Ho incontrato Berlusconi nella metro di Bruxelles, in un vagone della linea 5 allo stop di Schuman, proprio quello situato ai piedi del palazzo Berlaymont, sede della commissione europea. L'ho visto e non ci credevo, era circondato da guardie del corpo e parlava un inglese imbarazzante con un altro signore, probabilmente politico anch'egli o funzionario europeo.
Berlusconi!? - ho esclamato, sorpreso, curioso, incredulo - Ma e' proprio lei?
Ah un italiano, si' sono il tuo primo ministro, giovanotto - mi risponde con un sorriso plastico e mi volta le spalle repentino, tornando alla sua conversazione su un importante vertice europeo.
Mi scusi presidente del consiglio... - e ho alzato un dito, a chiedere un minuto di considerazione. Ma subito due dei bestioni che lo circondano si pongono a muro difensivo.
No, no, lasciatelo parlare, ho sempre tempo per un giovane italiano! - Esclama, pacato e con le mani giunte.
Scusi, ma cosa ci fa qui, nella metro? - Gli domando un po' sconcertato.
Abbiamo avuto un problema con l'auto diplomatica e allora... nessun dramma, io sono una persona flessibile, ho deciso di prendere la metro, come fan in tanti, come fai anche tu. Dimmi, cosa vuoi, un autografo?
No, no per carità, mai da lei, signor presidente... vede... io so. - E come l'io so di Pasolini, ma di parole più semplici, di eventi meno complessi eppure della medesima consapevolezza, ho incominciato a vomitare innegabili verità - Io so che lei e' un mafioso, io so che lei e' un corruttore, io so che a lei non interessa il bene del paese, io so che Mangano non era un semplice stalliere, io so che la sua amicizia con Gheddafi che ha scatenato perplessità diplomatiche internazionali ha avuto scopi privati, io so che lei usa i suoi poteri per evitare tribunali e arricchire il suo impero, io so che Mills non e' stato assolto ma tutto e' terminato per prescrizione e che quindi c'è stato un corrotto ed un corruttore nonostante il tg1 abbia raccontato agli italiani un'altra storia, ecco io so che la televisione non racconta la realtà e che all'Aquila hanno ancora bisogno di aiuti, io so che il suo castello propagandistico ha distorto il mondo reale nella mente della maggioranza di un popolo per raccogliere consensi e voti, utilizzando fantocci politici e televisivi, io so che non posso più cambiare le opinioni dei miei genitori e di alcuni miei amici che in lei vedono l'unica salvezza proprio perché non sanno e la rabbia, la consapevolezza dell'incapacità mi rodono il sorriso perché io so questo e tanto altro e non sono un prescelto, non sono un essere speciale, un veggente o capace di raccogliere informazioni segretissime: io so tutto ciò grazie alla pluralità di informazione, grazie alla rete, grazie al giornalismo internazionale, al buon senso ed all'amore per l'Italia che spinge la mia voglia di sapere. Io so e non sono l'unico, ma non basta e...
Poi la chitarra di un mendicante, nel vagone della metro della linea 5 allo stop di Schuman, ha interrotto la mia alienazione fantasiosa e son tornato alla realtà, ho scosso la testa riponendo tutti i pensieri in una smorfia mentre nel riflesso del finestrino la stessa smorfia ha assunto un sapore piu' amaro. La metro ha continuato a correre veloce e con lei tutto il mio pensare.
Quando una pubblicità ha bisogno di cultura
Mentre camminavo in Gare du Midi questa mattina, verso l'ufficio, il lavoro, i meeting ed altre cose innaturali che non dovrebbero appartenere ai nostri giorni (o almeno non occuparne cosi' tanto spazio), mi ritrovo a fianco proprio uno dei miei colleghi belgi. Tra un saluto ancora assonnato ed il mio francese ancora imperfetto (che presto cede all'inglese), ci troviamo a passare di fronte a questo cartellone pubblicitario.
io - Scusa, ma quale e' la relazione in quella immagine tra gli UK ed il Belgio? Ok, c'è la classica guardia inglese da cartolina, ma quel cappello? E' qualcosa di belga?
lui - Ma come? Non conosci quel cappello? E' il classico cappello di un Gille, e' una delle tradizionali maschere del carnevale belga di Binche.
io - Hm... ah, ok, adesso capisco, grazie per le info.
Tornati in ufficio, spinto da una simpatica curiosità e vista l'età coetanea, gli ho fatto vedere una nostra famosa pubblicità, traducendogli le battute ma senza spiegargli nulla sul personaggio.
lui - Ok, ci sarà una relazione tra le patatine e le ragazze, credo, ma lui chi e'?
io - Ma come? Non lo conosci? E' abbastanza internazionale eh.. scusa, ma a 14 anni che facevi?
lui - Cosa?
io - Niente, lascia stare. :)
io - Scusa, ma quale e' la relazione in quella immagine tra gli UK ed il Belgio? Ok, c'è la classica guardia inglese da cartolina, ma quel cappello? E' qualcosa di belga?
lui - Ma come? Non conosci quel cappello? E' il classico cappello di un Gille, e' una delle tradizionali maschere del carnevale belga di Binche.
io - Hm... ah, ok, adesso capisco, grazie per le info.
