Foto scattata qui. |
Di una bellezza un po' disarmante
Cose che davvero non t'aspettavi durante un matrimonio civile in Belgio, il tuo, è d'ascoltare dopo il solito discorso in francese d'obblighi e responsabilità, poi frasi in italiano e spagnolo dall'assessore di uno dei comuni di Bruxelles, perché Bruxelles è così con le lingue, ti sorprende sempre e non t'abitui, e ringraziarvi perché portatori d'ulteriore diversità lì dove già più di 140 nazionalità distinte vivono in sufficiente armonia, eccolo l'ombelico del mondo, di romanzi e leggende nessuno avrebbe mai pensato che potesse trovarsi lì nel nord Europa e chiamarsi poi Saint Gilles, tra i comuni più poveri di tutto il Belgio eppure ricco, di culture, di gente, di storie, eppoi lasciarsi andare in considerazioni personali, lui belga ma di moglie spagnola, nella cornice d'un municipio esteticamente bellissimo, ad accogliere la vostra identità, farvi dimenticare d'essere stranieri, a trasmettere serenità e consapevolezze, in espressioni e osservazioni che valgono più di qualsiasi predica religiosa, per te contento di non essere in una chiesa e piegarti a tradizioni di false credenze e obblighi d'aspettative, d'appartenenze, appartieni di più a quel sorriso belga che regala fiori a lei e ti stringe la mano quasi fossi un figlio, uno in più, contribuendo a rendere speciale un evento che porti con te come fosse nuova pelle, trasformando in momento di ispirazione e sorpresa qualcosa che sarebbe dovuto essere soltanto burocrazia ed impegno. Poi ti domandano cosa ti abbia fatto mai innamorare di Bruxelles e si aspettano risposte brevi, di poche parole. Di poche parole sarà questo blog, per il prossimo mese, perché si va via per un po'. Queste pagine virtuali, nel frattempo, si trasformano in fotoblog brussellese, giusto per spezzare l'altrimenti monotona composizione di pixel già digeriti. A presto.
L'ombelico del mondo. Foto scattata qui. |
In all my life I ne'er did see
E stavi lì seduta, al secondo piano del PorterHouse di Temple Bar, a Dublino, in quel lontano gennaio del 2008, mentre musiche irlandesi si diffondevano live nella penombra, io che con l'inglese balbettavo e litigato, approdato da appena 2 mesi nell'isola dei leprechaun da solo, senza lavoro e senza conoscere nessuno, forse non sapevo nemmeno cosa fosse, un leprechaun, o ne avevo visti a migliaia, tra souvenir per turisti e riferimenti pubblicitari, ma non sapevo si chiamassero così. Non sapevo nemmeno chi fossi, quella domenica sera al PorterHouse, se non l'amica di un coinquilino che nemmeno sapevo chi fosse, né potevo immaginare che un leprechaun giocasse intanto con la mia Guinness che Guinness non era, t'ho vista e t'ho voluto baciare, da subito, non l'ho fatto, non potevo, mentre qualcuno rideva del mio inglese e tu invece cercavi d'aiutarmi, a pronunciare qualcosa di sensato che non fosse soltanto italiano tradotto. Ho tradotto poi la mia poesia preferita, di Baudelaire, dall'italiano allo spagnolo, dopo i primi baci a Belfast, anche se in realtà non l'ho tradotta ma ne ho mescolate diverse, di traduzioni, in modo da averne quella che più piaceva, più che altro per i suoni. E l'ho imparata a memoria, mentre attraversavo ogni mattina Grafton Street per andar a prendere la Luas, anche se non avevo idea di come si pronunciasse la j in spagnolo, dovevo far tanto ridere quando abbastanza brillo te la sussurrai all'orecchio. Brillo non ero, quando mi svegliai alle 4 di mattina per venir sotto casa tua, in una gelida Dublino invernale, e scrivere sull'asfalto non i soliti i love you adolescenziali ma qualcosa di più semplice e sincero, you're my happiness, scrissi, nascondendomi appena un'auto s'affacciasse sul vicolo, per paura della Gardai, con le mani macchiate di vernice, rossa. Rossa come la bandiera del Canada lontano, io che avevo già un visto di lavoro per Vancouver, quando già sembrava compromesso tra noi per futili malintesi e in procinto di lanciarmi nell'ennesima avventura, per poi ritrovarti una notte d'agosto ad una festa, appena un mese prima della partenza, l'ho strappato quel visto, ho dimenticato tutto in un bicchiere di vino, rosso. Me lo ricordo ancora, il tuo cappotto rosso, quando arrivammo a Bruxelles carichi di progetti, insieme da appena 