Dopo l'ennesima edizione di un tg1 da paura, dove la verità viene perfettamente mascherata marcando il tono su parole favorevoli agli interessi dei piani alti e si passa veloce sulle parti importanti di una sentenza che dovrebbe far riflettere per tematiche e conseguenze, mentre si lascia commentare proprio a Dell'Utri le vicende di oggi mostrando agli italiani una faccia totalmente filtrata e truccata della notizia, magari c'è chi dopo la lettura delle poche righe, dopo la stesura del copione, appena dopo la scrittura del palinsesto ha avuto un sussulto di vergogna, ha pensato a quanta menzogna trapelava da quel giornalismo di regime, ma quel sussulto sarà durato giusto un attimo, un secondo di coscienziosa penitenza che già vale tutta una assoluzione nella morale di chi pensa agli interessi personali, a non perdere il posto di lavoro, chinando il capo di fronte al potere, soggetti a comandi indiscutibili, dove l'etica di giornalista e l'ahimè utopico verismo verghiano devono piegarsi alla propaganda e all'immagine del partito, a voleri influenti ed accordi necessari.
Sulla bilancia di quei diffusori di mezze verità contano sicuramente tutto gli interessi personali, la carriera, il lavoro, lo stipendio, le amicizie importanti, le promesse ed i patti sottovoce; contano sicuramente nulla le immagini trasmesse al paese, le notizie diffuse all'ora di punta, entrando nelle case degli italiani e diffondendo in continuazione cronache ben assemblate per la grande macchina televisiva di finzione e consensi. Su quelle bilance pesa sicuramente tanto il proprio conto in banca e l'equilibrio del proprio micromondo, che rimanga immutato, che non cambi, che continui in quella struttura che se pur precaria riesce ad andare avanti e garantire interessi individuali; il resto, la morale, la verità, l'informazione ed il giusto per gli altri, è tutto troppo leggero per cambiare qualcosa, quella bilancia non si muove ed il risultato rimane immutato.
Ecco perché non ci sarà mai una rivoluzione in Italia, nonostante la coscienza delle cose, nonostante lo sdegno se pur corrotto da una lenta e innaturale assuefazione a fatti, vicende, pugnalate alla democrazia e alla pluralità di informazione: contano troppo gli interessi personali, pesa decisamente tantissimo il proprio micromondo, nel complesso egoistico delle necessità primarie, pensando a domani ma non troppo nel futuro, sulla bilancia del sorriso quotidiano conta stare bene oggi, nel punto in cui ci si trova; il bene del paese, la coerenza, la giustizia, sono cose troppo lontane, in questo distacco creato tra politica e cittadini, in questo baratro emerso tra bene comune e bene personale, la bilancia pende costantemente da un lato ed il paese è amaramente troppo leggero.
Quei belgi comunisti
Cosa succede quando la polizia non ci vede chiaro sull'operato di una commissione creata dalla Chiesa per indagare su reati della Chiesa (che già è tutto dire) ed interviene in modo diretto ed inatteso? Quando uno stato, quello laico per davvero, cerca di fare chiarezza senza badare a preghiere e richieste, ma intervenendo come sia giusto fare in modo legale e legittimo? Arriva subito la scomunica moderna, lo sdegno, lo stupore ed il rammarico, perché bisogna avere rispetto, perché i panni sporchi vanno lavati in famiglia senza intromissioni, in quell'organizzazione medioevale che cela e va avanti, nei suoi patti di potere con lo stato, ben armata di parole e fedeli. E la scomunica arriva in pieno stile berlusconiano, con attacco a denigrare e tirare in ballo addirittura regimi comunisti (e trasmesso in modo unilaterale dal tg di partito), come se tutta la morale cattolica fosse solo una favola da recitare e poi contraddire, come se tutta la grossa (e grassa) veste di parabole, samaritani e filastrocche fosse solo una pelle ben venduta a celare politica e potere.
Così da oggi anche i belgi sono comunisti per aver infranto il regno della Chiesa (e dell'omertà), cercando di chiarire possibili reati di occultamento di prove e coinvolgimenti, e per l'ennesima volta la Chiesa mostra le unghie e la sua faccia reale. Per fortuna non tutti gli stati ne sono succubi (o fraterni alleati nel gioco degli interessi individuali) e magari si potrebbe fare davvero chiarezza sui numerosi reati di pedofilia ed abusi in un paese tra i primi vittima di questi scandali. Quello che fa più paura invece è vedere centinaia di persone accorrere ogni domenica sotto la finestra dell'ultimo patriarca nella grande piazza dalle arcate che abbracciano e attendere impazienti, applaudire estasiati le sue parole quando è palese che nei fatti c'è falsità e contraddizione, non ci si può rispecchiare in quella figura e quelle mosse da statista, almeno fin tanto che si creda davvero e con coerenza in quella morale cattolica tanto ostentata ma che invece amaramente fallisce, puntualmente, inevitabilmente.
Così da oggi anche i belgi sono comunisti per aver infranto il regno della Chiesa (e dell'omertà), cercando di chiarire possibili reati di occultamento di prove e coinvolgimenti, e per l'ennesima volta la Chiesa mostra le unghie e la sua faccia reale. Per fortuna non tutti gli stati ne sono succubi (o fraterni alleati nel gioco degli interessi individuali) e magari si potrebbe fare davvero chiarezza sui numerosi reati di pedofilia ed abusi in un paese tra i primi vittima di questi scandali. Quello che fa più paura invece è vedere centinaia di persone accorrere ogni domenica sotto la finestra dell'ultimo patriarca nella grande piazza dalle arcate che abbracciano e attendere impazienti, applaudire estasiati le sue parole quando è palese che nei fatti c'è falsità e contraddizione, non ci si può rispecchiare in quella figura e quelle mosse da statista, almeno fin tanto che si creda davvero e con coerenza in quella morale cattolica tanto ostentata ma che invece amaramente fallisce, puntualmente, inevitabilmente.
la prochaine.. dans quatre ans
Quello che mi mancherà sicuramente tanto di questi mondiali di calcio non sono le partite, nemmeno i goal sperati e tanto meno le infinite chiacchiere e formazioni previste o migliorabili, ma l'atmosfera brussellese decisamente particolare. Guardando in diversi piccoli bar la nostra nazionale giocare, mi son sempre ritrovato circondato da persone del posto, belghe, con bandiere italiane al collo, un tricolore dipinto sulla faccia, la maglietta dell'Italia addosso come fosse seconda pelle a simboleggiare origini lontane ma non dimenticate: già, perché la presenza di belgi con origini italiane anche lontanissime diventa palese quando attorno ad un monitor, davanti ad una birra, ci si riunisce in un'unica passione. All'amichevole giocata proprio qui a Bruxelles contro il Messico, amaro preludio di quello che sarebbe stato il nostro destino calcistico a questi mondiali (lento, macchinoso e di scarsa qualità), ero già rimasto impressionato dalla mole di non italiani accorsi a tifare, cantare, supportare la nazionale dei nonni, dei padri, del marito o della moglie, la nazionale di quel paese che qui ha origini ben radicate e che non si vogliono cancellare affatto, nonostante oggi sia forse un altro paese, magari totalmente diverso o addirittura sconosciuto, perché l'incanto dell'immaginario basta e avanza a far battere cuori ed innalzare cori.
Quando il pub sotto casa ha esposto enormi bandiere tricolore proprio prima della partita contro il Paraguay, son rimasto sorpreso e ancor più sorpreso nel vedere l'intera famiglia belga che lo gestisce vestire tricolore, il bambino si approssimava più ad puffo per quando azzurro avesse addosso ed io mi sentivo quasi in imbarazzo, lì seduto senza una bandiera, una sciarpa, io che in quel pub non c'ero mai entrato, stupidamente snobbandolo perché non frequentato da ragazzi o preferendo piazze più affollate e conosciute, ma poco conta quando al goal ci si unisce tutti in un unico grande abbraccio, destinato a durare poco ma abbastanza per capire quanto forte sia l'attaccamento a quel paese o a quell'ideale di paese che si sarà creato nella loro mente lungo gli anni, magari raccontato da nonni che emigrarono qui con foto in bianco e nero e con la famosa valigia di cartone. E anche ieri, mentre tornavo a casa in bici da un piccolo bar al lato di Gare du Midi, attraverso una Bruxelles soleggiata e inaspettatamente estiva, ripensavo alla ragazza al tavolo a fianco, vestita d'una bandiera tricolore, che mi parlava italiano con il suo accento francese ed urlava più di me ad ogni azione mancata. Ad un certo punto avrei voluto che si vincesse, più per loro che per me, come se io ne avessi già avuto tanto, come se tutta quella grinta e quella passione non dovesse andar perduta e non lo sarà sicuramente, tra 4 anni, come mi ha detto il barista, dandomi una pacca sulla spalla per consolarmi e con un sorriso "la prochaine.. dans quattre ans!", mentre i colleghi francesi ridevano beati, per quel mal comune mezzo guaio, che almeno nel destino condiviso non son stati poi tanto peggiori e possono star tranquilli in ufficio che non ci saranno i soliti inutili confronti velati di nazionalismo e soddisfazione. Da stasera ad ogni modo si tifa Spagna.
