alla folla affaccendata, con la scatola di praline tra le mani - e rientro di cioccolata... beh non so se lo scambio valga davvero la pena...
Quella cioccolata - pensi - potrà essere (e sicuramente sarà stata) anche dolcissima per il palato, ma che retrogusto amaro avrà avuto scendendo in gola dopo quelle parole...
Quando il professore scarta la scatola dei famosi cioccolatini belgi che hai portato nella valigia mai troppo piena per certi pensieri, tra il laboratorio affollato, la tavola bandita a festa e le tante voci, forchette e sorrisi, c'è chi non aspetta altro che provare una pralina e mischiarne al ripieno i mille sapori già assaggiati. Ed ecco che il prof si lascia andare ad una battuta che irrimediabilmente farà echo tra gli sguardi persi nel finestrino del treno lungo il viaggio di ritorno:
Fuga di cervelli - urla alla folla affaccendata, con la scatola di praline tra le mani - e rientro di cioccolata... beh non so se lo scambio valga davvero la pena...
Quella cioccolata - pensi - potrà essere (e sicuramente sarà stata) anche dolcissima per il palato, ma che retrogusto amaro avrà avuto scendendo in gola dopo quelle parole...
I pensieri dei calvi
Ti chiama alla sua scrivania, il collega responsabile della documentazione e di chissà quale altro compito noioso, un parigino sulla cinquantina o forse più, dalla fronte stempiata da età e natura, ed inizia a vomitare un fiume di parole, specifiche e protocolli, come fosse (e sicuramente lo era) cantilena già ripetuta, macinata e bestemmiata. E mentre quella fiumana di regole e imperativi si riversa per l'ennesima volta nell'aria, tu ti fissi involontariamente sulle forme della sua fronte, tra le rughe ed i segni del tempo, partendo dalle sopracciglia folte e percorrendola fin dove la calvizia lascia spazio a qualche capello sporadico, testimone sopravvissuto di un passato remoto. Lui non può seguire il tuo sguardo perché troppo intento a non saltare nessuna procedura, a non dimenticare nessun particolare di tutto quello che sicuramente non farai prima delle vacanze di Natale e forse neanche dopo, perché le priorità non son affatto per la documentazione e già lo sai.
Ma devi stare lì, ad ascoltare, magari con un po' più di concentrazione, anche se non ci riesci, quel cranio calvo ti richiama. I pensieri dei calvi - pensi - non hanno nascondiglio, non possono rifugiarsi all'ombra di un ricciolo o dietro una ciocca di capelli maldestra, stanno lì, in balia del sole, della pioggia, della polvere. D'inverno, probabilmente, con questo freddo, senza una chioma a coprirli, devono star tutti vicini a riscaldarsi a vicenda, saranno pochi quei pensieri solitari, quelli un po' soli, distanti dagli altri, quelli spesso ribelli. Ecco, i calvi non saranno mai rivoluzionari d'inverno. D'estate, invece, non potranno mai stare tutti insieme, lì, in balia del sole, senza un ciuffo a fargli ombra, dovranno evitare gruppi troppo affollati, tanti pensieri diversi magari storditi dal caldo ed il rosso della pelle abbronzata. Ecco, i calvi d'estate saranno sempre un po' più pazzi. In primavera - ma certo, pensi - in primavera i calvi avranno i pensieri migliori.
E se qualcuno prova a leggergli la mente, ad un calvo, è tutto più facile, non deve filtrare i mille intrecci di capelli e ricci, le tele di pettinature spettinate, no, deve soltanto attraversare la pelle e leggere quei pensieri, senza protezione, senza scudi pelosi. Non c'è davvero un nascondiglio - e invece no, eccolo - se non le orecchie - e gli fissi di colpo le orecchie, ma certo le orecchie - dove i pensieri più lesti possono rifugiarsi, per non essere letti. Ad esempio, leggesti che i problemi matematici sono spesso risolti nella parte prefrontale della corteccia cerebrale, mentre la corteccia visiva primaria, dietro, lì, vicino al collo, è dove l'immaginazione prende piede. Ma certo - quasi esulti - le fantasie saranno sempre al sicuro, lì, vicino al collo c'è sempre un po' di chioma rimasta viva, i calvi sapranno immaginare in modo perfetto tutto l'anno. Quando un giorno sarò calvo - pensi e sorridi -, perché prima o poi succederà, non avrò di che preoccuparmi, la mia fantasia sarà al sicuro. L'ho scientificamente dimostrato - ti complimenti con te stesso, quando ad un certo punto ti accorgi che il collega ti fissa con aria turbata.
lui: "Hai capito quello che ti ho appena spiegato?"
tu: "Sì, sì, nessun problema".
lui: "Bene, allora ripetimelo".