Tornati in ufficio, spinto da una simpatica curiosità e vista l'età coetanea, gli ho fatto vedere una nostra famosa pubblicità, traducendogli le battute ma senza spiegargli nulla sul personaggio.
lui - Ok, ci sarà una relazione tra le patatine e le ragazze, credo, ma lui chi e'?
io - Ma come? Non lo conosci? E' abbastanza internazionale eh.. scusa, ma a 14 anni che facevi?
lui - Cosa?
io - Niente, lascia stare. :)
I cammini della memoria
Ieri sera eravamo al teatro Bozar, per vedere un documentario sul Franchismo e su come la memoria della dittatura recente viene vissuta oggi in Spagna. La sala affollatissima di gente d'ogni nazionalità, ovviamente dalla maggioranza spagnoli, di passaggio o immigrati da anni, magari di parenti scappati proprio da quegli eventi, ma anche tanti brussellesi, dagli accenti francesi e nederlandesi. Proprio mentre ognuno prendeva il proprio posto e le voci e gli alfabeti si mescolavano in un coro rumoroso e stonato, un signore sale sul palco iniziando ad urlare in spagnolo qualcosa tipo "Vergognatevi, vergognatevi tutti di stare qui stasera.. Evviva Franco, evviva Franco" e subito una pioggia di fischi e buuuuuuuu (a me e' scappato un cabron a squarcia gola) gli si scaglia addosso mentre il personale del teatro repentino lo trascina via.
Ecco, quell'episodio e' stata una chiara premessa a cosa stavamo per vedere. Il documentario, realizzato da un regista belga di origini spagnole, e' stato davvero intenso, di quelli che trascina, tanto da far piangere. Il franchismo in Spagna e' ancora oggi una sorte di tabù, se ne parla pochissimo, lo si fa a bassa voce, come fosse un patto del silenzio, si schivano domande o si cerca di ignorare l'argomento, perché la gente vuole soltanto dimenticare una dittatura crudele e recente, terminata appena 35 anni fa e solo dopo la morte di Franco, a cui e' poi seguito un più recentissimo ma per fortuna innocuo tentativo di golpe del 1981 fino ad arrivare alla discussa legge sulla memoria storica promossa dal governo Zapatero nel 2007.
Oggi in Spagna si evita addirittura di abbracciare o mostrare la bandiera o di urlare "Eviva España", per non essere confusi con nazionalisti fascisti, per non evocare tragiche memorie. eppure e' tutto ancora cosi' vicino nel tempo ed il territorio spagnolo e' ancora disseminato di vittime, corpi giustiziati secondo le leggi dittatoriali di Franco e raggruppati in fosse comuni nelle campagne del nord, parenti da riesumare ed identificare per non dimenticare il costo di una resistenza, di un pensiero diverso, di uno sforzo di libertà.
Fa un certo effetto vedere immagini e testimonianze di eventi cosi' drammatici eppure accaduti appena ieri, fa un certo effetto apprendere come la paura, la sofferenza e la morte han influenzato il silenzio; ma la storia, avvenimenti cosi' forti e rivoluzionari, fan parte della identità di un popolo che non può essere ignorata ed allora da alcuni anni si cerca di sensibilizzare le nuove generazioni anche se le vecchie smorzano il naso, abbassano gli occhi e preferiscono non ricordare. Purtroppo il tatto dei molti diventa la forza della ignoranza di pochi, quando ogni anno nell'anniversario della morte di Franco centinaia di franchisti si riuscono a Santa Cruz del Valle de los Caídos cosi' come in tanti si scagliano contro il governo ed il re evocando il ritorno del regime o come per esempio ieri sera quel signore urlava alla vergogna ed io, pur non essendo spagnolo, ho sentito l'impulso di urlare, di rispondergli, non solo per rispetto istintivo verso la mia ragazza (spagnola), ma verso tutti i presenti e non solo, perché non esiste vergogna nell'informarsi e non c'è spazio per gli evviva quando si tratta di eventi cosi' drammatici della nostra storia moderna.
Ecco, quell'episodio e' stata una chiara premessa a cosa stavamo per vedere. Il documentario, realizzato da un regista belga di origini spagnole, e' stato davvero intenso, di quelli che trascina, tanto da far piangere. Il franchismo in Spagna e' ancora oggi una sorte di tabù, se ne parla pochissimo, lo si fa a bassa voce, come fosse un patto del silenzio, si schivano domande o si cerca di ignorare l'argomento, perché la gente vuole soltanto dimenticare una dittatura crudele e recente, terminata appena 35 anni fa e solo dopo la morte di Franco, a cui e' poi seguito un più recentissimo ma per fortuna innocuo tentativo di golpe del 1981 fino ad arrivare alla discussa legge sulla memoria storica promossa dal governo Zapatero nel 2007.
Oggi in Spagna si evita addirittura di abbracciare o mostrare la bandiera o di urlare "Eviva España", per non essere confusi con nazionalisti fascisti, per non evocare tragiche memorie. eppure e' tutto ancora cosi' vicino nel tempo ed il territorio spagnolo e' ancora disseminato di vittime, corpi giustiziati secondo le leggi dittatoriali di Franco e raggruppati in fosse comuni nelle campagne del nord, parenti da riesumare ed identificare per non dimenticare il costo di una resistenza, di un pensiero diverso, di uno sforzo di libertà.