Quando il pub sotto casa ha esposto enormi bandiere tricolore proprio prima della partita contro il Paraguay, son rimasto sorpreso e ancor più sorpreso nel vedere l'intera famiglia belga che lo gestisce vestire tricolore, il bambino si approssimava più ad puffo per quando azzurro avesse addosso ed io mi sentivo quasi in imbarazzo, lì seduto senza una bandiera, una sciarpa, io che in quel pub non c'ero mai entrato, stupidamente snobbandolo perché non frequentato da ragazzi o preferendo piazze più affollate e conosciute, ma poco conta quando al goal ci si unisce tutti in un unico grande abbraccio, destinato a durare poco ma abbastanza per capire quanto forte sia l'attaccamento a quel paese o a quell'ideale di paese che si sarà creato nella loro mente lungo gli anni, magari raccontato da nonni che emigrarono qui con foto in bianco e nero e con la famosa valigia di cartone. E anche ieri, mentre tornavo a casa in bici da un piccolo bar al lato di Gare du Midi, attraverso una Bruxelles soleggiata e inaspettatamente estiva, ripensavo alla ragazza al tavolo a fianco, vestita d'una bandiera tricolore, che mi parlava italiano con il suo accento francese ed urlava più di me ad ogni azione mancata. Ad un certo punto avrei voluto che si vincesse, più per loro che per me, come se io ne avessi già avuto tanto, come se tutta quella grinta e quella passione non dovesse andar perduta e non lo sarà sicuramente, tra 4 anni, come mi ha detto il barista, dandomi una pacca sulla spalla per consolarmi e con un sorriso "la prochaine.. dans quattre ans!", mentre i colleghi francesi ridevano beati, per quel mal comune mezzo guaio, che almeno nel destino condiviso non son stati poi tanto peggiori e possono star tranquilli in ufficio che non ci saranno i soliti inutili confronti velati di nazionalismo e soddisfazione. Da stasera ad ogni modo si tifa Spagna.
Gli italiani preferiscono la scarsa qualità
Più precisamente, gli italiani preferiscono il pressapochismo al perfezionismo. Questa potrebbe essere una delle conclusioni di una recente lettura, una pubblicazione dell'università di Oxford, trovata qualche settimana fa tramite una lettera su Italians. Mentre l'aereo si dirigeva verso Roma lo scorso giovedì, ho letto tutto con crescente curiosità, confermando più di una impressione. Corruzione, nepotismo, disservizio ed altri fenomeni italici potrebbero trovare alcune delle radici o almeno alcune spiegazioni nella teoria del L-world, tra concetti difficili da riassumere in poche righe ma che provo a riportare brevemente in un argomento sicuramente delicato da non rifiutare a priori e soprattutto senza nessuna difesa a spada tratta (se l'ho letto è per capire e condividere, non certo per attaccare).
Il lavoro di Diego Gambetta e Gloria Origgi, autori della pubblicazione, parte dalla percezione di un fenomeno durante esperienze con servizi pubblici e privati italiani, dove le persone sembrano promettere inizialmente di fornire servizi di alta qualità ma dove poi qualcosa va male (anche soltanto leggermente) e la qualità del prodotto finale è inferiore rispetto a quella promessa. Se dall'esterno (e dall'estero) tutto ciò potrebbe essere visto come un barare, imbrogliare, dall'interno si percepisce un adattamento ed anzi una fiducia in questo prodotto finale. Nel massimizzare i propri interessi personali, le persone preferiscono ricevere un prodotto scadente, di bassa qualità, se possono fare lo stesso in cambio e senza provare nessun imbarazzo. In questo modo si sviluppano una sorta di regole sociali in modo da sostenere questo equilibrio di preferenze quando si ha a che fare con intrusioni di alta qualità. Insomma, la cooperazione non è sempre per il meglio, ma finalizzata ai reciproci interessi individuali in modo da ottenere una mutuale soddisfazione in questa mediocrità tacitamente decisa. Troppo complicato? Mi spiego meglio.
Gli autori hanno speso la loro carriera accademica all'estero, interagendo con una centinaia di servizi professionali con compatrioti italiani e da questo insieme empirico di approcci nel 95% dei casi è accaduto qualcosa di storto, non catastroficamente sbagliato, ma comunque non previsto (tempistiche, formati, disagi, etc). Gambetta ed Origgi tentano di comprendere il come ed il perché di un tale fenomeno. Si stanno sbagliando? Si tratta di una irrazionalità collettiva o in qualche perversa via voluta? Come mai sembra che nulla funzioni bene e che molti standard tendano a peggiorare e non migliorare?
Prendiamo in esempio due persone che decidono uno scambio di servizi e che per semplicità si possano dividere in due tipi di qualità: alta (H) e bassa (L). La qualità alta H richiede un maggiore sforzo, maggior tempo di produzione, competenze ed organizzazione rispetto ad un prodotto di qualità bassa L. Le persone possono decidere di avere uno scambio HH (e cioè di ricevere un prodotto di qualità H e fornire un servizio di qualità H) o LL (aspettarsi un servizio di qualità L e fornire un servizio di qualità L). Ovviamente si parla in termini di accordo, quindi se pattuiscono un servizio LL ed il risultato è LL tutto va a buon fine: se ti prometto una macchina che va così così e ti vendo una macchina che va così così, allora son stato sincero e non ho tradito le tue aspettative. Il problema si pone quando qualcuno promette H e fornisce L: quando si promette di fornire qualcosa di qualità ma alla fine si è ritardo, si approssima, si cambia qualcosa, insomma non si rispetta l'accordo al 100%.
Dall'esperienza sembra però che entrambi promettano o vendano un servizio come H ma alla fine forniscano L con le conseguenze che: nessuno si lamenta; quando alla promessa di H, si ottiene L e ci si lamenta, l'altra parte (la L-party) sembra più scocciata che pronta a scusarsi; non si abbandona la retorica del pubblicizzarsi come H (H-rhetoric), continuando a promettere standard alti; si instaura una sorta di legame familiare e si diventa amici tra fornitori di L. Vi sembra un modello troppo astratto o siete già riusciti a fare associazioni con casistiche reali, esperienze personali? Se provate ad applicare questo modello ad istituzioni pubbliche, cosa vi viene in mente?
Quello che sembra strano è che indipendentemente dall'accordo di partenza, sembra ci sia una aspettativa tacita e scontata nel terminare in scambi LL. Sembra strano, il buon senso direbbe che ognuno voglia scambi LH nei propri interessi (fornire L con il minimo sforzo ma ricevere H), eppure c'è chi preferisce LL (LL dominance); preferisco ricevere una qualità bassa L in modo da poter a mia volta fornire L senza provare imbarazzo o imbarazzare gli altri e non avendo motivo di lamentarmi per il loro L. Insomma, si crea un equilibrio LL e non solo vogliamo pressapochismo per noi stessi, ma anche da gli altri. Assurdo o riscontrabile nel reale?
Mi fido del fatto che tu non manterrai la tua promessa perché voglio sentirmi libero di non mantenere la mia e non sentirmi in colpa se accade. Ci sono quindi due accordi: il primo ufficiale in cui si pubblicizza H, il secondo tacito in cui si scambia L. Non solo sono consentite mancanze di qualità, ma addirittura sono attese, previste! E se l'altra parte fornisce H, allora si rompe la fiducia. Così si viene a creare una sorta di selezione tra fornitori di L.
Ma come può nascere un tale equilibrio LL? Siamo nati come fornitori L? No, non possiamo essere nati fornitori L o essere predisposti a scambi LL, esiste ovunque la competizione e ad ogni modo esiste il piacere nel fornire H. Ma quando i premi e le punizioni per fornitori di H sono più bassi di quelli per L, allora ecco che gli scambi LL emergono. Anche gli individui che preferiscono H di natura tendono poi a scegliere L (o isolarsi come eccentrici, perfezionisti, o emigrare se falliscono nel avere riconoscimenti per il loro H). Scambi LL emergono quando il numero di HH è minore e quando (1) i premi hanno una sensibilità debole per l'alta qualità H (lavori super sicuri, salari piatti, crescita professionale con barriere, promozioni basate su amicizie personali e non sul merito); (2) le punizioni per la bassa qualità sono minime, hanno bassa probabilità o sono negoziabili. Insomma, quando il perdono domina sulla punizione!
Non tutto è però negativo. La tolleranza di L può anche essere vista come la padronanza di una certa flessibilità, accettando i limiti degli altri ed adattandosi ad essi, avvantaggiandosi di queste situazioni.
La pubblicazione riporta una frase di vita reale come "i costruttori italiani non sono mai puntuali come promettono, ma il lato positivo è che nemmeno si aspettano di essere pagati come promesso!". Questa tolleranza L può essere anche gradevole ed utile, almeno fin tanto che non siano coinvolte istituzioni pubbliche. Questa tolleranza L aiuta anche ad avere una certa esperienza dell'inatteso, interagire con imprevisti.
Volendo trovare una natura storica a questo fenomeno, è possibile pensare alle dominazioni di diverse popolazioni sul territorio italico ed un adattamento in risposta alle norme oppressive imposte dai colonizzatori di turno. Considerate come inaccettabili che siano economiche, morali o culturali, quelle regole venivano respinte o aggirate dall'abilità della popolazione dominata di fornire il servizio richiesto ed imbrogliare allo stesso tempo. Ma indipendentemente dalle sue origini, questa presenza di equilibrio LL risulta più dannoso che utile con il tempo, quando la flessibilità sfocia in lassismo, la tolleranza in pigrizia, la confusione nella mancanza di fiducia negli standard di educazione, politica, comunicazione.
Per concludere, ho cercato di sintetizzare traducendo ed aggiungendo alcune considerazioni personali, certo anche se alcuni tratti sembrano generalizzare eccessivamente e forse allontanarsi dall'esperienza personale o dal proprio buon senso, ho trovato molte affermazioni veritiere, realistiche, spesso anche amaramente buffe ed è interessante vedere come si possano inquadrare le cose secondo un modello ben preciso e studiato.
Migliorerebbero le cose se tutti decidessimo nell'impegno incondizionato di fornire sempre e comunque H, nonostante gli altri? O se almeno si abbandonasse la retorica di vendere H pur sapendo di produrre L? Quanto lottiamo ogni giorno di fronte ad uno scambio HL (rispettare la promessa di fornire alta qualità ma riceverne in cambio una bassa)? E' davvero tanto utopico sperare e sforzarsi di ottenere sempre scambi HH?
Di queste ed altre domande si affolla adesso la mente, tentando di capire quanto L-World ci sia davvero intorno a noi e come realmente interagiamo con scambi di questi tipi nelle esperienze quotidiane. E voi? Vi identificate come uno degli H-doers o un L-doer?