Ecco, adesso prova a spiegargli tutte quelle teorie, prova a ringraziarlo per il risultato scientifico ottenuto, tutto grazie alla sua calvizia, tutto mentre avresti dovuto impegnarti sulle specifiche e quelle sigle da memorizzare... provaci un po' terminando in qualche modo quel "Ehmmm" appena iniziato.
Ma devi stare lì, ad ascoltare, magari con un po' più di concentrazione, anche se non ci riesci, quel cranio calvo ti richiama. I pensieri dei calvi - pensi - non hanno nascondiglio, non possono rifugiarsi all'ombra di un ricciolo o dietro una ciocca di capelli maldestra, stanno lì, in balia del sole, della pioggia, della polvere. D'inverno, probabilmente, con questo freddo, senza una chioma a coprirli, devono star tutti vicini a riscaldarsi a vicenda, saranno pochi quei pensieri solitari, quelli un po' soli, distanti dagli altri, quelli spesso ribelli. Ecco, i calvi non saranno mai rivoluzionari d'inverno. D'estate, invece, non potranno mai stare tutti insieme, lì, in balia del sole, senza un ciuffo a fargli ombra, dovranno evitare gruppi troppo affollati, tanti pensieri diversi magari storditi dal caldo ed il rosso della pelle abbronzata. Ecco, i calvi d'estate saranno sempre un po' più pazzi. In primavera - ma certo, pensi - in primavera i calvi avranno i pensieri migliori.
E se qualcuno prova a leggergli la mente, ad un calvo, è tutto più facile, non deve filtrare i mille intrecci di capelli e ricci, le tele di pettinature spettinate, no, deve soltanto attraversare la pelle e leggere quei pensieri, senza protezione, senza scudi pelosi. Non c'è davvero un nascondiglio - e invece no, eccolo - se non le orecchie - e gli fissi di colpo le orecchie, ma certo le orecchie - dove i pensieri più lesti possono rifugiarsi, per non essere letti. Ad esempio, leggesti che i problemi matematici sono spesso risolti nella parte prefrontale della corteccia cerebrale, mentre la corteccia visiva primaria, dietro, lì, vicino al collo, è dove l'immaginazione prende piede. Ma certo - quasi esulti - le fantasie saranno sempre al sicuro, lì, vicino al collo c'è sempre un po' di chioma rimasta viva, i calvi sapranno immaginare in modo perfetto tutto l'anno. Quando un giorno sarò calvo - pensi e sorridi -, perché prima o poi succederà, non avrò di che preoccuparmi, la mia fantasia sarà al sicuro. L'ho scientificamente dimostrato - ti complimenti con te stesso, quando ad un certo punto ti accorgi che il collega ti fissa con aria turbata.
lui: "Hai capito quello che ti ho appena spiegato?"
tu: "Sì, sì, nessun problema".
lui: "Bene, allora ripetimelo".
Ecco, adesso prova a spiegargli tutte quelle teorie, prova a ringraziarlo per il risultato scientifico ottenuto, tutto grazie alla sua calvizia, tutto mentre avresti dovuto impegnarti sulle specifiche e quelle sigle da memorizzare... provaci un po' terminando in qualche modo quel "Ehmmm" appena iniziato.
Il problema dell'emigrante
Il problema dell'emigrante è che egli non c'è, non c'è e non può esserci perché è semplicemente altrove, è andato via, è scappato, è soltanto emigrato, è andato a provare, ha iniziato a viaggiare, ha detto che torna presto, poi però rimane un altro anno e un altro e un altro ancora e alla fine rimane altrove, mentre nel suo paese non c'è, tra i suoi amici, a casa sua: non c'è. Ed è questo il problema dell'emigrante. Perché mentre vive all'estero e si ubriaca d'emozioni, di esperienze, cade, si rialza, piange, esulta, nei mille compromessi, tra difficoltà e vittorie, certo ci son tanti problemi da affrontare, da risolvere, a cui adeguarsi, ma uno tra tutti è quello dell'assenza, l'assenza dalle mura domestiche, dagli abbracci di chi ha condiviso la propria infanzia con lui ed i luoghi non più semplici oggetti ma parti del proprio essere, perché quando si cresce in un luogo poi se ne diventa parte e un muretto, una panca, un giardinetto o una piazza non son più semplici muretti o strade ma contenitori di ricordi, immagini e memorie.