Fa un certo effetto vedere immagini e testimonianze di eventi cosi' drammatici eppure accaduti appena ieri, fa un certo effetto apprendere come la paura, la sofferenza e la morte han influenzato il silenzio; ma la storia, avvenimenti cosi' forti e rivoluzionari, fan parte della identità di un popolo che non può essere ignorata ed allora da alcuni anni si cerca di sensibilizzare le nuove generazioni anche se le vecchie smorzano il naso, abbassano gli occhi e preferiscono non ricordare. Purtroppo il tatto dei molti diventa la forza della ignoranza di pochi, quando ogni anno nell'anniversario della morte di Franco centinaia di franchisti si riuscono a Santa Cruz del Valle de los Caídos cosi' come in tanti si scagliano contro il governo ed il re evocando il ritorno del regime o come per esempio ieri sera quel signore urlava alla vergogna ed io, pur non essendo spagnolo, ho sentito l'impulso di urlare, di rispondergli, non solo per rispetto istintivo verso la mia ragazza (spagnola), ma verso tutti i presenti e non solo, perché non esiste vergogna nell'informarsi e non c'è spazio per gli evviva quando si tratta di eventi cosi' drammatici della nostra storia moderna.
Birra per me e acqua per il cane, s'il vous plaît
In Belgio il cane e' davvero il migliore amico dell'uomo, tanto da portarlo ovunque con se: in metro, tram, nei ristoranti e pub. Al Fin de siècle, ristorante di specialità belghe al centro di Bruxelles, mi trovai a scavalcare un san bernardo (cane piccolino eh) che dormiva beato ai piedi di un tavolo, nel treno per Bruges più di una signora aveva il cane sul sedile al proprio fianco senza nessuna protezione, nella metro ogni giorno se ne possono incontrare svariati. E cosi' l'altra sera al caffè belga in place Flagey, non ho resistito al scattare questa foto: c'è anche chi riserva a questi clienti particolari le dovute attenzioni e non mi sorprenderei più di tanto se mi dicessero che non e' acqua ma una degli 800 tipi diversi di birre che si producono in Belgio.
La percezione della morte altrui
E cosi' in due giorni il manto bianco e soffice della Bruxelles innevata scompare dalle strade trafficate, dai marciapiedi calpestati, dagli alberi appesantiti mentre qualche frammento di ghiaccio, fanghiglia e ricordi sporchi ancora s'ammucchia in qualche angolo isolato, inevitabilmente destinato a scomparire sotto il sole se pur debole che si fa spazio appena nel cielo grigiastro. Qualche pennellata d'azzurro s'intravede però lontana dal vetro sporco dell'ufficio proprio quando il manager ricorda a tutti che stanno per scattare le 12 e l'intero edificio e' pregato di rispettare il minuto di silenzio per le vittime di Halle.
Chi la smette repentino di spiegare qualcosa al collega, chi torna alla propria scrivania a sfogliare un giornale online, chi si rimette le cuffie magari annaffiando di rock quello che altrove e' lutto, forse per non sentire il silenzio del pensare, per stonarsi in altri modi, per ignorare ciò che accade intorno.
Nei corridoi lunghi del palazzo che s'affaccia sulla Gare du Midi, c'è stato un gran silenzio oggi alle 12, assenti persino le solite eco di passi di qualcuno verso il bagno, soltanto il lamento meccanico d'una fotocopiatrice sbadatamente lanciata in funzione qualche minuto prima, a vomitare indifferente pagine e lavoro, e poi il suono forte e breve dell'ascensore che arriva al piano destinazione ma non c'è più ad aspettarla chi ha cambiato idea all'ultimo istante.
Dev'essere legata alla distanza ed al tempo, alle conoscenze e la memoria. La percezione della morte altrui dev'essere direttamente connessa alla sfera personale, perché dei morti di Haiti ognuno si dispiace ma poco dopo già si torna alla macina giornaliera, al vortice incalzante di lavoro, impegni e necessita'; dei morti di Halle ognuno si dispiace ma poco dopo già si e' spinti nei pensieri obbligati di un meeting aziendale e la spesa da fare, un incontro, la cena e tutto il resto; di una tragedia familiare, un amico o un conoscente, non c'è impegno che tenga, non scompare tutto dopo poco ma solo il tempo cuce e copre, nelle sue tele lunghe ma necessarie. Dev'essere legata alle esperienze personali, la percezione della morte, perché di uno sconosciuto si dispiace ma nulla più e non insensibilità ne' tanto meno egoismo, la natura forse e le sue leggi universali, o soltanto gradi di percezioni ed umori che senza memorie, senza facce da associare o senza notizie rimbombate alla tv, son percezioni meno forti, più effimere e leggere.
Nei corridoi lunghi del palazzo che s'affaccia sulla Gare du Midi, il minuto di silenzio per i morti di Halle e' passato in fretta oggi, qualcuno ha abbassato gli occhi evitando di incrociare sguardi dei colleghi, altri si son morsi le labbra trattenendo magari qualche parola inutile, chi dietro al monitor a leggere qualcosa nella distrazione o alla finestra nell'interrogare qualche nube immobile; ognuno con la propria percezione della morte altrui, con i propri legami sociali alla tragedia. Poi allo scadere del minuto, i rumori, gli alfabeti e le voci, le risate e gli obblighi e tutto inevitabilmente a continuare.
Chi la smette repentino di spiegare qualcosa al collega, chi torna alla propria scrivania a sfogliare un giornale online, chi si rimette le cuffie magari annaffiando di rock quello che altrove e' lutto, forse per non sentire il silenzio del pensare, per stonarsi in altri modi, per ignorare ciò che accade intorno.