Il lavoro di Diego Gambetta e Gloria Origgi, autori della pubblicazione, parte dalla percezione di un fenomeno durante esperienze con servizi pubblici e privati italiani, dove le persone sembrano promettere inizialmente di fornire servizi di alta qualità ma dove poi qualcosa va male (anche soltanto leggermente) e la qualità del prodotto finale è inferiore rispetto a quella promessa. Se dall'esterno (e dall'estero) tutto ciò potrebbe essere visto come un barare, imbrogliare, dall'interno si percepisce un adattamento ed anzi una fiducia in questo prodotto finale. Nel massimizzare i propri interessi personali, le persone preferiscono ricevere un prodotto scadente, di bassa qualità, se possono fare lo stesso in cambio e senza provare nessun imbarazzo. In questo modo si sviluppano una sorta di regole sociali in modo da sostenere questo equilibrio di preferenze quando si ha a che fare con intrusioni di alta qualità. Insomma, la cooperazione non è sempre per il meglio, ma finalizzata ai reciproci interessi individuali in modo da ottenere una mutuale soddisfazione in questa mediocrità tacitamente decisa. Troppo complicato? Mi spiego meglio.
Gli autori hanno speso la loro carriera accademica all'estero, interagendo con una centinaia di servizi professionali con compatrioti italiani e da questo insieme empirico di approcci nel 95% dei casi è accaduto qualcosa di storto, non catastroficamente sbagliato, ma comunque non previsto (tempistiche, formati, disagi, etc). Gambetta ed Origgi tentano di comprendere il come ed il perché di un tale fenomeno. Si stanno sbagliando? Si tratta di una irrazionalità collettiva o in qualche perversa via voluta? Come mai sembra che nulla funzioni bene e che molti standard tendano a peggiorare e non migliorare?
Prendiamo in esempio due persone che decidono uno scambio di servizi e che per semplicità si possano dividere in due tipi di qualità: alta (H) e bassa (L). La qualità alta H richiede un maggiore sforzo, maggior tempo di produzione, competenze ed organizzazione rispetto ad un prodotto di qualità bassa L. Le persone possono decidere di avere uno scambio HH (e cioè di ricevere un prodotto di qualità H e fornire un servizio di qualità H) o LL (aspettarsi un servizio di qualità L e fornire un servizio di qualità L). Ovviamente si parla in termini di accordo, quindi se pattuiscono un servizio LL ed il risultato è LL tutto va a buon fine: se ti prometto una macchina che va così così e ti vendo una macchina che va così così, allora son stato sincero e non ho tradito le tue aspettative. Il problema si pone quando qualcuno promette H e fornisce L: quando si promette di fornire qualcosa di qualità ma alla fine si è ritardo, si approssima, si cambia qualcosa, insomma non si rispetta l'accordo al 100%.
Dall'esperienza sembra però che entrambi promettano o vendano un servizio come H ma alla fine forniscano L con le conseguenze che: nessuno si lamenta; quando alla promessa di H, si ottiene L e ci si lamenta, l'altra parte (la L-party) sembra più scocciata che pronta a scusarsi; non si abbandona la retorica del pubblicizzarsi come H (H-rhetoric), continuando a promettere standard alti; si instaura una sorta di legame familiare e si diventa amici tra fornitori di L. Vi sembra un modello troppo astratto o siete già riusciti a fare associazioni con casistiche reali, esperienze personali? Se provate ad applicare questo modello ad istituzioni pubbliche, cosa vi viene in mente?
Quello che sembra strano è che indipendentemente dall'accordo di partenza, sembra ci sia una aspettativa tacita e scontata nel terminare in scambi LL. Sembra strano, il buon senso direbbe che ognuno voglia scambi LH nei propri interessi (fornire L con il minimo sforzo ma ricevere H), eppure c'è chi preferisce LL (LL dominance); preferisco ricevere una qualità bassa L in modo da poter a mia volta fornire L senza provare imbarazzo o imbarazzare gli altri e non avendo motivo di lamentarmi per il loro L. Insomma, si crea un equilibrio LL e non solo vogliamo pressapochismo per noi stessi, ma anche da gli altri. Assurdo o riscontrabile nel reale?
Mi fido del fatto che tu non manterrai la tua promessa perché voglio sentirmi libero di non mantenere la mia e non sentirmi in colpa se accade. Ci sono quindi due accordi: il primo ufficiale in cui si pubblicizza H, il secondo tacito in cui si scambia L. Non solo sono consentite mancanze di qualità, ma addirittura sono attese, previste! E se l'altra parte fornisce H, allora si rompe la fiducia. Così si viene a creare una sorta di selezione tra fornitori di L.
Ma come può nascere un tale equilibrio LL? Siamo nati come fornitori L? No, non possiamo essere nati fornitori L o essere predisposti a scambi LL, esiste ovunque la competizione e ad ogni modo esiste il piacere nel fornire H. Ma quando i premi e le punizioni per fornitori di H sono più bassi di quelli per L, allora ecco che gli scambi LL emergono. Anche gli individui che preferiscono H di natura tendono poi a scegliere L (o isolarsi come eccentrici, perfezionisti, o emigrare se falliscono nel avere riconoscimenti per il loro H). Scambi LL emergono quando il numero di HH è minore e quando (1) i premi hanno una sensibilità debole per l'alta qualità H (lavori super sicuri, salari piatti, crescita professionale con barriere, promozioni basate su amicizie personali e non sul merito); (2) le punizioni per la bassa qualità sono minime, hanno bassa probabilità o sono negoziabili. Insomma, quando il perdono domina sulla punizione!
Non tutto è però negativo. La tolleranza di L può anche essere vista come la padronanza di una certa flessibilità, accettando i limiti degli altri ed adattandosi ad essi, avvantaggiandosi di queste situazioni.
La pubblicazione riporta una frase di vita reale come "i costruttori italiani non sono mai puntuali come promettono, ma il lato positivo è che nemmeno si aspettano di essere pagati come promesso!". Questa tolleranza L può essere anche gradevole ed utile, almeno fin tanto che non siano coinvolte istituzioni pubbliche. Questa tolleranza L aiuta anche ad avere una certa esperienza dell'inatteso, interagire con imprevisti.
Volendo trovare una natura storica a questo fenomeno, è possibile pensare alle dominazioni di diverse popolazioni sul territorio italico ed un adattamento in risposta alle norme oppressive imposte dai colonizzatori di turno. Considerate come inaccettabili che siano economiche, morali o culturali, quelle regole venivano respinte o aggirate dall'abilità della popolazione dominata di fornire il servizio richiesto ed imbrogliare allo stesso tempo. Ma indipendentemente dalle sue origini, questa presenza di equilibrio LL risulta più dannoso che utile con il tempo, quando la flessibilità sfocia in lassismo, la tolleranza in pigrizia, la confusione nella mancanza di fiducia negli standard di educazione, politica, comunicazione.
Per concludere, ho cercato di sintetizzare traducendo ed aggiungendo alcune considerazioni personali, certo anche se alcuni tratti sembrano generalizzare eccessivamente e forse allontanarsi dall'esperienza personale o dal proprio buon senso, ho trovato molte affermazioni veritiere, realistiche, spesso anche amaramente buffe ed è interessante vedere come si possano inquadrare le cose secondo un modello ben preciso e studiato.
Migliorerebbero le cose se tutti decidessimo nell'impegno incondizionato di fornire sempre e comunque H, nonostante gli altri? O se almeno si abbandonasse la retorica di vendere H pur sapendo di produrre L? Quanto lottiamo ogni giorno di fronte ad uno scambio HL (rispettare la promessa di fornire alta qualità ma riceverne in cambio una bassa)? E' davvero tanto utopico sperare e sforzarsi di ottenere sempre scambi HH?
Di queste ed altre domande si affolla adesso la mente, tentando di capire quanto L-World ci sia davvero intorno a noi e come realmente interagiamo con scambi di questi tipi nelle esperienze quotidiane. E voi? Vi identificate come uno degli H-doers o un L-doer?
La classifica dei falliti è la classifica della vergogna
Giorni fa è stata pubblicata la classifica degli stati falliti, gli stati messi peggio secondo indicatori politici, economici e sociali. Dalla classifica e dalla mappa riassuntiva, sembra chiara la situazione globale: tra i primi 20, 15 sono paesi africani e l'Africa è il continente più fallito. Da quando la classifica è nata nel 2005, tra le prime dieci posizioni si son sempre alternati soltanto 15 paesi, insomma i falliti non riescono ovviamente a rialzarsi mentre l'occidente storicamente ricco continua a dominare. Ma che c'è di nuovo in una classifica del genere? Cosa c'era da aspettarsi da un continente come l'Africa depredato e violentato durante anni di colonialismo e barbarie? Quanta falsità c'è in quell'indice che etichetta come fallimenti ma dovrebbe invece gridare alla vergogna?
Se dopo anni di conquiste alla ricerca di risorse naturali e sfruttamento umano si erigono poi governi fantocci mascherati da democrazie ed indipendenze o si lasciano interi territori in preda a guerre e lotte intestine in modo da continuare a controllare indirettamente impedendo crescita economica e sociale, il fallimento è locale o globale? Se pochi stati prosperano sulla povertà di un intero continente in un equilibrio sicuramente ingiusto e ben mascherato da aiuti umanitari e falsi sorrisi e strette di mano (quando basterebbe semplicemente estinguere un debito centenario simbolo del neocolonialismo) e la classifica sembra quasi perfettamente combaciare con la mappa del sud del mondo, che senso ha parlare di fallimenti quando la colpa non è di quei paesi nella top 10 dei falliti ma di chi continua a vivere nel benessere a loro spese?
Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso per 4 anni e protagonista di una ricrescita economica senza precedenti nel suo paese, lo gridava apertamente perché credeva nello sviluppo africano e nella possibilità di migliorare le cose, quando affermava che
"quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato, sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. [...] Noi non c'entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici, anzi dovremmo invece dire "assassini tecnici". Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei "finanziatori". [...] Noi ci siamo indebitati per 50, 60 anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per 50 anni e più. Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall'imperialismo, è una riconquista dell'Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee.