E l'emigrante non c'è, non c'è tra le abitudini ed i compromessi in cui sono immersi tutti quelli che ha lasciato, non c'è in quell'intorno, non ne subisce le conseguenze, gli influssi ed i cambiamenti, non si deve adattare a cose poi divenute nel frattempo naturali per chi lì ha continuato ad esserci. E se per qualcuno questa assenza da schemi che siano politici, economici, sociali, se per qualcuno possa essere un vantaggio, una liberazione, una meta ambita e raggiunta, poi per altri si traduce in una sensazione, un sentimento strano al rientro, quel sentirsi quasi straniero a casa, davanti alla tv, tra i manifesti per la strada, durante una fila ad uno sportello. Stranieri. Perché non c'è stato, l'emigrante non c'è stato mentre questo cambiava e quello si adattava e l'altra cosa ancora nuova, in quel modo, e allora così e non in altra maniera; mentre lui scopriva un altro mondo, altri modi di pensare, di vedere le cose; e cambiava. E non è soltanto il proprio armadietto che magari la mamma ha adibito a qualche altro uso spostando il resto della sua roba da qualche altra parte, non è solo il senso unico sotto casa che ha cambiato direzione di marcia e lo fa sentire stranito mentre parcheggia, è anche quello ma c'è dell'altro, c'è che magari la coppia di amici adesso non sta più insieme, il gruppo di ragazzi si è diviso perché lui ha litigato con l'altro e lei ha cambiato abitudini; c'è che nel frattempo i genitori sono invecchiati, inesorabilmente, e ritrovarli a qualche mese di distanza poi fa un certo effetto; c'è che i nonni, sì i nonni stanno per morire e durante gli ultimi anni lui non c'è stato, è stato all'estero, è stato altrove, li ha visti a Natale, un pranzo estivo e forse a Pasqua. Quando arriverà quella chiamata, perché sì, prima o poi arriverà, ad annunciare la morte del nonno, tutti i sorrisi, le gioie, le soddisfazioni raccolte in anni all'estero cadranno come sabbia tra le mani, perché nel frattempo a casa la vita andava avanti, inevitabilmente, e lui non c'era, non c'era a vivere gli ultimi anni del nonno così come i primi anni del nipote, non c'era mentre il babbo aumentava i capelli bianchi e la mamme le rughe sulle mani. Non c'era e non potrà tornare indietro.
Certo, lo stesso problema può essere comune a chi parte da Catania per andar a lavorare a Milano, e anche lui è un emigrante, è andato altrove; ma la cosa magari diventa più marcata per chi deve contare le distanze in migliaia di chilometri, per chi spesso non può tornare a casa per un fine settimana ma ha bisogno di più giorni e spesso le vacanze a lavoro sono da schedulare minuziosamente per organizzare rientri e vacanze che non siano rientri. Certo può arginare il problema, può cercare di aumentare la frequenza dei ritorni, può telefonare più spesso con chiamate che non siano la solita filastrocca "che fai, come stai, che hai mangiato, che tempo fa", come lo potrebbe fare il catanese andato a Milano, ma sull'emigrante pesa ancora un altro fattore: è andato via, un via che oggi dovrebbe sembrare più leggero, ma che spesso pesa per non essere rimasto nei confini nazionali, in un intorno allora comune, in una scelta per alcuni addirittura egoista ma che invece non è altro che un fenomeno naturale sicuramente agevolato dai progressi moderni.