4 mesi, mentre tra noi si parlava ancora inglese, lo eliminammo presto, quell'inglese, perché tra un italiano ed una spagnola era troppo innaturale, dicevamo, troppo martoriato da accenti del sud, diceva l'inglese. E ho fatto mia la tua lingua, mentre si giocava intanto con accenti francesi, mentre m'aiutavi ad uscire da un provincialismo indottrinato e pacare impulsi che non si cibavano abbastanza d'empatia, mentre t'insegnavo cos'era la mantecatura della pasta e il basilico e la mozzarella, mentre mi mostravi cos'era il pimentón e il cocido e il gazpacho. C'è una canzone dei Dubliners che credo non aver mai ascoltato a Dublino, ma solo perché troppo ubriaco d'emozioni all'epoca, troppo indaffarato a trangugiare novità e vomitare giudizi da shock culturale, The Spanish lady, si chiama la canzone, In all my life I ne'er did see, a maid so fair since I did roam, dice la canzone. E c'è un'altra canzone, dei Queen, che nemmeno conoscevo, I was born to love you, I was born to take care of you every single day of my life, dice la canzone. Le suonerà entrambe un cd in uno dei comuni più belli di Bruxelles, domani mattina, quando mi tornerà tutto in mente nel giro di pochi istanti. E ti sposerò.
Disintegrarsi altrove
C'è la storia di uno spagnolo a Berlino, emigrato 6 anni fa in Germania, con il mito dell'integrazione, quella preoccupazione iniziale che molti hanno di doversi integrare ad ogni costo, quasi fosse una mania, per imparare la lingua, per avere amici tedeschi, evitando connazionali quasi fossero la peste, incontrandone uno però che si circonda solo di spagnoli, pur vivendo lì da diversi anni, e che gli dice poi di essere già nella fase di disintegrazione. Lui non capisce - dice - all'inizio non può. Poi con il tempo s'accorge però che quella lingua è una barriera per le connessioni sociali, che non è facile padroneggiarla né entrare in breve tempo tra le amicizie di chi aveva già una vita prima del suo arrivo e che aveva già le proprie connessioni nonostante il suo arrivo, e allora quell'idealismo iniziale si scontra con la dura realtà dell'emigrante, terminando col circondarsi d'altri spagnoli, anche per necessità, per non restare solo a casa i fine settimana.
Certo, la sua integrazione ha fatto poi comunque progressi enormi, con la lingua già meno ostile e con almeno quattro amici tedeschi da esporre in bacheca come trofei, ma - racconta il ragazzo spagnolo a Berlino - non è riuscito a raggiungere quel monito iniziale, non è riuscito a non sentirsi spagnolo in Germania (e perché mai avrebbe dovuto?). Senza nessuna discriminazione - dice - alla fine bisogna riconoscere la propria identità, quella voglia di unirsi a persone che condividono quel passato comune, che capiscono umori o espressioni senza il bisogno di star lì a spiegare, chiarire, giustificare, quel bisogno di avere anche conversazioni insensate, per esempio, usare un proverbio, la frase di una canzone, riferimenti a personaggi popolari o lasciare che la notte lo porti in giro senza programmi né pensieri e - dice - succede più facilmente con quelli del sud Europa. È giunto anche lui alla fase di disintegrazione - ammette - dopo 6 anni altrove, alla ricerca della propria identità in un paese straniero.
Però - dice il ragazzo spagnolo a Berlino - anche quando torna a casa si sente strano, gli dicono che si sia germanizzato, perché non sopporta più chi urla per strada, chi salta le code, chi approssima, chi trascura. Ha assorbito vantaggi della cultura tedesca, quindi, a scapito di un pezzo di quell'identità che adesso cerca altrove. E non riesce più a spiegarsi come sia possibile che in Germania politici si dimettano per un paragrafo copiato nella tesi di dottorato - cita il caso di Karl-Theodor zu Guttenberg - o per crediti ottenuti in condizioni vantaggiose - citando l'ex presidente Wulff - mentre in Spagna sembra tutto surreale (e non solo in Spagna, si potrebbe aggiungere). Anche il surrealismo è relativo.
Ad ogni inverno - conclude il ragazzo spagnolo da sei anni a Berlino - pensa di tornare al calore di casa (anche se d'inverno Madrid non ha poi questo clima così tropicale eh), ma appena pensa di doversi di nuovo adattare ad un sistema oramai ammuffito, beh, rimanda certi pensieri di almeno un paio d'anni.