[...] Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto ad esporvi qui la cotonnade, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. Non c'è un solo filo che venga d'Europa o d'America. Non faccio una sfilata di moda ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E' il solo modo di vivere liberi e degni."
Era il 1987, alla conferenza per l'unità africana e quelle parole erano troppo scomode per i governi occidentali, troppo rivoluzionarie, avrebbero potuto cambiare e migliorare l'Africa a danno però degli sfruttatori in giacca in cravatta. E infatti appena qualche mese dopo Sankara fu assassinato, la storia ci racconta a causa di un colpo di stato interno e invece fu tutto manovrato dai salvatori americani per mano della CIA.
Quella classifica insomma dovrebbe cambiare nome e significato: i falliti non sono certo loro.
Se dopo anni di conquiste alla ricerca di risorse naturali e sfruttamento umano si erigono poi governi fantocci mascherati da democrazie ed indipendenze o si lasciano interi territori in preda a guerre e lotte intestine in modo da continuare a controllare indirettamente impedendo crescita economica e sociale, il fallimento è locale o globale? Se pochi stati prosperano sulla povertà di un intero continente in un equilibrio sicuramente ingiusto e ben mascherato da aiuti umanitari e falsi sorrisi e strette di mano (quando basterebbe semplicemente estinguere un debito centenario simbolo del neocolonialismo) e la classifica sembra quasi perfettamente combaciare con la mappa del sud del mondo, che senso ha parlare di fallimenti quando la colpa non è di quei paesi nella top 10 dei falliti ma di chi continua a vivere nel benessere a loro spese?
Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso per 4 anni e protagonista di una ricrescita economica senza precedenti nel suo paese, lo gridava apertamente perché credeva nello sviluppo africano e nella possibilità di migliorare le cose, quando affermava che
"quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato, sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. [...] Noi non c'entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici, anzi dovremmo invece dire "assassini tecnici". Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei "finanziatori". [...] Noi ci siamo indebitati per 50, 60 anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per 50 anni e più. Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall'imperialismo, è una riconquista dell'Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee.
[...] Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto ad esporvi qui la cotonnade, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. Non c'è un solo filo che venga d'Europa o d'America. Non faccio una sfilata di moda ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E' il solo modo di vivere liberi e degni."
Era il 1987, alla conferenza per l'unità africana e quelle parole erano troppo scomode per i governi occidentali, troppo rivoluzionarie, avrebbero potuto cambiare e migliorare l'Africa a danno però degli sfruttatori in giacca in cravatta. E infatti appena qualche mese dopo Sankara fu assassinato, la storia ci racconta a causa di un colpo di stato interno e invece fu tutto manovrato dai salvatori americani per mano della CIA.
Quella classifica insomma dovrebbe cambiare nome e significato: i falliti non sono certo loro.
Il maniaco sul treno verso Napoli
Ieri ero sul treno diretto a Napoli, dove mi aspettava la freccia rossa diretta a Roma, dove mi aspettava il volo diretto a Charleroi, dove mi aspettava l'autobus di rientro a Bruxelles (e per finire, il taxi fino a casa). Partire alle 8 di mattina dopo una serata a salutare amici non è sicuramente il viaggio ideale, con gli occhi semichiusi ancora pieni di sonno. Prendo subito posto vicino al finestrino, perché il fascino del treno è anche perdersi nel paesaggio che scorre veloce e con esso i mille intrecci di pensieri dei ritorni a casa e ripartenze veloci. Il vagone semivuoto a quell'ora e ognuno è mezzo accasciato sul proprio sedile, probabilmente ancora immerso in un sonno profondo o cercando di ricordare il sogno interrotto dalla sveglia maledetta.
D'improvviso un signore sulla 60ina si affianca, distinto ed educato. Ha un problema con il cellulare, non riesce a capire un messaggio di errore. Può essere mio nonno - penso - vediamo che problema ha. Alla fine è una sciocchezza, un numero di segreteria errato o qualcosa del genere. Inizia a chiamare qualcuno, parlando in napoletano abbastanza stretto. Poi mi chiede le solite cose, dove vai, sei studente, lavori, ma le mie risposte sono brevi, tra sonno e riservatezza.
All'improvviso sento la sua gamba che sfiora la mia. Di nuovo. La sposto con disinvoltura avvicinandomi al finestrino. Sento di nuovo quella gamba strofinarsi alla mia. Stai calmo - penso, muovendomi di nuovo - è solo la tua immaginazione, non può essere, dai. Ma il signore torna a strofinare la sua gamba alla mia e addirittura muove il suo piede in mezzo ai miei! A quel punto mi volto e me lo trovo faccia a faccia. Vuoi venire in bagno con me? - Mi bisbiglia. Tra i mille rumori del treno, spero di non aver capito bene e tutto quello che riesco a balbettare tra stupore e incredibilità è un C-o-s-a?. Ti piacerebbe masturbarmi? - Mi sussurra ancora, puntandosi la mano in mezzo alle gambe dove una protuberanza lasciava poco spazio ad incertezze e dubbi.
Per un attimo, un secondo, ho pensato di ammazzarlo, lo ammetto. Forse lui me lo legge in faccia - Zitto, zitto, non dirlo a nessuno.
Mi scusi un attimo, devo prendere una cosa in valigia - dico e mi faccio spazio per passare, cercando di mantenere una calma fredda e silenziosa. Poi prendo lo zaino e mi sposto qualche fila più avanti, senza voltarmi, senza dire nulla. Mi siedo ed un senso di disgusto, di sconforto, di pena e di sporcizia mi assale. Mi son sentito violentato, come se soltanto quell'idea, quello strofinio, quell'intento avessero lasciato tracce indelebili sulla mia persona.
Finalmente Napoli, non ho mai desiderato così fortemente quella stazione, mi dirigo veloce verso il mio posto nella freccia rossa. Son rimasto tutta la giornata nervoso, traumatizzato, d'umore inquieto, pensando a tutto quello che avrei potuto o dovuto fare e a quel vecchietto, quella mente malata, quelle poche parole d'un peso enorme.
D'improvviso un signore sulla 60ina si affianca, distinto ed educato. Ha un problema con il cellulare, non riesce a capire un messaggio di errore. Può essere mio nonno - penso - vediamo che problema ha. Alla fine è una sciocchezza, un numero di segreteria errato o qualcosa del genere. Inizia a chiamare qualcuno, parlando in napoletano abbastanza stretto. Poi mi chiede le solite cose, dove vai, sei studente, lavori, ma le mie risposte sono brevi, tra sonno e riservatezza.
All'improvviso sento la sua gamba che sfiora la mia. Di nuovo. La sposto con disinvoltura avvicinandomi al finestrino. Sento di nuovo quella gamba strofinarsi alla mia. Stai calmo - penso, muovendomi di nuovo - è solo la tua immaginazione, non può essere, dai. Ma il signore torna a strofinare la sua gamba alla mia e addirittura muove il suo piede in mezzo ai miei! A quel punto mi volto e me lo trovo faccia a faccia. Vuoi venire in bagno con me? - Mi bisbiglia. Tra i mille rumori del treno, spero di non aver capito bene e tutto quello che riesco a balbettare tra stupore e incredibilità è un C-o-s-a?. Ti piacerebbe masturbarmi? - Mi sussurra ancora, puntandosi la mano in mezzo alle gambe dove una protuberanza lasciava poco spazio ad incertezze e dubbi.
Per un attimo, un secondo, ho pensato di ammazzarlo, lo ammetto. Forse lui me lo legge in faccia - Zitto, zitto, non dirlo a nessuno.
Mi scusi un attimo, devo prendere una cosa in valigia - dico e mi faccio spazio per passare, cercando di mantenere una calma fredda e silenziosa. Poi prendo lo zaino e mi sposto qualche fila più avanti, senza voltarmi, senza dire nulla. Mi siedo ed un senso di disgusto, di sconforto, di pena e di sporcizia mi assale. Mi son sentito violentato, come se soltanto quell'idea, quello strofinio, quell'intento avessero lasciato tracce indelebili sulla mia persona.
Finalmente Napoli, non ho mai desiderato così fortemente quella stazione, mi dirigo veloce verso il mio posto nella freccia rossa. Son rimasto tutta la giornata nervoso, traumatizzato, d'umore inquieto, pensando a tutto quello che avrei potuto o dovuto fare e a quel vecchietto, quella mente malata, quelle poche parole d'un peso enorme.
Mondiali: in ufficio coi francesi
La cosa più stancante dopo un pareggio alla prima di mondiale è arrivare in ufficio e vedere il sorriso stampato sulla faccia dei colleghi francesi che non aspettano altro che darti la mano e domandarti come sia andata la partita di ieri sera, lo stesso sorriso che hanno quando c'è un bug nella tua componente, come se l'errore altrui fosse fonte di buon umore al punto da farli sentire migliori, come se lo zero a zero della Francia fosse stata una prestazione da incorniciare a confronto, mentre l'altro collega italiano appende al muro un A4 con la scritta "1 - 1 is better than 0 - 0" e iniziano i soliti commenti, i se, i ma e gli avemaria. Il vero problema è che non entro in ufficio a capo chino dopo un pareggio del genere e nemmeno dopo una sconfitta, che presto o tardi arriverà, perché ci son cose peggiori di cui vergognarsi in relazione al proprio paese; entro a capo chino quando si da il via libera alla legge bavaglio ed ugualmente ogni volta che la democrazia fa un passo indietro, ma in quei momenti non c'è nessun sorriso beffardo ad attendermi, non c'è nemmeno la coscienza delle cose: vale più una partita di pallone, soprattutto se mondiale, in cui si racchiude qualche sciovinismo sottile e la voglia di sentirsi migliore dell'altro, come se nel risultato della squadra ci fosse anche del merito proprio per il sol fatto d'essere di quella nazionalità, nell'attesa di vantarsi e salire sul carro del vincitore. I mondiali sono anche questo e giovedì mi tocca allegramente tifare Messico.
Mondiali: il torneo della noia?