E l'emigrante non c'è, non c'è tra le abitudini ed i compromessi in cui sono immersi tutti quelli che ha lasciato, non c'è in quell'intorno, non ne subisce le conseguenze, gli influssi ed i cambiamenti, non si deve adattare a cose poi divenute nel frattempo naturali per chi lì ha continuato ad esserci. E se per qualcuno questa assenza da schemi che siano politici, economici, sociali, se per qualcuno possa essere un vantaggio, una liberazione, una meta ambita e raggiunta, poi per altri si traduce in una sensazione, un sentimento strano al rientro, quel sentirsi quasi straniero a casa, davanti alla tv, tra i manifesti per la strada, durante una fila ad uno sportello. Stranieri. Perché non c'è stato, l'emigrante non c'è stato mentre questo cambiava e quello si adattava e l'altra cosa ancora nuova, in quel modo, e allora così e non in altra maniera; mentre lui scopriva un altro mondo, altri modi di pensare, di vedere le cose; e cambiava. E non è soltanto il proprio armadietto che magari la mamma ha adibito a qualche altro uso spostando il resto della sua roba da qualche altra parte, non è solo il senso unico sotto casa che ha cambiato direzione di marcia e lo fa sentire stranito mentre parcheggia, è anche quello ma c'è dell'altro, c'è che magari la coppia di amici adesso non sta più insieme, il gruppo di ragazzi si è diviso perché lui ha litigato con l'altro e lei ha cambiato abitudini; c'è che nel frattempo i genitori sono invecchiati, inesorabilmente, e ritrovarli a qualche mese di distanza poi fa un certo effetto; c'è che i nonni, sì i nonni stanno per morire e durante gli ultimi anni lui non c'è stato, è stato all'estero, è stato altrove, li ha visti a Natale, un pranzo estivo e forse a Pasqua. Quando arriverà quella chiamata, perché sì, prima o poi arriverà, ad annunciare la morte del nonno, tutti i sorrisi, le gioie, le soddisfazioni raccolte in anni all'estero cadranno come sabbia tra le mani, perché nel frattempo a casa la vita andava avanti, inevitabilmente, e lui non c'era, non c'era a vivere gli ultimi anni del nonno così come i primi anni del nipote, non c'era mentre il babbo aumentava i capelli bianchi e la mamme le rughe sulle mani. Non c'era e non potrà tornare indietro.
Certo, lo stesso problema può essere comune a chi parte da Catania per andar a lavorare a Milano, e anche lui è un emigrante, è andato altrove; ma la cosa magari diventa più marcata per chi deve contare le distanze in migliaia di chilometri, per chi spesso non può tornare a casa per un fine settimana ma ha bisogno di più giorni e spesso le vacanze a lavoro sono da schedulare minuziosamente per organizzare rientri e vacanze che non siano rientri. Certo può arginare il problema, può cercare di aumentare la frequenza dei ritorni, può telefonare più spesso con chiamate che non siano la solita filastrocca "che fai, come stai, che hai mangiato, che tempo fa", come lo potrebbe fare il catanese andato a Milano, ma sull'emigrante pesa ancora un altro fattore: è andato via, un via che oggi dovrebbe sembrare più leggero, ma che spesso pesa per non essere rimasto nei confini nazionali, in un intorno allora comune, in una scelta per alcuni addirittura egoista ma che invece non è altro che un fenomeno naturale sicuramente agevolato dai progressi moderni.
L'emigrante lo sapeva, sapeva tutto questo prima di partire, ma ha prevalso la voglia di provarci, quel foglio bianco da riempire, magari la rabbia verso insoddisfazioni continue o soltanto quel bisogno incontrollabile di scoprire, di confrontarsi e condividere; e se non sapeva, se lo ignorava, se non pensava fosse così, poi con il tempo ne avrà compreso la presenza. E per quanto possa gioire, per quanto possa confermare la volontà di continuare, di rimanere altrove, perché è felice, perché sta bene, perché sta meglio, l'emigrante porterà sempre con se quel senso di assenza, costretto tra una smorfia amara, una lacrima passeggera o semplicemente una consapevolezza digerita, a convivere con esso.
Lo scienziato folle
Lo scienziato folle... (perché folle? Vi dirò perché divenne folle). Laureato, premiato, stimato, questo scienziato studiò l’amore, quando un un giorno s’era innamorato d’una fanciulla dal dolce calore. Eccitato, strambo, imbarazzato, abbandonò le ricerche sul gene dedicandosi al sentimento nato, ma senza sapere delle future pene. Sempre rinchiuso nei suoi studi non conosceva il mondo di fuori, contro gli altri non aveva scudi né immaginava imminenti dolori. La ragazza lo trasse in inganno per scoprire i ritrovati segreti, causando al cuore gran danno fra menzogne e mirabili reti. Presto lo scienziato capì tutto: fu tradito e poi abbandonato. Ora il sentimento era distrutto e il suo pianto rimase isolato. Nel laboratorio aveva un amico, un robot che costruì in passato: - Compagno mio, sai che ti dico? L’amore è sofferenza, m’ha dato sorrisi e lacrime, voli e impatto. Sto male, amico mio, sto male! Mi rapì il cuore… senza riscatto. Era meglio essere altro animale o forse un robot anch'io, sicuro, immune all’amore! Devo tentare!
Divenne folle, dedicando il futuro allo strambo progetto: cambiare, smettere d’essere umano: Bene! Anch'io un robot! Senza cuore! Dimenticherò lei e le altre iene, così non proverò mai più dolore!