Caro ragazzo spagnolo da 6 anni a Berlino, buona disintegrazione anche a te.
Certo, la sua integrazione ha fatto poi comunque progressi enormi, con la lingua già meno ostile e con almeno quattro amici tedeschi da esporre in bacheca come trofei, ma - racconta il ragazzo spagnolo a Berlino - non è riuscito a raggiungere quel monito iniziale, non è riuscito a non sentirsi spagnolo in Germania (e perché mai avrebbe dovuto?). Senza nessuna discriminazione - dice - alla fine bisogna riconoscere la propria identità, quella voglia di unirsi a persone che condividono quel passato comune, che capiscono umori o espressioni senza il bisogno di star lì a spiegare, chiarire, giustificare, quel bisogno di avere anche conversazioni insensate, per esempio, usare un proverbio, la frase di una canzone, riferimenti a personaggi popolari o lasciare che la notte lo porti in giro senza programmi né pensieri e - dice - succede più facilmente con quelli del sud Europa. È giunto anche lui alla fase di disintegrazione - ammette - dopo 6 anni altrove, alla ricerca della propria identità in un paese straniero.
Però - dice il ragazzo spagnolo a Berlino - anche quando torna a casa si sente strano, gli dicono che si sia germanizzato, perché non sopporta più chi urla per strada, chi salta le code, chi approssima, chi trascura. Ha assorbito vantaggi della cultura tedesca, quindi, a scapito di un pezzo di quell'identità che adesso cerca altrove. E non riesce più a spiegarsi come sia possibile che in Germania politici si dimettano per un paragrafo copiato nella tesi di dottorato - cita il caso di Karl-Theodor zu Guttenberg - o per crediti ottenuti in condizioni vantaggiose - citando l'ex presidente Wulff - mentre in Spagna sembra tutto surreale (e non solo in Spagna, si potrebbe aggiungere). Anche il surrealismo è relativo.
Ad ogni inverno - conclude il ragazzo spagnolo da sei anni a Berlino - pensa di tornare al calore di casa (anche se d'inverno Madrid non ha poi questo clima così tropicale eh), ma appena pensa di doversi di nuovo adattare ad un sistema oramai ammuffito, beh, rimanda certi pensieri di almeno un paio d'anni.
Caro ragazzo spagnolo da 6 anni a Berlino, buona disintegrazione anche a te.
Ogni volta
Ogni volta che inciampate nel lamento vorace della nuvola passeggera, della pioggia deludente e l'ennesima mancanza di sole che lascia senza energie perché divora il vostro umore e di conseguenza quello degli altri attorno, appena iniziate ad addossare le colpe di qualsiasi cosa alla crisi, al governo, alla corruzione, agli alieni, quando vi fermate perché c'è una paura che inghiotte la grinta, oscura la passione, consuma gli interessi, ecco, ogni volta che volevate provarci ma, che pensavate di esser forti però, ricordatevi di questo video.
La patria è mobile (e ti rende immobile)
Leggi il buongiorno quotidiano di Gramellini più per un articolo segnalato, 'La patria è mobile', che per spirito di lettore costante e ti ritrovi a leggere dell'ennesimo capolavoro all'italiana di dar una botta al cerchio e una alla botte, d'altronde se esistono espressioni comuni di questo genere sarà anche e soprattutto per descrivere comportamenti abituali della società che li tramanda. Ma non è questo che ti sorprende, un po' per rassegnazione digerita un po' per consapevolezza radicata. Ti sorprende il solito commentatore irriducibile, c'è sempre, in tutti gli articoli, che commenta così
Ed ecco che anche di fronte alla verità oggettiva, alle condanne, ai risultati, alle sconfitte, alle cose che dovrebbero far riflettere e innescare un cambiamento, ad un potenziale tipping point insomma, ci son sempre quelli che si nascondono dietro presunte superiorità e che saranno vittime già tra un minuto di facili propagande, proclamazioni d'onore, partecipando direttamente e ancora una volta all'immobilità stagnante, a quella presunzione che trabocca ad ogni parola se incontri turisti italiani all'estero con il giudizio che pende dalle labbra e i richiami sempre chiarissimi al paese del sole, dell'arte, della buona cucina; ad ogni parola se rientri e sei visto come portatore di confronti, come il disertore e la minaccia alla qualità di vita altrui, agli equilibri perfettissimi di statiche realtà; ad ogni parola se son tutti lì a osannare Benigni appena sviolina sul paese più bello del mondo nell'autocelebrazione esasperata di un passato oramai polveroso sdoganando e diffondendo populismo spicciolo e orgogli di carta pesta. Niente, ci son sempre quelli a cui basta concludere che tutto il mondo invidia, si mangia le mani a voler essere come l'Italia, è un virus che si sviluppa quando la patria incontra l'ignoranza, è un virus che si diffonde appena si teme un attacco a verità consolidate. È un virus che ti rende immobile, anche quando sembra danzare tra una decisione e l'altra, tra un cerchio e una botte, per restarne appunto al centro, immutato.