Dando un'occhiata veloce alla storia, sembra davvero che i mondiali di calcio siano il torneo della noia in termini di previsioni del vincitore, sono sempre le stesse squadre che si giocano gli ultimi gradini della competizione, non esistono favole, non esistono gruppi che riescono a vincere contro tutti e tutto. Addirittura 12 delle 18 edizioni sono state vinte da sole 3 nazioni: Brasile (5), Italia (4) e Germania (3), le restanti briciole sono di Argentina (2), Inghilterra (1) e Francia (1), più un passato remoto di Uruguay (2), insomma una noia se pensiamo ai 76 paesi che hanno partecipato finora al torneo. In finale vanno sempre le stesse squadre della lista appena elencata, soltanto sette volte si son trovate altre squadre all'ultima partita (a contendere ad ogni modo contro una della lista), le altre 11 finali son state giocate sempre tra gli stessi paesi, che ovviamente riempiono le prime quattro posizioni di sempre. Curioso poi che da quasi 50 anni la coppa sia alzata ad alternanza da una squadra europea ed una sudamericana, come fosse uno scambio di favori, e mai una squadra europea abbia vinto un mondiale fuori dall'Europa.
Insomma sembra tutto già scritto, scontato, banale, eppure ogni quattro anni la stessa tensione mensile, quell'attenzione maniacale, perché il tifoso dimentica statistiche e dati e si concentra soltanto sulla prossima partita, ma se invece di 32 si lasciasse il torneo in mano ad appena 10 squadre, il risultato finale sicuramente non cambierebbe di molto. Certo, la speranza degli altri fa spettacolo (e denaro) e forse quest'anno qualcuna di queste leggi mondiali potrebbe finalmente cambiare.
Insomma sembra tutto già scritto, scontato, banale, eppure ogni quattro anni la stessa tensione mensile, quell'attenzione maniacale, perché il tifoso dimentica statistiche e dati e si concentra soltanto sulla prossima partita, ma se invece di 32 si lasciasse il torneo in mano ad appena 10 squadre, il risultato finale sicuramente non cambierebbe di molto. Certo, la speranza degli altri fa spettacolo (e denaro) e forse quest'anno qualcuna di queste leggi mondiali potrebbe finalmente cambiare.
Dove vivi, visto dagli altri
La Svezia vista come Ikea, l'Italia vista come pizza e musei ed il Belgio riassunto in Waffles, secondo i tedeschi. L'Irlanda sintetizzata in pub, la Francia in formaggi e la Russia come Grande fratello, secondo i bulgari. L'Islanda annessa all'artico, la Svizzera un insieme di orologi e la Danimarca popolata da vichinghi, secondo noi italiani. Di questi ed altri stereotipi si compongono le mappe create dall'artista Yanko Tsvetkov, vecchie di un anno ma vale la pena rispolverarle per chi (come me) non le aveva ancora viste. E probabilmente a rifarle oggi alcune cose cambierebbero, l'Italia per esempio vista da qualche altra nazione sarebbe magari una Berlusconia, sempre più, purtroppo.
Mi raccomando, niente sciovinismo o risentimenti vari: qui si ride.
Mi raccomando, niente sciovinismo o risentimenti vari: qui si ride.
L'Europa vista dai francesi. |
L'Europa vista dai tedeschi. |
L'Europa vista dagli inglesi. |
L'Europa vista dagli italiani. |
Prima del calcio d'inizio
Prima del calcio d'inizio di questi mondiali tanto attesi, potremmo almeno sbirciare cosa succede appena fuori dagli stadi, cosa accade in un paese così lontano eppure così tanto legato alla storia europea, inevitabilmente nel negativo, purtroppo; adesso che giornali, televisioni, radio ci bombardano di calcio, pronostici, statistiche e notizie dell'ultimo minuto e che i riflettori di mezzo mondo sono puntati sul Sud Africa, prima del calcio d'inizio potremmo almeno domandarci cosa sia accaduto in quel luogo così estraneo dalla nostra quotidianità ma che per un mese scarso diviene la destinazione delle speranze di milioni di tifosi, per poi finire sicuramente nel silenzio, di nuovo, lontano dalle nostre attenzioni, sul baratro del dimenticatoio, al margine delle importanze minori.
Quando nel 1488 l'esploratore portoghese Dias raggiunse l'estremità del continente africano, ne battezzò la meta, il punto estremo, con il nome di Capo di buona speranza, ma c'era davvero poco di romantico in quella speranza, perché la speranza era quella di avere un punto di partenza per le indie, per il commercio e la ricchezza, insomma il solito dio denaro, nient'altro. E di romantico non c'è traccia in nessuno degli avvenimenti che si son susseguiti. la storia dovrebbe essere già nota, sembra un copione già letto mille volte, quello che cambia è la destinazione, il campo di battaglia, ma i personaggi son sempre gli stessi: europei assetati di risorse e ricchezze che invadono terre nuove, noncuranti delle popolazioni native, che vengono governate, schiavizzare, spesso sterminate. Dalla colonizzazione olandese del 1600, a quella inglese del 1800 per il controllo di oro e diamanti, cambia soltanto la mano del potere, del più forte. Dal 1833 finalmente gli inglesi decidono di abolire la schiavitù imposta ai locali, ma niente di lontanamente vicino a pace ed uguaglianza di diritti: creano leggi e politiche di segregazione razziale (quelle che poi diverranno con gli anni le antenate dell'apartheid) contro i locali che ovviamente speravano e volevano un'indipendenza, loro, i nativi, padroni di casa per natura, costretti a lottare contro gli europei usurpatori. Niente di nuovo, purtroppo.
Nel 1910 nasce l'Unione del Sud Africa, ma la segregazione razziale non scompare anzi diviene legale, soltanto il 7% del paese è destinato ai nativi, alle persone di pelle nera, e le istituzioni creano addirittura classi di stratificazioni sociali per bianchi, meticci, neri, con diritti e restrizioni differenti a seconda della classe. E anche se nel 1931 si raggiunge l'indipendenza dagli inglese, son sempre i bianchi d'origini europee a dominare, raggiungendo nel 1948 il potere con il partito nazionalista, intensificando le leggi razziali, sottoscrivendo di fatto la supremazia della minoranza bianca sulla maggioranza nera: l'apartheid. Ovviamente i bianchi godevano di standard di vita più alti, dall'educazione alla sanità, dalle zone residenziali alle aspettative di vita, tanto da avere referendum solo per bianchi.
Finalmente l'opinione internazionale inizia a sollevare i primi dubbi su quello che sta accadendo, alcune nazioni occidentali iniziano a boicottare commerci ed attività con il Sud Africa, mentre internamente la minoranza bianca è costretta a scontrarsi con soppressioni, scioperi, manifestazioni, proteste e sabotaggi ed è in questo periodo (1962) che uno dei maggiori attivisti, Nelson Mandela, viene catturato e condannato alla prigione a vita, da cui uscirà soltanto 27 anni dopo. E solo nel 1990, storia recentissima, il governo inizia a cambiare eliminando le leggi razziali, fino alle prime elezioni multirazziali del 1994 e tutto si avvia ad essere un paese normale, se non un paese da ricostruire, tra sviluppo, disoccupazione (oggi più alta del mondo), corruzione, povertà e criminalità.
Ecco, non sono riuscito ad essere meno sintetico, ma quando la telecamera inquadrerà quella gente sorridere, cantare, suonare la propria vuvuzela, proprio prima del calcio d'inizio, sarà sicuramente una grande festa, per un paese che ha saputo rinascere, lottando, e che diventa protagonista per 3 settimane. Però poco prima del calcio d'inizio, ci saranno tante altre facce che la telecamera preferirà ignorare, se appena fuori dallo stadio c'è chi vive con appena 2 dollari al giorno, e che da qui a un mese torna ad avere la propria città meno affollata ed addobbata. Poco prima del calcio d'inizio basterebbe pensare a quest'ennesima storia di soprusi e violenze, senza pretendere niente di trascendentale o falsa morale, soltanto un pensiero agli eventi passati; la storia di questo paese non influenzerà sicuramente il nostro tifo, ma forse può aiutare a vedere in modo diverso il presente, magari migliorare il futuro, senza magie ma soltanto un po più di coscienza. E buon mondiale a tutti.
Quando nel 1488 l'esploratore portoghese Dias raggiunse l'estremità del continente africano, ne battezzò la meta, il punto estremo, con il nome di Capo di buona speranza, ma c'era davvero poco di romantico in quella speranza, perché la speranza era quella di avere un punto di partenza per le indie, per il commercio e la ricchezza, insomma il solito dio denaro, nient'altro. E di romantico non c'è traccia in nessuno degli avvenimenti che si son susseguiti. la storia dovrebbe essere già nota, sembra un copione già letto mille volte, quello che cambia è la destinazione, il campo di battaglia, ma i personaggi son sempre gli stessi: europei assetati di risorse e ricchezze che invadono terre nuove, noncuranti delle popolazioni native, che vengono governate, schiavizzare, spesso sterminate. Dalla colonizzazione olandese del 1600, a quella inglese del 1800 per il controllo di oro e diamanti, cambia soltanto la mano del potere, del più forte. Dal 1833 finalmente gli inglesi decidono di abolire la schiavitù imposta ai locali, ma niente di lontanamente vicino a pace ed uguaglianza di diritti: creano leggi e politiche di segregazione razziale (quelle che poi diverranno con gli anni le antenate dell'apartheid) contro i locali che ovviamente speravano e volevano un'indipendenza, loro, i nativi, padroni di casa per natura, costretti a lottare contro gli europei usurpatori. Niente di nuovo, purtroppo.
Nel 1910 nasce l'Unione del Sud Africa, ma la segregazione razziale non scompare anzi diviene legale, soltanto il 7% del paese è destinato ai nativi, alle persone di pelle nera, e le istituzioni creano addirittura classi di stratificazioni sociali per bianchi, meticci, neri, con diritti e restrizioni differenti a seconda della classe. E anche se nel 1931 si raggiunge l'indipendenza dagli inglese, son sempre i bianchi d'origini europee a dominare, raggiungendo nel 1948 il potere con il partito nazionalista, intensificando le leggi razziali, sottoscrivendo di fatto la supremazia della minoranza bianca sulla maggioranza nera: l'apartheid. Ovviamente i bianchi godevano di standard di vita più alti, dall'educazione alla sanità, dalle zone residenziali alle aspettative di vita, tanto da avere referendum solo per bianchi.