Lavorò mesi e mesi al progetto, sino a giungere a buoni risultati: aveva silicio e microchip nel petto e i cinque sensi tutti elettrizzati. Finalmente terminò il suo lavoro: era felice di non poter mai più amare o forse illuso d’aver spento il coro che nel cuore sa far innamorare. Ma l’amore non si regola in un tasto, non si scinde dal suo sito naturale, pur se c’è di carne e ferro impasto e la mente divien sede demenziale. D’improvviso infatti sfogò in un pianto, quando vide una foto della ragazza:
- No! – urlò malato – Che schianto! Non credevo davvero… Impazza ancora, in me, l’amore… Adesso? Lo scan disk per trovar l’errore! Ecco cosa fare: subito! Che fesso! Devo analizzare questo cuore…
Lo scienziato folle... (Perché folle? Divenne folle per amore). Collegando al computer generale il cuore ormai mezzo robotizzato, eseguì estesa scansione globale: Tutto perfetto, era tutto ordinato. Lo scienziato soffriva d’amore: - Oh, computer, ti prego, aiuto! Ora... Deframmentami il cuore. Oppure... un virus sconosciuto innesta nel sistema e danneggia ogni cosa, ogni circuito, presto! Sento quel coro, dentro echeggia e non smette, anzi si fa più lesto!
Prima di arrestare il povero matto (non era più umano né congegno) il computer con un calcolo esatto lo collegò al web e in tutto il regno, su ogni pc in rete apparve l’amore: ogni sito presentò la triste storia, tutto internet si riempì del dolore dello scienziato folle senza gloria. Anch'ella lo rivide nello schermo, la ragazza che lo ferì per gioco: s’osservarono: lui rimase fermo e in entrambi si riaccese il fuoco. Ma troppo tardi! Destino beffardo! Dal cielo si scagliò un forte lampo che colpì il laboratorio come dardo nel bersaglio: non ci fu più scampo. Esplose il computer e il complesso, ogni sogno crollò in quel momento non appena il disastro fu trasmesso alla metà robotica del cuore spento. La ragazza rimase così ad osservare, piangendo sul modem, senza ritorno: ma troppo tardi! Era tardi per amare e tornare indietro, fino a quel giorno...
Non un battito né un output rovinato: lo scienziato folle era morto dal dolore e dal processore nel petto installato scivolò una lacrima: frammento d’amore. Lo scienziato folle... (Perché folle? Quando il cuore si nutre di follia...).
P.s. Perché questo post? Niente, ho ritrovato questa favoletta che scrissi nel 2001 (quando avevo 19anni) e ho pensato di condividerla. Ce ne sarebbero tante altre, ma c'ho vergogna.
Divenne folle, dedicando il futuro allo strambo progetto: cambiare, smettere d’essere umano: Bene! Anch'io un robot! Senza cuore! Dimenticherò lei e le altre iene, così non proverò mai più dolore!
Lavorò mesi e mesi al progetto, sino a giungere a buoni risultati: aveva silicio e microchip nel petto e i cinque sensi tutti elettrizzati. Finalmente terminò il suo lavoro: era felice di non poter mai più amare o forse illuso d’aver spento il coro che nel cuore sa far innamorare. Ma l’amore non si regola in un tasto, non si scinde dal suo sito naturale, pur se c’è di carne e ferro impasto e la mente divien sede demenziale. D’improvviso infatti sfogò in un pianto, quando vide una foto della ragazza:
- No! – urlò malato – Che schianto! Non credevo davvero… Impazza ancora, in me, l’amore… Adesso? Lo scan disk per trovar l’errore! Ecco cosa fare: subito! Che fesso! Devo analizzare questo cuore…
Lo scienziato folle... (Perché folle? Divenne folle per amore). Collegando al computer generale il cuore ormai mezzo robotizzato, eseguì estesa scansione globale: Tutto perfetto, era tutto ordinato. Lo scienziato soffriva d’amore: - Oh, computer, ti prego, aiuto! Ora... Deframmentami il cuore. Oppure... un virus sconosciuto innesta nel sistema e danneggia ogni cosa, ogni circuito, presto! Sento quel coro, dentro echeggia e non smette, anzi si fa più lesto!