Ed ecco che anche di fronte alla verità oggettiva, alle condanne, ai risultati, alle sconfitte, alle cose che dovrebbero far riflettere e innescare un cambiamento, ad un potenziale tipping point insomma, ci son sempre quelli che si nascondono dietro presunte superiorità e che saranno vittime già tra un minuto di facili propagande, proclamazioni d'onore, partecipando direttamente e ancora una volta all'immobilità stagnante, a quella presunzione che trabocca ad ogni parola se incontri turisti italiani all'estero con il giudizio che pende dalle labbra e i richiami sempre chiarissimi al paese del sole, dell'arte, della buona cucina; ad ogni parola se rientri e sei visto come portatore di confronti, come il disertore e la minaccia alla qualità di vita altrui, agli equilibri perfettissimi di statiche realtà; ad ogni parola se son tutti lì a osannare Benigni appena sviolina sul paese più bello del mondo nell'autocelebrazione esasperata di un passato oramai polveroso sdoganando e diffondendo populismo spicciolo e orgogli di carta pesta. Niente, ci son sempre quelli a cui basta concludere che tutto il mondo invidia, si mangia le mani a voler essere come l'Italia, è un virus che si sviluppa quando la patria incontra l'ignoranza, è un virus che si diffonde appena si teme un attacco a verità consolidate. È un virus che ti rende immobile, anche quando sembra danzare tra una decisione e l'altra, tra un cerchio e una botte, per restarne appunto al centro, immutato.
E come ogni mercoledì
E come ogni mercoledì arriva il paniere bio Gasap, puntuale, da oramai 2 anni. Prodotti belgi, freschissimi, ogni volta stringendo la mano direttamente all'agricoltore, che oramai conosciamo personalmente. Si aiuta l'economica locale e si mangia sano. E i sapori son quelli d'altri tempi. |
L'amore ai tempi dei social network
Lei era lì, persa nel suo smartphone, quando la nonna la chiamò per mangiare uno dei soliti piatti spettacolari. Ma non toccava il piatto, la nonna, se non dopo la classica preghiera. Non toccava il piatto, la nipote, se non dopo l'upload su Instragram. Religioni. Più che mangiare quel piatto, la nipote aveva voglia di condividerne una foto su facebook e controllare un commento su Instagram e poi vedere i like e... per mangiare alla fine dovette riscaldarlo al microonde. La nonna non se ne accorse, occupata a capire cosa facessero i vicini di casa. Non sapeva, la nonna, che le zitelle pettegole non usavano più le tapparelle mezze abbassate per nutrirsi di fatti altrui, avevano la ricerca su facebook. Evoluzioni.
Lui era lì, nell'intimità del far cacca, assieme a trecento amici nello smartphone. Prima al bagno leggevano gli ingredienti dei detersivi per riempire il tempo. Adesso leggevano cose su uno smartphone, con la stessa attenzione. Ma in quel modo non perdeva neanche un secondo di connessioni sociali, aveva tutto sotto controllo, lo dicevano le notifiche di facebook. Poteva vedere cosa mangiava lei, aggiungere un like e scrivere cose carine, mentre faceva la cacca.