Nei corridoi lunghi del palazzo che s'affaccia sulla Gare du Midi, c'è stato un gran silenzio oggi alle 12, assenti persino le solite eco di passi di qualcuno verso il bagno, soltanto il lamento meccanico d'una fotocopiatrice sbadatamente lanciata in funzione qualche minuto prima, a vomitare indifferente pagine e lavoro, e poi il suono forte e breve dell'ascensore che arriva al piano destinazione ma non c'è più ad aspettarla chi ha cambiato idea all'ultimo istante.
Dev'essere legata alla distanza ed al tempo, alle conoscenze e la memoria. La percezione della morte altrui dev'essere direttamente connessa alla sfera personale, perché dei morti di Haiti ognuno si dispiace ma poco dopo già si torna alla macina giornaliera, al vortice incalzante di lavoro, impegni e necessita'; dei morti di Halle ognuno si dispiace ma poco dopo già si e' spinti nei pensieri obbligati di un meeting aziendale e la spesa da fare, un incontro, la cena e tutto il resto; di una tragedia familiare, un amico o un conoscente, non c'è impegno che tenga, non scompare tutto dopo poco ma solo il tempo cuce e copre, nelle sue tele lunghe ma necessarie. Dev'essere legata alle esperienze personali, la percezione della morte, perché di uno sconosciuto si dispiace ma nulla più e non insensibilità ne' tanto meno egoismo, la natura forse e le sue leggi universali, o soltanto gradi di percezioni ed umori che senza memorie, senza facce da associare o senza notizie rimbombate alla tv, son percezioni meno forti, più effimere e leggere.
Nei corridoi lunghi del palazzo che s'affaccia sulla Gare du Midi, il minuto di silenzio per i morti di Halle e' passato in fretta oggi, qualcuno ha abbassato gli occhi evitando di incrociare sguardi dei colleghi, altri si son morsi le labbra trattenendo magari qualche parola inutile, chi dietro al monitor a leggere qualcosa nella distrazione o alla finestra nell'interrogare qualche nube immobile; ognuno con la propria percezione della morte altrui, con i propri legami sociali alla tragedia. Poi allo scadere del minuto, i rumori, gli alfabeti e le voci, le risate e gli obblighi e tutto inevitabilmente a continuare.
Il futuro delle ferrovie belghe (ed europee)
La tragedia che ha colpito il Belgio due giorni fa rimarrà nella storia come il più terribile incidente ferroviario del paese dal 1954. Domani a mezzogiorno sarà rispettato un minuto di silenzio in tutto il dominio ferroviario: gli uffici, le stazioni, i treni; ed un registro di condoglianze sarà posto in alcune delle maggiori stazioni belghe (Arlon, Anvers-Central, Bruges, Bruxelles-Midi, Gand-Saint-Pierre, Hal, Hasselt, Louvain, Liège-Guillemins, Mons, Namur et Wavre).
Come nell'incidente del 2001 a Pécrot, anche questa volta si e' trattato di errore umano: nel primo fu causato da una incomprensione tra due addetti delle ferrovie belghe, il prima parlava francese, il secondo nederlandese e nessuno dei due parlava entrambe le lingue (ennesima testimonianza delle difficoltà linguistiche di questo paese), uno dei treni passo' dunque nonostante il semaforo fosse rosso; nel secondo sembra (dagli ultimi aggiornamenti) che il pilota non abbia rispettato un semaforo rosso, ancora una volta, causando l'inevitabile collisione.
Da quando vivo a Bruxelles, lavoro come consulente informatico presso Infrabel, compagnia responsabile di tutta la infrastruttura ferroviaria del Belgio, ed ovviamente lo scorso lunedì' e' scoppiato letteralmente il caos dopo la triste notizia: bisognava capire perché era successo, eventuali responsabilità, identificare ogni scenario possibile. Dopo la catastrofe di Pécrot, fu sviluppato nel 2001 un nuovo sistema di segnalazioni, TBL1+ (in accordo con il nuovo standard europeo ERTMS), per il frenaggio forzato dei treni ad un semaforo rosso. Attualmente in Belgio su quasi la totalità della rete ferroviaria e' stato applicato lo standard ma non su tutti i treni in circolazione: le due installazioni sono sotto la responsabilità di due diverse aziende, Infrabel per la infrastruttura e SNCB per i treni. Il tratto in cui e' avvenuto la catastrofe e' attualmente coperto dal sistema TBL1+, ma purtroppo il treno che non ha rispettato il rosso non era ancora equipaggiato con tale standard; altrimenti la tragedia si sarebbe potuta evitare.
La totale copertura e' prevista per il 2013. Ma tutto ciò non riguarda soltanto il Belgio.
Il controllo dei treni e' tra le basi della sicurezza della circolazione ferroviaria. Ogni nazione in Europa ha adottato da tempo un proprio standard di ATC (Automatic Train Control), ma questi sistemi al momento sono del tutto incompatibili tra loro, il che tra l'altro limita la circolazione di treni ad alta velocità (per cui i sistemi ATC sono di importanza fondamentale) tra le frontiere di diverse nazioni. Per risolvere queste problematiche, da alcuni anni quasi tutte le nazioni europee stanno lavorando alla standardizzazione delle proprie infrastrutture secondo lo standard ERTMS/ETCS (European Rail Traffic Management System/European Train Control System), su tre diversi livelli di evoluzione, in modo da fornire col tempo diversi strati standard di comunicazione e controllo.