Prima di arrestare il povero matto (non era più umano né congegno) il computer con un calcolo esatto lo collegò al web e in tutto il regno, su ogni pc in rete apparve l’amore: ogni sito presentò la triste storia, tutto internet si riempì del dolore dello scienziato folle senza gloria. Anch'ella lo rivide nello schermo, la ragazza che lo ferì per gioco: s’osservarono: lui rimase fermo e in entrambi si riaccese il fuoco. Ma troppo tardi! Destino beffardo! Dal cielo si scagliò un forte lampo che colpì il laboratorio come dardo nel bersaglio: non ci fu più scampo. Esplose il computer e il complesso, ogni sogno crollò in quel momento non appena il disastro fu trasmesso alla metà robotica del cuore spento. La ragazza rimase così ad osservare, piangendo sul modem, senza ritorno: ma troppo tardi! Era tardi per amare e tornare indietro, fino a quel giorno...
Non un battito né un output rovinato: lo scienziato folle era morto dal dolore e dal processore nel petto installato scivolò una lacrima: frammento d’amore. Lo scienziato folle... (Perché folle? Quando il cuore si nutre di follia...).
P.s. Perché questo post? Niente, ho ritrovato questa favoletta che scrissi nel 2001 (quando avevo 19anni) e ho pensato di condividerla. Ce ne sarebbero tante altre, ma c'ho vergogna.
L'amore il 14 dicembre
lui: Scusa ho fretta... devo andare, devo andare...
l'altro: Andare dove?
lui: Ma che non lo sai?
l'altro: Che?
lui: C'è la fiducia il 14, bisogna fare in fretta che il mercato è aperto!
l'altro: Ah sì, al governo, ma... la fiducia bisogna guadagnarsela nella vita, mi diceva il nonno...
lui: Ma più che guadagnarsela, bisogna venderla, mi diceva il ragioniere...
l'altro: In che senso? No aspetta, io intendevo... verso il paese, verso i cittadini, dobbiamo guadagnarci la loro fiducia, altrimenti che senso ha?
lui: Ha il senso che guadagni, che per il consenso c'è tempo, ma non ora... adesso è tempo di comprare, o meglio... di vendersi
l'altro: In che senso?
lui: Che se mi compri adesso, già mi fido di te, subito, adesso, all'istante, ti voto la fiducia!
l'altro: Ma come fai? Se ieri hai detto che non ti saresti mai fidato... se ieri avevi detto di non scendere a compromessi... che mai e poi mai con loro, e lo hai detto pubblicamente, tutti lo sanno, perderai la loro fiducia!
lui: Lo so, ma c'è chi si compra la mia, guarda, se mi compri già ti amo!
l'altro: E ti innamori così?
lui: Ma che non lo sai? L'amore è così, ti colpisce all'improvviso!
l'altro: Ma che davvero così veloce?
lui: Praticamente il tempo di una transazione,
l'altro: L'amore è proprio qualcosa di strano e veloce, lo diceva sempre il nonno...
lui: Sì, lo dice anche il mio ragionere, e pensa che mica lo conosceva a tuo nonno...
l'altro: Andare dove?
lui: Ma che non lo sai?
l'altro: Che?
lui: C'è la fiducia il 14, bisogna fare in fretta che il mercato è aperto!
l'altro: Ah sì, al governo, ma... la fiducia bisogna guadagnarsela nella vita, mi diceva il nonno...
lui: Ma più che guadagnarsela, bisogna venderla, mi diceva il ragioniere...
l'altro: In che senso? No aspetta, io intendevo... verso il paese, verso i cittadini, dobbiamo guadagnarci la loro fiducia, altrimenti che senso ha?
lui: Ha il senso che guadagni, che per il consenso c'è tempo, ma non ora... adesso è tempo di comprare, o meglio... di vendersi
l'altro: In che senso?
lui: Che se mi compri adesso, già mi fido di te, subito, adesso, all'istante, ti voto la fiducia!
l'altro: Ma come fai? Se ieri hai detto che non ti saresti mai fidato... se ieri avevi detto di non scendere a compromessi... che mai e poi mai con loro, e lo hai detto pubblicamente, tutti lo sanno, perderai la loro fiducia!
lui: Lo so, ma c'è chi si compra la mia, guarda, se mi compri già ti amo!
l'altro: E ti innamori così?
lui: Ma che non lo sai? L'amore è così, ti colpisce all'improvviso!
l'altro: Ma che davvero così veloce?
lui: Praticamente il tempo di una transazione,
l'altro: L'amore è proprio qualcosa di strano e veloce, lo diceva sempre il nonno...
lui: Sì, lo dice anche il mio ragionere, e pensa che mica lo conosceva a tuo nonno...