Finalmente l'opinione internazionale inizia a sollevare i primi dubbi su quello che sta accadendo, alcune nazioni occidentali iniziano a boicottare commerci ed attività con il Sud Africa, mentre internamente la minoranza bianca è costretta a scontrarsi con soppressioni, scioperi, manifestazioni, proteste e sabotaggi ed è in questo periodo (1962) che uno dei maggiori attivisti, Nelson Mandela, viene catturato e condannato alla prigione a vita, da cui uscirà soltanto 27 anni dopo. E solo nel 1990, storia recentissima, il governo inizia a cambiare eliminando le leggi razziali, fino alle prime elezioni multirazziali del 1994 e tutto si avvia ad essere un paese normale, se non un paese da ricostruire, tra sviluppo, disoccupazione (oggi più alta del mondo), corruzione, povertà e criminalità.
Ecco, non sono riuscito ad essere meno sintetico, ma quando la telecamera inquadrerà quella gente sorridere, cantare, suonare la propria vuvuzela, proprio prima del calcio d'inizio, sarà sicuramente una grande festa, per un paese che ha saputo rinascere, lottando, e che diventa protagonista per 3 settimane. Però poco prima del calcio d'inizio, ci saranno tante altre facce che la telecamera preferirà ignorare, se appena fuori dallo stadio c'è chi vive con appena 2 dollari al giorno, e che da qui a un mese torna ad avere la propria città meno affollata ed addobbata. Poco prima del calcio d'inizio basterebbe pensare a quest'ennesima storia di soprusi e violenze, senza pretendere niente di trascendentale o falsa morale, soltanto un pensiero agli eventi passati; la storia di questo paese non influenzerà sicuramente il nostro tifo, ma forse può aiutare a vedere in modo diverso il presente, magari migliorare il futuro, senza magie ma soltanto un po più di coscienza. E buon mondiale a tutti.
At the end of the line 44
Ma i ricordi no
La scorsa settimana una coppia di nostri amici ha subito un furto in casa, qui a Bruxelles. Un furto classico, ha spiegato la polizia. La maggior parte degli edifici del centro e nella zona limitrofa al centro risalgono agli inizi del 1900, sono vecchi, ristrutturati, alcuni sono davvero belli con il loro inconfondibile stile art nouveau, ma non sono decisamente a prova di ladro. Solitamente soltanto l'entrata principale ha un portone robusto e sicuro, mentre le entrate dei singoli appartamenti all'interno sono semplici porte di legno, spesso vecchie e facili da aprire, almeno per gli esperti del mestiere. Per i proprietari va bene così, gli affittuari magari non ci pensano, tra inesperienza e distrazioni maggiori. Se però qualcuno sbadatamente lascia l'entrata principale aperta, ecco che qualcosa di spiacevole può anche accadere, soprattutto al primo e all'ultimo piano: al primo in modo da scappare velocemente, all'ultimo per la mancanza di passanti davanti alla porta.
I nostri amici vivono proprio all'ultimo piano, non lontano dalla metro Art-Loi, pochi minuti a piedi dai palazzoni di vetro di uffici e scartoffie. Due buchi ai lati della serratura ed ecco che la porta si apre. Nell'appartamento di una coppia di giovani ragazzi all'estero in generale non ci saranno gran tesori, han portato via due portatili, due camere digitali, qualche anello, buoni pasti. Certo lo spavento di trovare la porta di casa aperta ed il disordine di un furto, una preoccupazione in più, un danno economico non previsto, ma quello che davvero non sopportano l'amico francese e la ragazza lituana è l'aver perso per sempre i propri ricordi, la maggior parte delle foto degli ultimi anni, di viaggi, di feste, di vita quotidiana. Per loro la copia sul portatile dell'altro rappresentava già un buon backup. Non abbastanza quando entrambi i computer scompaiono, rubati. E adesso i mille ricordi immortalati in scatti spontanei, di sorrisi, di smorfie, di momenti insieme, son persi per sempre.
Venerdì all'uscita dall'ufficio, la metro è nel suo orario di punta pomeridiano. Non si trovano posti a sedere e allora ognuno si aggrappa ad un palo, chi si appoggia in un angolo, chi si riflette nel finestrino graffiato. Di fronte a me una ragazza intenta ad ascoltare musica dal suo lettore mp3. Ad un certo punto un signore le si avvicina discreto e le fa notare che lo zaino che portava sulle spalle aveva una tasca aperta. La ragazza si porta lo zaino alla pancia, lo trova aperto, inizia a cercare, non trova, si agita, un merde, un puttain ed altre imprecazioni francesi: le avevano rubato tutto nella metro e lei non se n'era resa conto. Scoppia in un pianto copioso. Quel signore le domanda se le avessero rubato qualcosa di importante. Lei risponde tra le lacrime prima con un no, no, poi sì, sì, poi confusa esce non appena la metro si ferma.
Ecco, non so cosa le avessero rubato. Magari una camera digitale, il cellulare, soldi. Magari anche i suoi ricordi, persi anche quelli per sempre, di foto scattate con amici, con l'altra metà, di sms salvati sul cellulare, quelli da rileggere dopo tanto tempo e sorride lievemente ad ogni parola. Rubati anche quelli.
Ecco, che Bruxelles non sia la città più sicura del mondo, questo lo sapevo. Ma prendendo la metro ogni giorno, vivendo anch'io all'ultimo piano di una palazzina di quelle non modernissime, credo non siano necessari altri eventi analoghi per convincermi a fare qualche backup. Se proprio deve accadere, nel caso peggiore va bene subire un furto, va bene perdere un cellulare, dei soldi, un portatile, un orologio, ma i ricordi no.
I nostri amici vivono proprio all'ultimo piano, non lontano dalla metro Art-Loi, pochi minuti a piedi dai palazzoni di vetro di uffici e scartoffie. Due buchi ai lati della serratura ed ecco che la porta si apre. Nell'appartamento di una coppia di giovani ragazzi all'estero in generale non ci saranno gran tesori, han portato via due portatili, due camere digitali, qualche anello, buoni pasti. Certo lo spavento di trovare la porta di casa aperta ed il disordine di un furto, una preoccupazione in più, un danno economico non previsto, ma quello che davvero non sopportano l'amico francese e la ragazza lituana è l'aver perso per sempre i propri ricordi, la maggior parte delle foto degli ultimi anni, di viaggi, di feste, di vita quotidiana. Per loro la copia sul portatile dell'altro rappresentava già un buon backup. Non abbastanza quando entrambi i computer scompaiono, rubati. E adesso i mille ricordi immortalati in scatti spontanei, di sorrisi, di smorfie, di momenti insieme, son persi per sempre.
Venerdì all'uscita dall'ufficio, la metro è nel suo orario di punta pomeridiano. Non si trovano posti a sedere e allora ognuno si aggrappa ad un palo, chi si appoggia in un angolo, chi si riflette nel finestrino graffiato. Di fronte a me una ragazza intenta ad ascoltare musica dal suo lettore mp3. Ad un certo punto un signore le si avvicina discreto e le fa notare che lo zaino che portava sulle spalle aveva una tasca aperta. La ragazza si porta lo zaino alla pancia, lo trova aperto, inizia a cercare, non trova, si agita, un merde, un puttain ed altre imprecazioni francesi: le avevano rubato tutto nella metro e lei non se n'era resa conto. Scoppia in un pianto copioso. Quel signore le domanda se le avessero rubato qualcosa di importante. Lei risponde tra le lacrime prima con un no, no, poi sì, sì, poi confusa esce non appena la metro si ferma.
Ecco, non so cosa le avessero rubato. Magari una camera digitale, il cellulare, soldi. Magari anche i suoi ricordi, persi anche quelli per sempre, di foto scattate con amici, con l'altra metà, di sms salvati sul cellulare, quelli da rileggere dopo tanto tempo e sorride lievemente ad ogni parola. Rubati anche quelli.
Ecco, che Bruxelles non sia la città più sicura del mondo, questo lo sapevo. Ma prendendo la metro ogni giorno, vivendo anch'io all'ultimo piano di una palazzina di quelle non modernissime, credo non siano necessari altri eventi analoghi per convincermi a fare qualche backup. Se proprio deve accadere, nel caso peggiore va bene subire un furto, va bene perdere un cellulare, dei soldi, un portatile, un orologio, ma i ricordi no.
Quando il tifo ha origini lontane
Magari è come quando crescendo da piccolo con un mito, un eroe di castelli e mostri alati, come quando si cresce con l'ammirazione e la fede verso quel personaggio invincibile, narrato dalle parole del babbo in un sospiro di ricordi e rassegnazione, e allora non importa se poi quel mito è reale. se ha una rappresentazione in terra e non è tutta questa perfezione, anche senza i soliti confronti con la quotidianità che circonda e si vive, quell'eroe è oramai nell'immaginario fin da piccoli, nei racconti di famiglia, nelle voglie di sole onnipresente, di mare lontano, di cibo squisito, a maggior ragione quando poi l'eroe alza la coppa del mondo a Berlino e allora si consacra come vincitore, del mondo, e diventa decisamente migliore dell'intorno anonimo, nel quale non ci si riconosce per origini e fiabe.