Adottare questo standard significa provvedere controlli a distanza dei treni (delle velocità e degli arresti) aumentandone notevolmente la sicurezza, migliorare il supporto al pilota (che non dovrà' più contare sulla segnaletica fisicamente visibile, ma gestire la comunicazione attraverso infrastrutture telematiche) e probabilmente evitare tragedie come quella di lunedì.
Al momento in Italia gli aggiornamenti al nuovo standard sono già giunti al secondo livello su alcune tratte (che sono esattamente le tratte al momento coperto dall'alta velocità, diretta conseguenza della nuova tecnologia), mentre in Belgio il primo livello e' ancora in fase di sviluppo ed ovviamente infrastruttura ferroviaria e treni devono entrambi supportare il nuovo standard.
Quando tutto cio' sarà realizzato, in Belgio e nel resto d'Europa magari tragedie come quelle di Halle saranno ricordi lontani.
Come nell'incidente del 2001 a Pécrot, anche questa volta si e' trattato di errore umano: nel primo fu causato da una incomprensione tra due addetti delle ferrovie belghe, il prima parlava francese, il secondo nederlandese e nessuno dei due parlava entrambe le lingue (ennesima testimonianza delle difficoltà linguistiche di questo paese), uno dei treni passo' dunque nonostante il semaforo fosse rosso; nel secondo sembra (dagli ultimi aggiornamenti) che il pilota non abbia rispettato un semaforo rosso, ancora una volta, causando l'inevitabile collisione.
Da quando vivo a Bruxelles, lavoro come consulente informatico presso Infrabel, compagnia responsabile di tutta la infrastruttura ferroviaria del Belgio, ed ovviamente lo scorso lunedì' e' scoppiato letteralmente il caos dopo la triste notizia: bisognava capire perché era successo, eventuali responsabilità, identificare ogni scenario possibile. Dopo la catastrofe di Pécrot, fu sviluppato nel 2001 un nuovo sistema di segnalazioni, TBL1+ (in accordo con il nuovo standard europeo ERTMS), per il frenaggio forzato dei treni ad un semaforo rosso. Attualmente in Belgio su quasi la totalità della rete ferroviaria e' stato applicato lo standard ma non su tutti i treni in circolazione: le due installazioni sono sotto la responsabilità di due diverse aziende, Infrabel per la infrastruttura e SNCB per i treni. Il tratto in cui e' avvenuto la catastrofe e' attualmente coperto dal sistema TBL1+, ma purtroppo il treno che non ha rispettato il rosso non era ancora equipaggiato con tale standard; altrimenti la tragedia si sarebbe potuta evitare.
La totale copertura e' prevista per il 2013. Ma tutto ciò non riguarda soltanto il Belgio.
Il controllo dei treni e' tra le basi della sicurezza della circolazione ferroviaria. Ogni nazione in Europa ha adottato da tempo un proprio standard di ATC (Automatic Train Control), ma questi sistemi al momento sono del tutto incompatibili tra loro, il che tra l'altro limita la circolazione di treni ad alta velocità (per cui i sistemi ATC sono di importanza fondamentale) tra le frontiere di diverse nazioni. Per risolvere queste problematiche, da alcuni anni quasi tutte le nazioni europee stanno lavorando alla standardizzazione delle proprie infrastrutture secondo lo standard ERTMS/ETCS (European Rail Traffic Management System/European Train Control System), su tre diversi livelli di evoluzione, in modo da fornire col tempo diversi strati standard di comunicazione e controllo.
Adottare questo standard significa provvedere controlli a distanza dei treni (delle velocità e degli arresti) aumentandone notevolmente la sicurezza, migliorare il supporto al pilota (che non dovrà' più contare sulla segnaletica fisicamente visibile, ma gestire la comunicazione attraverso infrastrutture telematiche) e probabilmente evitare tragedie come quella di lunedì.
Al momento in Italia gli aggiornamenti al nuovo standard sono già giunti al secondo livello su alcune tratte (che sono esattamente le tratte al momento coperto dall'alta velocità, diretta conseguenza della nuova tecnologia), mentre in Belgio il primo livello e' ancora in fase di sviluppo ed ovviamente infrastruttura ferroviaria e treni devono entrambi supportare il nuovo standard.
Quando tutto cio' sarà realizzato, in Belgio e nel resto d'Europa magari tragedie come quelle di Halle saranno ricordi lontani.