Rincoglionito
Così poi esci di fretta dal corso serale di francese, perché sono le 9menoqualcosa e dopo una giornata in ufficio di riunioni, decisioni e design pattern, dopo le quasi tre ore di accenti francesi sbagliati e risate isteriche, ecco non vedi l'ora di prendere la metro, tornare a casa, staccare la spina, al caldo, mangiare, che c'è anche la ragazza che ti aspetta per cena, che brava, e allora forza, senza perdere tempo, prendi la metro, fai il cambio di linea, riprendi la metro e rimani vicino al portellone, per poi essere uno dei primi ad uscire, per fare in fretta, tornare a casa, il riposo, cenare, soltanto due fermate e sarai quasi arrivato. E mentre la metro corre e corre per portarti a destinazione il più rapidamente possibile, ti rivedi riflesso nel vetro un po' sporco del vagone e incominci a pensare, ti perdi in qualche labirinto cerebrale, di quelli sempre pieni di qualche sorta di buco nero mentale, che si attraversano, ti risucchiano, ti portano lontano, e rimbalzi da un dubbio ad un'immagine, da un ricordo a qualche riflessione, fino ad arrivare ad un pensiero, fisso, chiaro, irrisolto. Poi d'improvviso qualcuno ti spintona per sbaglio, perché sei sempre lì, a lato del portellone, pronto per uscire, tornare a casa, e torni alla realtà. La gente esce, esci anche tu e non riconosci la fermata, ti accorgi che qualcosa non va, non capisci dove sei, alzi gli occhi e leggi con le pupille dilatate "Gribaumont". Che? Sì, ti accorgi che casa tua era CINQUE fermate fa. Chiudi gli occhi, vorresti non fosse vero, c'era la fretta, c'era il desiderio del caldo, di casa, di cena, lei che ti aspetta. Niente, ti sei distratto per quel pensiero. Che poi - ti domandi - che stavo pensando? Eh sì, te lo sei pure dimenticato. Ma che rincoglionito.
Storielle napoletane a Bruxelles
Così si decide che la solita insalata giornaliera oggi proprio non sarebbe andata giù né il panino del salumiere calabrese a pochi minuti a piedi dall'ufficio e allora si va nella stazione vicina, la più grande di Bruxelles, Gare du Midi, a vedere cosa ci sia in giro e si finisce in coda per una porzione di pasta, sì di quella pasta che ti servono in un recipiente di cartone (o di tetrapak, non saprei), quella pasta che molti italiani guarderebbero con occhi distaccati, con la puzza sotto al naso, con lo sguardo pontefice di chi accusa d'eresia. Ma l'aspetto e l'odore non sembrano male e allora che male c'è, si prova.
Mentre sei in fila un tipo sulla trentina ti fissa di lato, gli ricambi lo sguardo ma poi ti distrai altrove.
lui: Scusa - e a volte basta davvero soltanto uno scusa per capire da dove si proviene, quel tipo veniva di sicuro da Napoli e dintorni - sei italiano?
io: Come? - E pensi quanto facile sia leggerti la nazionalità sulla faccia - Sì, perché?
lui: Scusa, ho il treno che parte tra dieci minuti... non mi funziona più il bancomat e mi mancano giusto 5 euro per il biglietto, me lo puoi dare un euro per cortesia?
A quel punto sorrdi, perché quella filastrocca l'avrai sentita almeno un centinaio di volte ma in un'altra stazione, quella Centrale di Napoli, e non l'ascoltavi da almeno qualche anno e mai ti saresti aspettato di ascoltarla di nuovo soprattutto lì, a Bruxelles, in Gare du Midi, da un napoletano chissà come finito da quelle parti in cerca di spiccioli; e ti saresti quasi fermato e chiedergli perché, ascoltare la sua storia, magari capire i come, i quando, in che modo, ma avrebbe avuto poco senso e magari sarebbe stato un inutile monologo senza frutti. E allora sorridi, perché quella filastrocca ti ha riportato alla memoria tante cose, alcune amare altre davvero piacevoli che quasi lo ringrazi.
io: Guarda, lo so che non c'è nessun treno che parte tra dieci minuti - e cerchi di avere un'aria seria, ma tanto non ti riesce - ma tieni, ho giusto un euro, ecco qua.
lui: No, no, ma che hai capito, quello il treno parte per davvero! Grazie, grazie, ciao!
E scompare tra qualche passo dondolante mentre la fila che avanza e lo stomaco che brontola ti richiamano alla pasta, che poi in fondo non era mica tanto male e chi se ne lamenta, di quelle paste commerciale, di quel profano uso di pasta e cartone, magari a casa, da solo, chissà quante volte si sarà mangiato anche di peggio.