Magari sarà stato così ieri quando allo stadio migliaia e migliaia di maglie azzurre si accalcavano ed urlavano, bandiere altissime, facce colorate, capelli tricolore, tutti a tifare Italia qui a Bruxelles contro un Messico rappresentato da una minima parte sicuramente non intimidita e ugualmente pronta a far festa. E di quelle migliaia di maglie azzurre la maggioranza era belga, parlava francese, ma di origini sicuramente italiane quando dialetti di ogni parte dello stivale si mescolavano in urla dalla foga appassionata nei nomi degli eroi, magari un po' vecchi ed acciaccati, ma se la nazionale è questa, se non c'è fantasia, ecco che si perde e l'eroe delude, non riesce a vincere davanti a quella folla innamorata, quei figli di immigrati e d'integrazione spesso mancata anche attraverso generazioni, con il cuore che batte al ritmo di Mameli e si son riuniti lì attorno a quelle tracce di patria; poi ecco che a pochi metri dal nostro posto scattano addirittura i tafferugli al secondo goal messicano, e quegli italiani che non parlano italiano ma che si sentono italiani più d'ogni altro per origini e fede, per sangue e fanatismo, si scatenano in quello che non sembra per nulla il tifo per un'amichevole, mentre ragazze messicane festeggiano anche al nostro goal della bandiera, perché si sta lì per far festa, perché parte del biglietto è per beneficenza, perché in fondo alla fine dovrebbe essere soltanto sport.
Italia - Messico, 1 - 2. Ieri qui a Bruxelles lo spettacolo non era sicuramente in campo (o almeno non per gli azzurri), e sugli spalti, in curva dove stavamo noi, italiani, oriundi, belgi s'univano in un solo unico grido e poco importa tutto il resto. Magie o misteri del calcio.
Magari sarà stato così ieri quando allo stadio migliaia e migliaia di maglie azzurre si accalcavano ed urlavano, bandiere altissime, facce colorate, capelli tricolore, tutti a tifare Italia qui a Bruxelles contro un Messico rappresentato da una minima parte sicuramente non intimidita e ugualmente pronta a far festa. E di quelle migliaia di maglie azzurre la maggioranza era belga, parlava francese, ma di origini sicuramente italiane quando dialetti di ogni parte dello stivale si mescolavano in urla dalla foga appassionata nei nomi degli eroi, magari un po' vecchi ed acciaccati, ma se la nazionale è questa, se non c'è fantasia, ecco che si perde e l'eroe delude, non riesce a vincere davanti a quella folla innamorata, quei figli di immigrati e d'integrazione spesso mancata anche attraverso generazioni, con il cuore che batte al ritmo di Mameli e si son riuniti lì attorno a quelle tracce di patria; poi ecco che a pochi metri dal nostro posto scattano addirittura i tafferugli al secondo goal messicano, e quegli italiani che non parlano italiano ma che si sentono italiani più d'ogni altro per origini e fede, per sangue e fanatismo, si scatenano in quello che non sembra per nulla il tifo per un'amichevole, mentre ragazze messicane festeggiano anche al nostro goal della bandiera, perché si sta lì per far festa, perché parte del biglietto è per beneficenza, perché in fondo alla fine dovrebbe essere soltanto sport.
Italia - Messico, 1 - 2. Ieri qui a Bruxelles lo spettacolo non era sicuramente in campo (o almeno non per gli azzurri), e sugli spalti, in curva dove stavamo noi, italiani, oriundi, belgi s'univano in un solo unico grido e poco importa tutto il resto. Magie o misteri del calcio.
Tabellone finale dell'amichevole tra Italia e Messico a Bruxelles. Foto scattata qui. |
Dietro il sorriso degli altri
Durante lo scorso fine settimana a Roma, stanchi del lungo percorso a piedi da Piazza del Popolo ai Fori Imperiali, ci fermiamo a pochi passi dal Colosseo, in una nicchia all'ombra sulla destra, dove un po' d'erba rende più piacevole la sosta. Il sole batte forte, forse anche eccessivamente per chi da quasi tre anni vive troppo a nord e per i mille turisti che passano boccheggiando lungo la via che costeggia la maestosa figura dell'anfiteatro Flavio. Proprio ai piedi della pendenza su cui ci siamo accasciati, sul muretto che costeggia il marciapiedi si ferma una signora completamente vestita di nero. Con questo caldo - penso - non è sicuramente il colore adatto per fermarsi lì dove batte forte il sole, mentre qui, a pochi metri c'è ombra e sollievo.
Mi colpiscono subito le sue mani, cornici di rughe tra le dita, e quelle vene sopraelevate come una sottile ragnatela in superficie, mi ricordano incredibilmente quelle di mia madre, mani non più giovani, mani di lavoro, mani sempre affaccendate, ma soprattutto mani di carezze. Da un sacco nero esce una maschera egizia ed un contenitore dello stesso stile.
Ed ecco che inizia la trasformazione e quel vestito nero adesso ha un senso: quella signora indossa la maschera, dei guanti e pone quel contenitore ai suoi piedi. Ecco svelato il mistero, la signora immobile simula una statua egizia ed immobile attende le offerte dei passanti.
Fa veramente caldo e non c'è vento. Stare lì immobili, vestiti di nero, in attesa di qualche moneta, per poi chinare appena il collo in segno di ringraziamento, sfiancherebbe anche un ragazzo. Non arrivano spiccioli. Passa molta gente, chi la guarda di sfuggita, molti sorridono ma proseguono veloci, qualche bimbo la indica con il ditino in un sorrisino per poi seguire la direzione del padre, altri ignorano, ognuno ad inseguire il proprio destino. Ma non c'è tintinnio di moneta contro moneta. Così il sorriso dei passanti, di buffo, di strano, non si trasforma in offerta e a quella divinità egizia non c'è tributo. E penso a quelle mani così familiari, a quelle mani materne, come se lì, ferma immobile, sotto il sole che sfianca, ci fosse mia madre.
Dietro il sorriso degli altri c'era forse pena, sofferenza e dolore, c'era un altro mondo che spesso si ignora o si preferisce non immaginare, magari nella distrazione o quell'ignava cortesia del chiamare artista di strada chi tenta di racimolare qualche soldo e parlare d'offerta perché magari elemosina suona male ma cambia poco il senso se domani sarà la stessa storia. E forse sarebbe meglio vedere un mendicante malformato con la scritta ho fame ed i passanti schifare, accelerare il passo, mostrare freddezza o gettare monete quasi con disprezzo o con la paura di incontrare lo sguardo, come se ci fosse una maledizione, uno specchio stregato, come se la povertà potesse inghiottire anche loro; ma almeno non quella falsità involontaria, non quei sorrisi a chi sotto la maschera non sorride, perché dietro il sorriso degli altri purtroppo non sempre c'è un sentimento analogo mentre qualcuno tenta di raccogliere qualcosa, chinando il viso, ringraziando con gli occhi bassi ed il volto mascherato.
Dietro il sorriso degli altri c'era quel mondo reale, quello quotidiano di sforzi e problemi, quello che spesso non appare nel finto palcoscenico della televisione e che i politici ingordi preferiscono ignorare mentre sfrecciano nelle auto blu strillanti o si lanciano nelle solite menzogne propagandistiche, quello di donne che nonostante una certa età s'inventano nuovi modi di guadagnare qualcosa, quello di una società sicuramente non perfetta dove c'è ancora tanto da migliorare ma si rimanda sempre al domani, perché ognuno egoisticamente ha la propria vita da riempire.
Lasciamo l'ombra, l'erba ed il riposo. Lasciamo un'offerta in quel cesto decorato d'Egitto ed al chinarsi della maschera tento di intravedere i suoi occhi. Dentro sento un umore misto di tristezza e rabbia, ma non ho potuto resistere, le ho dovuto regalare un sorriso anche se pur accennato, quasi di supporto, come di comprensione, un sorriso anche se fino a pochi attimi prima ho odiato quelli dei passanti, un sorriso per non trasmettere dolore, tentando di abbracciare se pur per un secondo o almeno accarezzare quelle mani materne.
Mi colpiscono subito le sue mani, cornici di rughe tra le dita, e quelle vene sopraelevate come una sottile ragnatela in superficie, mi ricordano incredibilmente quelle di mia madre, mani non più giovani, mani di lavoro, mani sempre affaccendate, ma soprattutto mani di carezze. Da un sacco nero esce una maschera egizia ed un contenitore dello stesso stile.
Ed ecco che inizia la trasformazione e quel vestito nero adesso ha un senso: quella signora indossa la maschera, dei guanti e pone quel contenitore ai suoi piedi. Ecco svelato il mistero, la signora immobile simula una statua egizia ed immobile attende le offerte dei passanti.
Fa veramente caldo e non c'è vento. Stare lì immobili, vestiti di nero, in attesa di qualche moneta, per poi chinare appena il collo in segno di ringraziamento, sfiancherebbe anche un ragazzo. Non arrivano spiccioli. Passa molta gente, chi la guarda di sfuggita, molti sorridono ma proseguono veloci, qualche bimbo la indica con il ditino in un sorrisino per poi seguire la direzione del padre, altri ignorano, ognuno ad inseguire il proprio destino. Ma non c'è tintinnio di moneta contro moneta. Così il sorriso dei passanti, di buffo, di strano, non si trasforma in offerta e a quella divinità egizia non c'è tributo. E penso a quelle mani così familiari, a quelle mani materne, come se lì, ferma immobile, sotto il sole che sfianca, ci fosse mia madre.
Dietro il sorriso degli altri c'era forse pena, sofferenza e dolore, c'era un altro mondo che spesso si ignora o si preferisce non immaginare, magari nella distrazione o quell'ignava cortesia del chiamare artista di strada chi tenta di racimolare qualche soldo e parlare d'offerta perché magari elemosina suona male ma cambia poco il senso se domani sarà la stessa storia. E forse sarebbe meglio vedere un mendicante malformato con la scritta ho fame ed i passanti schifare, accelerare il passo, mostrare freddezza o gettare monete quasi con disprezzo o con la paura di incontrare lo sguardo, come se ci fosse una maledizione, uno specchio stregato, come se la povertà potesse inghiottire anche loro; ma almeno non quella falsità involontaria, non quei sorrisi a chi sotto la maschera non sorride, perché dietro il sorriso degli altri purtroppo non sempre c'è un sentimento analogo mentre qualcuno tenta di raccogliere qualcosa, chinando il viso, ringraziando con gli occhi bassi ed il volto mascherato.