Quant'è difficile parlare francese a Bruxelles
E non per l'accento o perché il francese sia differente da quello puro dei vicini francesi, ma difficile nell'aver occasioni di praticarlo. Di quanto Bruxelles sia una babele europea ne ho già parlato ed una delle conseguenze dirette di questo arricchimento linguistico e' proprio la difficoltà nel parlare la sua lingua natia (ops la lingua natia di questa città e' il nederlandese) o almeno la lingua imposta dagli anni dell'indipendenza del paese. Entrando in un negozio, in un ristorante o in un qualsiasi servizio pubblico del centro, provando a parlare francese, con alta probabilità l'interlocutore vi potrebbe rispondere in inglese perché: a) siete turisti, studenti in erasmus o comunque appena arrivati, il tempo e' denaro ed e' meglio arrivare al dunque; b) non siete turisti, ma siete eurocrats, siete di quella fascia famosa a Bruxelles che lavora in commissione, vive e lavora con l'inglese, il tempo e' denaro, meglio arrivare al sodo; c) siete belgi, ma non parlate francese, la commessa non parla nederlandese e allora meglio tagliar corto usando il collante universale, l'inglese. Ovviamente le tre opzioni sono restrittive, generalizzando si perdono tante sfaccettature, ma quando magari il tempo e' davvero importante e andate di fretta, sarete voi ad iniziare direttamente con l'inglese, senza neanche passare per le domande oramai memorizzare tipo est-ce-que vous parlez anglais? ed il più delle volte avrete fatto bene. E non e' esagerazione parlare di belgi che non parlino francese a Bruxelles: nel mio corso serale di francese c'è una ragazza di origini filippine ma nata e cresciuta nelle Fiandre, e' belga ma e' li' in classe come me, per imparare il francese; lo stesso vale per il ragazzo belga ma di origini irachene che parla cinque lingue tra cui il nederlandese, ma del francese finora non aveva avuto bisogno; o addirittura un signore russo che vive qui da tre anni, sposato con una signora belga, ma a casa parlano nederlandese. Di storie cosi' ce ne sono a migliaia.
Ieri durante un pranzo di beneficenza, parlavo con una eurocrat polacca, qui da cinque anni, ovviamente senza parlare francese, mi diceva di non averne bisogno, lavorando in inglese, avendo amici polacchi o stranieri, frequentando posti in cui ad ogni modo aveva l'opzione di parlare inglese. Non e' un caso isolato, ho conosciuto tanti italiani che vivon qui da uno, due anni e che ancora non riescono a formulare frasi in francese o che quando ci provano, si lanciano in quella catastrofe dell'italiano francesizzato. Non sono casi isolati, sono frutto della commissione europea, degli ambienti internazionali, dell'arricchimento linguistico. Certo, non sono da giustificare, vivere in un posto e non sforzarsi nell'apprendere la lingua e' sicuramente una colpa, anche perché ci si troverà sempre in situazioni in cui alle domande inglesi si risponde con scena muta, in alcuni bar, negozi, uffici comunali, la posta, e allora che si fa? Si sopravvive come turisti ma per tempistiche estremamente più lunghe? E se poi accade qualcosa di imprevisto? Come chiamare l'ambulanza domenica mattina alle cinque e parlare soltanto in un francese balbettante, cercando di spiegare, tra panico e fretta, di cosa si ha bisogno: mi e' successo ieri mattina e sono di quelle spinte all'impegno da non augurare, ma che poi ti fanno studiare il doppio.
Eppure non e' colpevolissima, tutta questa gente qui a Bruxelles che non parla francese, praticarlo non e' per nulla facile. Quando vivevo a Dublino era bellissimo incontrare ragazzi di tutto il mondo in party e pub e parlare e conoscersi nella lingua obbligata, l'inglese ovviamente. Qui e' di più, non sono solo gli stranieri a rendere il clima internazionale, ma gli stessi belgi hanno origini intrecciate, di nonni italiani, di mamma spagnola e padre russo, di padre americano e madre belga. Ieri chiedendo l'orario all'autista dell'autobus, mi ha risposto in spagnolo; allo sportello della mia banca la ragazza belga mi parla in italiano, in ufficio tra colleghi belgi spesso parlano inglese.
Io vado a scuola serale di francese da cinque mesi e provo ad impegnarmi, ma non colpevolizzo più di tanto chi continua a vivere qui senza parlarlo. Certo, quando vedo o sento qualcuno arrabbiarsi perché la commessa non parlava inglese o l'impiegata dell'ufficio pretendeva il francese, beh... a tutto c'è' un limite, vada per l'ambiente internazionale ma non dimentichiamoci che qui si parla francese e nederlandese e nessuno ancora vi ha chiesto di impararle entrambe; pretendere e' sbagliato, con queste premesse l'adattamento e' l'umore necessario.
In conclusione, e' chiaro che se non si e' obbligati a parlare una lingua, sarà sicuramente più difficile apprenderla, migliorarla, assimilarla. Se poi e' di quelle lingue che magari non piacciono, per le troppe eccezioni, per la pronuncia e quei suoni che non riuscite a replicare, perché di tempo per studiare proprio non ne avete e tra ufficio, amicizie e mure domestiche altre lingue son sufficienti, allora ecco qua, vi ritroverete dopo due, tre, quattro anni a Bruxelles e non parlare ancora francese, pensando che un giorno lo parlerete ma quel giorno e' sempre lontano.
Ieri durante un pranzo di beneficenza, parlavo con una eurocrat polacca, qui da cinque anni, ovviamente senza parlare francese, mi diceva di non averne bisogno, lavorando in inglese, avendo amici polacchi o stranieri, frequentando posti in cui ad ogni modo aveva l'opzione di parlare inglese. Non e' un caso isolato, ho conosciuto tanti italiani che vivon qui da uno, due anni e che ancora non riescono a formulare frasi in francese o che quando ci provano, si lanciano in quella catastrofe dell'italiano francesizzato. Non sono casi isolati, sono frutto della commissione europea, degli ambienti internazionali, dell'arricchimento linguistico. Certo, non sono da giustificare, vivere in un posto e non sforzarsi nell'apprendere la lingua e' sicuramente una colpa, anche perché ci si troverà sempre in situazioni in cui alle domande inglesi si risponde con scena muta, in alcuni bar, negozi, uffici comunali, la posta, e allora che si fa? Si sopravvive come turisti ma per tempistiche estremamente più lunghe? E se poi accade qualcosa di imprevisto? Come chiamare l'ambulanza domenica mattina alle cinque e parlare soltanto in un francese balbettante, cercando di spiegare, tra panico e fretta, di cosa si ha bisogno: mi e' successo ieri mattina e sono di quelle spinte all'impegno da non augurare, ma che poi ti fanno studiare il doppio.