Mentre ti allontani rivedi il tipo della filastrocca approcciare un altro signore nella fila e ripetere la scena. La tentazione è troppo forte, qualcosa gliela devi dire.
io: Uè, ma il treno?
lui: Ah, ciao! Eh... l'ho perso, mannaggia, l'ho perso!
io: Ahahahaah, chissà quanti ne perdi ogni giorno, eh?!
E lui ti congeda con un occhiolino e un saluto con la mano, un po' se la ride un po' risponde al tuo sorriso. Ma guarda un po' - pensi - cosa ti può succede anche a Bruxelles!
Mentre sei in fila un tipo sulla trentina ti fissa di lato, gli ricambi lo sguardo ma poi ti distrai altrove.
lui: Scusa - e a volte basta davvero soltanto uno scusa per capire da dove si proviene, quel tipo veniva di sicuro da Napoli e dintorni - sei italiano?
io: Come? - E pensi quanto facile sia leggerti la nazionalità sulla faccia - Sì, perché?
lui: Scusa, ho il treno che parte tra dieci minuti... non mi funziona più il bancomat e mi mancano giusto 5 euro per il biglietto, me lo puoi dare un euro per cortesia?
A quel punto sorrdi, perché quella filastrocca l'avrai sentita almeno un centinaio di volte ma in un'altra stazione, quella Centrale di Napoli, e non l'ascoltavi da almeno qualche anno e mai ti saresti aspettato di ascoltarla di nuovo soprattutto lì, a Bruxelles, in Gare du Midi, da un napoletano chissà come finito da quelle parti in cerca di spiccioli; e ti saresti quasi fermato e chiedergli perché, ascoltare la sua storia, magari capire i come, i quando, in che modo, ma avrebbe avuto poco senso e magari sarebbe stato un inutile monologo senza frutti. E allora sorridi, perché quella filastrocca ti ha riportato alla memoria tante cose, alcune amare altre davvero piacevoli che quasi lo ringrazi.
io: Guarda, lo so che non c'è nessun treno che parte tra dieci minuti - e cerchi di avere un'aria seria, ma tanto non ti riesce - ma tieni, ho giusto un euro, ecco qua.
lui: No, no, ma che hai capito, quello il treno parte per davvero! Grazie, grazie, ciao!
E scompare tra qualche passo dondolante mentre la fila che avanza e lo stomaco che brontola ti richiamano alla pasta, che poi in fondo non era mica tanto male e chi se ne lamenta, di quelle paste commerciale, di quel profano uso di pasta e cartone, magari a casa, da solo, chissà quante volte si sarà mangiato anche di peggio.
Mentre ti allontani rivedi il tipo della filastrocca approcciare un altro signore nella fila e ripetere la scena. La tentazione è troppo forte, qualcosa gliela devi dire.
io: Uè, ma il treno?
lui: Ah, ciao! Eh... l'ho perso, mannaggia, l'ho perso!
io: Ahahahaah, chissà quanti ne perdi ogni giorno, eh?!
E lui ti congeda con un occhiolino e un saluto con la mano, un po' se la ride un po' risponde al tuo sorriso. Ma guarda un po' - pensi - cosa ti può succede anche a Bruxelles!
Changing colours
In meno di un mese siamo passati dal bellissimo giallo autunnale all'altrettanto bello bianco di neve e neve. E Bruxelles cambia colori. Poi dopo la pioggia ininterrotta di questa notte anche il bianco sarà scomparso per cambiare l'ennesimo colore. Foto scattate qui. |
Buongiorno Isabella
Da una ragazza italiana ed una ragazza spagnola a Dublino è nata Isabella e non sto qui a pensare a tutti quegli stupidi divieti di stati laici e conservatori, di religioni dalla falsa morale e dalle concezioni spesso medioevali, dei pregiudizi e delle sentenze di chi è cresciuto nella facile propaganda e non sa accettare perché una famiglia non può essere così e allora non deve, per la mancanza di una figura ritenuta essenziale, per i compromessi, perché semplicemente rompe l'abitudine e lascia perplessi, soltanto perché diverso, soltanto perché nuovo, no, no, quello che penso - e che vedo - è soltanto l'unica cosa essenziale che c'è e che fondamentalmente dovrebbe essere perno di ogni famiglia, perché motore inesauribile che non bada a forme né a schemi né tanto meno a tradizioni secolari: ed è lì, tra loro tre, e si chiama amore.
Iscriviti a:
Post (Atom)