Dietro il sorriso degli altri c'era quel mondo reale, quello quotidiano di sforzi e problemi, quello che spesso non appare nel finto palcoscenico della televisione e che i politici ingordi preferiscono ignorare mentre sfrecciano nelle auto blu strillanti o si lanciano nelle solite menzogne propagandistiche, quello di donne che nonostante una certa età s'inventano nuovi modi di guadagnare qualcosa, quello di una società sicuramente non perfetta dove c'è ancora tanto da migliorare ma si rimanda sempre al domani, perché ognuno egoisticamente ha la propria vita da riempire.
Lasciamo l'ombra, l'erba ed il riposo. Lasciamo un'offerta in quel cesto decorato d'Egitto ed al chinarsi della maschera tento di intravedere i suoi occhi. Dentro sento un umore misto di tristezza e rabbia, ma non ho potuto resistere, le ho dovuto regalare un sorriso anche se pur accennato, quasi di supporto, come di comprensione, un sorriso anche se fino a pochi attimi prima ho odiato quelli dei passanti, un sorriso per non trasmettere dolore, tentando di abbracciare se pur per un secondo o almeno accarezzare quelle mani materne.
Vacanze romane
La mia ragazza non era mai stata in Italia ed allora ho deciso di farle iniziare la scoperta del bel paese dalla capitale nonché meta turistica più ambita per gli stranieri. Un fine settimana ed allora ecco le nostre vacanze romane.
L'alloggio. Cercando un alloggio nella capitale e controllando sempre i commenti su tripadvisor sembra davvero che sia una mezza avventura per giovani stranieri con budget ristretto trovare un posto normale a Roma. Ho letto di ostelli pubblicizzati come tali ma che non esistevano e alla fine erano agenzie che rimandavano ad altri ostelli (più economici di quello prenotato), di personale maleducato, di pulizia inesistente, di scarsa organizzazione, di B&B che alla fine erano appartamenti introvabili senza insegne né reception e nella quasi totalità dei casi di nessuno che accettasse pagamenti con carte di credito, sempre e solo cash (e siamo nel 2010). Ecco, secondo me la Brambilla, nostro ministro del turismo, farebbe bene a provare ad immedesimarsi nei panni di uno straniero che vuole venire a visitare e contribuire alla macchina turistica e quindi economica del paese, invece di focalizzarsi sulla solita propaganda.
Attraversare la strada. In generale a Bruxelles basta mettere il piede sulle strisce ed ecco che le macchine si fermano e ti lasciano attraversare. A Roma ho notato il seguente protocollo: con semaforo rosso per i pedoni, sei lo spettatore di un gran premio di formula una; con semaforo verde, attraversi a tuo rischio e pericolo; senza semaforo ma sulle strisce pedonali, al primo buco libero inizia a correre!
Gladiatori moderni. Nei pressi di Castel Sant'Angelo vediamo i soliti due tipi vestiti da gladiatore e decidiamo di farci una foto ricordo.
io: Scusate, ci possiamo fare una foto?
uno di loro: sì però prima me devi da li sordi.
io: sì certo, quant'è?
l'altro: molto de più de quanto stavi pensando.
Alla fine gli do tre euro. Foto, smorfie strane e sorrisi. Poi mi dicono che la giornata è fiacca, si lavoro poco. Gli auguro il meglio per il loro business. Certo però che con qualche accortezza negli approcci, magari potrebbero rilanciare un po' l'economia dei gladiatori moderni.
La fame da contenere. Assaliti da una fame incontenibile, ci fermiamo ad uno dei tanti ristoranti turistici a metà altezza tra il Pantheon e via del Corso. Ordiniamo bucatini all'amatriciana (siamo a Roma, no?:) Dopo poco ci portano la pasta. Al primo boccone le forchette cadono dalle mani: tutto è salato all'inverosimile, da non poter continuare. Chiamiamo il cameriere che tentenna alle nostre parole. Da dietro l'altro cameriere veloce "prendi tutto e porta dentro, altrimenti gli altri ascoltano e capiscono".
Dei turisti americani al tavolo a fianco ci chiedono come mai avevano portato via i nostri piatti. Dopo due minuti scappano. Dopo aver pagato soltanto l'acqua, andiamo via anche noi. Per fortuna poi la tra Sore Lella ad Ariccia e la tappa obbligata da Pompi a Roma, dimentichiamo tutto.
Fanatismo religioso. A Roma ho visto obelischi egiziani con croce cristiana alla sommità, colonna di imperatori romani con apostoli cristiani alla sommità, il Panteon (casa di tutti gli dei) trasformato in chiesa cristiana, il Colosseo (dove certo all'epoca non si facevano carezze) con una croce cristiana sulla facciata a nord-ovest, nicchie con madonne e angeli agli angoli di numerosi palazzi del centro, chiese in ogni quartiere, negozi di souvenir con icone cristiane e le immagini dei 230 e più papi che si sono alternati, insomma va bene che c'è il Vaticano, ma siamo sicuri che il fanatismo religioso è solamente islamico?
La più bella. Nonostante questi brevi aneddoti, sciocchezze nella cornice del fine settimana, la bellezza della città colpisce inevitabilmente. Avendo visitato negli ultimi tre anni diverse città europee (Barcellona, Ibiza, Basilea, Dublino, Belfast, Glasgow, Berlino, Londra, Bruxelles, Madrid, Toledo, Cordoba, Granada, Siviglia, Amsterdam, Parigi, Las Palmas, Oslo) credo davvero che a livello turistico, dal punto di vista storico ed artistico, le altre città rimangono senza dubbio dietro, Roma è unica. De gustibus, ovviamente, io l'avevo vista già diverse volte, ma ogni tanto bisogna visitarla di nuovo, è semplicemente uno spettacolo, davvero.
L'alloggio. Cercando un alloggio nella capitale e controllando sempre i commenti su tripadvisor sembra davvero che sia una mezza avventura per giovani stranieri con budget ristretto trovare un posto normale a Roma. Ho letto di ostelli pubblicizzati come tali ma che non esistevano e alla fine erano agenzie che rimandavano ad altri ostelli (più economici di quello prenotato), di personale maleducato, di pulizia inesistente, di scarsa organizzazione, di B&B che alla fine erano appartamenti introvabili senza insegne né reception e nella quasi totalità dei casi di nessuno che accettasse pagamenti con carte di credito, sempre e solo cash (e siamo nel 2010). Ecco, secondo me la Brambilla, nostro ministro del turismo, farebbe bene a provare ad immedesimarsi nei panni di uno straniero che vuole venire a visitare e contribuire alla macchina turistica e quindi economica del paese, invece di focalizzarsi sulla solita propaganda.
Attraversare la strada. In generale a Bruxelles basta mettere il piede sulle strisce ed ecco che le macchine si fermano e ti lasciano attraversare. A Roma ho notato il seguente protocollo: con semaforo rosso per i pedoni, sei lo spettatore di un gran premio di formula una; con semaforo verde, attraversi a tuo rischio e pericolo; senza semaforo ma sulle strisce pedonali, al primo buco libero inizia a correre!
Gladiatori moderni. Nei pressi di Castel Sant'Angelo vediamo i soliti due tipi vestiti da gladiatore e decidiamo di farci una foto ricordo.
io: Scusate, ci possiamo fare una foto?
uno di loro: sì però prima me devi da li sordi.
io: sì certo, quant'è?
l'altro: molto de più de quanto stavi pensando.
Alla fine gli do tre euro. Foto, smorfie strane e sorrisi. Poi mi dicono che la giornata è fiacca, si lavoro poco. Gli auguro il meglio per il loro business. Certo però che con qualche accortezza negli approcci, magari potrebbero rilanciare un po' l'economia dei gladiatori moderni.
La fame da contenere. Assaliti da una fame incontenibile, ci fermiamo ad uno dei tanti ristoranti turistici a metà altezza tra il Pantheon e via del Corso. Ordiniamo bucatini all'amatriciana (siamo a Roma, no?:) Dopo poco ci portano la pasta. Al primo boccone le forchette cadono dalle mani: tutto è salato all'inverosimile, da non poter continuare. Chiamiamo il cameriere che tentenna alle nostre parole. Da dietro l'altro cameriere veloce "prendi tutto e porta dentro, altrimenti gli altri ascoltano e capiscono".
Dei turisti americani al tavolo a fianco ci chiedono come mai avevano portato via i nostri piatti. Dopo due minuti scappano. Dopo aver pagato soltanto l'acqua, andiamo via anche noi. Per fortuna poi la tra Sore Lella ad Ariccia e la tappa obbligata da Pompi a Roma, dimentichiamo tutto.
Fanatismo religioso. A Roma ho visto obelischi egiziani con croce cristiana alla sommità, colonna di imperatori romani con apostoli cristiani alla sommità, il Panteon (casa di tutti gli dei) trasformato in chiesa cristiana, il Colosseo (dove certo all'epoca non si facevano carezze) con una croce cristiana sulla facciata a nord-ovest, nicchie con madonne e angeli agli angoli di numerosi palazzi del centro, chiese in ogni quartiere, negozi di souvenir con icone cristiane e le immagini dei 230 e più papi che si sono alternati, insomma va bene che c'è il Vaticano, ma siamo sicuri che il fanatismo religioso è solamente islamico?
La più bella. Nonostante questi brevi aneddoti, sciocchezze nella cornice del fine settimana, la bellezza della città colpisce inevitabilmente. Avendo visitato negli ultimi tre anni diverse città europee (Barcellona, Ibiza, Basilea, Dublino, Belfast, Glasgow, Berlino, Londra, Bruxelles, Madrid, Toledo, Cordoba, Granada, Siviglia, Amsterdam, Parigi, Las Palmas, Oslo) credo davvero che a livello turistico, dal punto di vista storico ed artistico, le altre città rimangono senza dubbio dietro, Roma è unica. De gustibus, ovviamente, io l'avevo vista già diverse volte, ma ogni tanto bisogna visitarla di nuovo, è semplicemente uno spettacolo, davvero.
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