Eppure non e' colpevolissima, tutta questa gente qui a Bruxelles che non parla francese, praticarlo non e' per nulla facile. Quando vivevo a Dublino era bellissimo incontrare ragazzi di tutto il mondo in party e pub e parlare e conoscersi nella lingua obbligata, l'inglese ovviamente. Qui e' di più, non sono solo gli stranieri a rendere il clima internazionale, ma gli stessi belgi hanno origini intrecciate, di nonni italiani, di mamma spagnola e padre russo, di padre americano e madre belga. Ieri chiedendo l'orario all'autista dell'autobus, mi ha risposto in spagnolo; allo sportello della mia banca la ragazza belga mi parla in italiano, in ufficio tra colleghi belgi spesso parlano inglese.
Io vado a scuola serale di francese da cinque mesi e provo ad impegnarmi, ma non colpevolizzo più di tanto chi continua a vivere qui senza parlarlo. Certo, quando vedo o sento qualcuno arrabbiarsi perché la commessa non parlava inglese o l'impiegata dell'ufficio pretendeva il francese, beh... a tutto c'è' un limite, vada per l'ambiente internazionale ma non dimentichiamoci che qui si parla francese e nederlandese e nessuno ancora vi ha chiesto di impararle entrambe; pretendere e' sbagliato, con queste premesse l'adattamento e' l'umore necessario.
In conclusione, e' chiaro che se non si e' obbligati a parlare una lingua, sarà sicuramente più difficile apprenderla, migliorarla, assimilarla. Se poi e' di quelle lingue che magari non piacciono, per le troppe eccezioni, per la pronuncia e quei suoni che non riuscite a replicare, perché di tempo per studiare proprio non ne avete e tra ufficio, amicizie e mure domestiche altre lingue son sufficienti, allora ecco qua, vi ritroverete dopo due, tre, quattro anni a Bruxelles e non parlare ancora francese, pensando che un giorno lo parlerete ma quel giorno e' sempre lontano.
La Chandeleur in Belgio, festa di luce e crêpes
Perché alla fine e' cosi', quando sei all'estero e non conosci tradizioni, cultura, abitudini di una nazione, di un popolo, probabilmente ti rendi conto di una festa nazionale soltanto quando le vetrine cambiano improvvisamente tematiche, quando locali notturni organizzano eventi speciali o se per quel giorno ti dicono di non andare al lavoro, perché e' vacanza, e' festività, si', quella li', ah non lo sapevi, beh qui e' cosi'. Consumismo e vita lavorativa sono tristemente delle facili vie di comunicazione per quanto riguarda certi aspetti e quando non intervengono direttamente o per distrazione, magari passa un giorno per te normale, uno di quelli con lo stesso colore degli altri sul calendario, delle stesse attese rientrando a casa o passeggiando immerso nei tuoi pensieri affollati, e invece quel giorno era la Chandeleur.
Cosi' il 2 febbraio in Francia e Belgio si e' celebrato la festa delle candele, festività dedicata alla rinascita, al rinnovamento, proprio perché le giornate iniziano ad allungarsi e le ore di luce incrementano diffondendo sicuramente sorrisi in posti (come il Belgio) dove magari il clima non e' tradizionalmente dei migliori. La parte più carina di questa festività e' sicuramente la cucina: durante La Chandeleur in ogni casa si produce una quantità industriale di crêpes, dolci e salate, da mangiare (ovviamente), da condividere in famiglia, da regalare a vicini ed amici. Perché proprio crêpes? La loro forma circolare ed il colore giallognolo simboleggiano il sole, la luce che agli inizi di febbraio inizia ad essere più presente nelle ore giornaliere. Nella parte nord del Belgio, nelle Fiandre, e' tradizione aggiungere alle crêpes un'altra simbologia legata a questa festa: in uno zoccolo olandese si pone della paglia per sostenere una candela accesa, il tutto posto sul davanzale di una finestra: ancora, e' la luce la relazione chiave, il concetto da festeggiare e celebrare.
Probabilmente in questa Bruxelles cosi' straniera, babele di lingue e culture, poche finestre han mostrato luce e tradizioni lo scorso martedì, o almeno nella zona centrale della città, si saran prodotte poche crêpes e nella frenetica corsa al giorno dopo in pochi si saran resi conto della luce maggiore, delle giornate allungate, mentre magari nelle campagne miti e silenziose qualche bambino si sarà azzuffato di crêpes e la sera, guardando alla finestra, avrà soffiato alla candela in un sospiro a sognare, nell'euforia delle giornate più lunghe, per correre, gridare, giocare.