La vita era sul flusso di facebook, d'eventi, di foto, di stati d'animo. C'era chi lo apriva e aveva l'impressione di leggere Novella2000 mentre avrebbe forse preferito frammenti di Science e National Geographics. C'era chi lo apriva e doveva scavare per trovare notizie importanti, sommerso da vomiti digitali di creature affamate d'apparenza e commenti. C'era chi diventava una moderna facebook-star, una twitter-star, ma era davvero felice solo se appariva nella vecchia televisione. E c'era chi non usava facebook, ma veniva visto con sospetto e di lui nessuno si ricordava quando s'organizzava un evento. Perché una volta ricordavano tanto, ricordavano a memoria i numeri di telefono degli amici, poi li misero in uno smartphone, numeri ed amici, insieme a una parte del cervello. Era più facile così, senza quella parte, e avere tutti gli amici in tasca, sempre con sè. Anche quando si era soli, soprattutto quando si era soli, erano tutti a portata di smartphone. Anche quando si era con gli amici, intorno a un tavolo al bar, ognuno pensava agli altri amici, nello smartphone. Quando poi il router wireless s'interruppe per un guasto, nel bar di colpo si sentirono strani rumori: erano le voci delle persone. Non parlavano, si chiedevano soltanto cosa fosse successo alla rete. Per fortuna la maggior parte di loro aveva la tariffa flat dati e continuò a socializzare, nello smartphone. Gli altri si arresero, dovettero socializzare nella vita reale. Ma si erano detti così tante cose su whatsapp, facebook e gmail, che non seppero di che parlare. Lei cercava con qualche smorfia di mandargli un messaggio, un segnale, lui non capiva, troppo abituato alle facili notifiche di facebook. Lui avrebbe voluto rispondere con un'espressione del viso inequivocabile, ma lei non capiva, troppo abituata alle faccine della chat di parentesi e puntini. Ai #sischerza su twitter. La guardava ed era convinto che tutte quelle parole dolci, quelle immagini assieme, quei momenti speciali, fossero anche nel cuore di lei. E invece erano soltanto nei server di facebook. Il loro amore così era per gli altri e degli altri, in mezzo a dozzine d'altri aggiornamenti, dimenticato nel tempo d'un refresh.
Qualcuno tentò di avvertirli, ma non aveva un profilo facebook, non aveva molto seguito. Qualcuno tentò con un dito d'indicare la realtà, il cielo, la luna. Ma mentre il saggio indicava la vita, loro continuavano a fissare lo smartphone.
Lui era lì, nell'intimità del far cacca, assieme a trecento amici nello smartphone. Prima al bagno leggevano gli ingredienti dei detersivi per riempire il tempo. Adesso leggevano cose su uno smartphone, con la stessa attenzione. Ma in quel modo non perdeva neanche un secondo di connessioni sociali, aveva tutto sotto controllo, lo dicevano le notifiche di facebook. Poteva vedere cosa mangiava lei, aggiungere un like e scrivere cose carine, mentre faceva la cacca.
La vita era sul flusso di facebook, d'eventi, di foto, di stati d'animo. C'era chi lo apriva e aveva l'impressione di leggere Novella2000 mentre avrebbe forse preferito frammenti di Science e National Geographics. C'era chi lo apriva e doveva scavare per trovare notizie importanti, sommerso da vomiti digitali di creature affamate d'apparenza e commenti. C'era chi diventava una moderna facebook-star, una twitter-star, ma era davvero felice solo se appariva nella vecchia televisione. E c'era chi non usava facebook, ma veniva visto con sospetto e di lui nessuno si ricordava quando s'organizzava un evento. Perché una volta ricordavano tanto, ricordavano a memoria i numeri di telefono degli amici, poi li misero in uno smartphone, numeri ed amici, insieme a una parte del cervello. Era più facile così, senza quella parte, e avere tutti gli amici in tasca, sempre con sè. Anche quando si era soli, soprattutto quando si era soli, erano tutti a portata di smartphone. Anche quando si era con gli amici, intorno a un tavolo al bar, ognuno pensava agli altri amici, nello smartphone. Quando poi il router wireless s'interruppe per un guasto, nel bar di colpo si sentirono strani rumori: erano le voci delle persone. Non parlavano, si chiedevano soltanto cosa fosse successo alla rete. Per fortuna la maggior parte di loro aveva la tariffa flat dati e continuò a socializzare, nello smartphone. Gli altri si arresero, dovettero socializzare nella vita reale. Ma si erano detti così tante cose su whatsapp, facebook e gmail, che non seppero di che parlare. Lei cercava con qualche smorfia di mandargli un messaggio, un segnale, lui non capiva, troppo abituato alle facili notifiche di facebook. Lui avrebbe voluto rispondere con un'espressione del viso inequivocabile, ma lei non capiva, troppo abituata alle faccine della chat di parentesi e puntini. Ai #sischerza su twitter. La guardava ed era convinto che tutte quelle parole dolci, quelle immagini assieme, quei momenti speciali, fossero anche nel cuore di lei. E invece erano soltanto nei server di facebook. Il loro amore così era per gli altri e degli altri, in mezzo a dozzine d'altri aggiornamenti, dimenticato nel tempo d'un refresh.
Qualcuno tentò di avvertirli, ma non aveva un profilo facebook, non aveva molto seguito. Qualcuno tentò con un dito d'indicare la realtà, il cielo, la luna. Ma mentre il saggio indicava la vita, loro continuavano a fissare lo smartphone.
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