Cosi' il 2 febbraio in Francia e Belgio si e' celebrato la festa delle candele, festività dedicata alla rinascita, al rinnovamento, proprio perché le giornate iniziano ad allungarsi e le ore di luce incrementano diffondendo sicuramente sorrisi in posti (come il Belgio) dove magari il clima non e' tradizionalmente dei migliori. La parte più carina di questa festività e' sicuramente la cucina: durante La Chandeleur in ogni casa si produce una quantità industriale di crêpes, dolci e salate, da mangiare (ovviamente), da condividere in famiglia, da regalare a vicini ed amici. Perché proprio crêpes? La loro forma circolare ed il colore giallognolo simboleggiano il sole, la luce che agli inizi di febbraio inizia ad essere più presente nelle ore giornaliere. Nella parte nord del Belgio, nelle Fiandre, e' tradizione aggiungere alle crêpes un'altra simbologia legata a questa festa: in uno zoccolo olandese si pone della paglia per sostenere una candela accesa, il tutto posto sul davanzale di una finestra: ancora, e' la luce la relazione chiave, il concetto da festeggiare e celebrare.
Probabilmente in questa Bruxelles cosi' straniera, babele di lingue e culture, poche finestre han mostrato luce e tradizioni lo scorso martedì, o almeno nella zona centrale della città, si saran prodotte poche crêpes e nella frenetica corsa al giorno dopo in pochi si saran resi conto della luce maggiore, delle giornate allungate, mentre magari nelle campagne miti e silenziose qualche bambino si sarà azzuffato di crêpes e la sera, guardando alla finestra, avrà soffiato alla candela in un sospiro a sognare, nell'euforia delle giornate più lunghe, per correre, gridare, giocare.
C'est qui qu'est mort ?
Venerdì all'uscita dagli uffici la metro si riempie solitamente di sorrisi, perché il fine settimana imminente non può che portare sollievo ed in questa gioia dell'attesa ripetuta c'è sempre la confusione del parlare, dei telefoni a squillare, della calca verso casa, degli appuntamenti e dei baci da incontrare. Mentre venerdì lasciavo riposare la testa in uno dei vagoni lasciando la mente leggera nonostante tutto intorno fosse affollato di voci, spalle, colori, alfabeti mescolati di questa Bruxelles dalle mille lingue, ecco che d'improvviso una signora anziana, bassa, di carnagione scura, inizia a parlare al telefono a voce altissima, accaldata, richiamando l'attenzione di tutti i presenti, dapprima come di scherno per delle parole incomprensibili e la scenetta magari singolare e poi di attonito silenzio dopo quella domanda veloce, gelida, rapace: chi e' morto?
Le urla immediate, di rabbia, dolore, di quella coscienza dell'impossibilita' del rimedio, d'inappellabilità della natura e della macina comune, si son diffuse subito come messaggio chiaro intorno nell'infrangere ogni altro umore possibile in quel grido cosi' forte da non lasciar spazio alle lacrime, ammutolendo l'intero vagone in una eco profondissima fino ad ogni rintanato pensiero tra le pareti celebrali e le fantasie assopite, fino a coprire i rumori meccanici della metro, della ferraglia che cigolando nei suoi versi rauchi e profondi si apprestava a fermarsi all'ennesima stazione. Finalmente i portelloni aperti e quel grido disumano trova maggior spazio per diffondere il suo sfogo, nell'ampia piattaforma stranamente quasi deserta, giungendo alle sedie zoppicando, accasciando tutto il peso inutile del corpo e lasciandolo alla gravita' mai cosi' accogliente. Tutti a fissare quel percorso drammatico. La metro non riparte sotto segnalazione del personale addetto, nell'intento di capire cosa fosse accaduto. Poi qualcuno si avvicina alla signora, una mano pacato sulla spalla, un'altra che le porge un fazzoletto, chi chiede, chi si avvicina in rispettoso silenzio. Poi il gesto convenzionale della paletta verde, il suono stridulo a singhiozzi della chiusura dei portelloni e la metro riparte, mentre dai finestrini si scorge appena quel grido ininterrotto, circondato da aiuti sconosciuti e preghiere straniere, sipario repentino su quello che già ognuno si lasciava alle spalle, inevitabilmente.
Qualche secondo di silenzio, come d'un doveroso lutto o di coscienze pensierose nelle menti ancora scosse, e poi il solito mormorio, confusione del parlare, dei telefoni a squillare, della calca verso casa, degli appuntamenti e dei baci da incontrare. E il mondo era tutto li', in quel vagone, nella corsa verso la prossima stazione, inarrestabile avanzata che non può curarsi di certi eventi e deve andare avanti, impassibile, indifferente, per dovere, per legge, perché cosi' e' stata costruita la società ed i suoi pilastri, perché deve essere cosi' e di tante cose non può esserci memoria, rilevanza, traccia.
L'estranea passeggia impalpabile, a volte danza, a volte si lascia in equilibri precari, e quando adempie ai disegni di Atropo ecco che da qualche altra parte qualcuno dirà: c'est qui qu'est mort ?
Le urla immediate, di rabbia, dolore, di quella coscienza dell'impossibilita' del rimedio, d'inappellabilità della natura e della macina comune, si son diffuse subito come messaggio chiaro intorno nell'infrangere ogni altro umore possibile in quel grido cosi' forte da non lasciar spazio alle lacrime, ammutolendo l'intero vagone in una eco profondissima fino ad ogni rintanato pensiero tra le pareti celebrali e le fantasie assopite, fino a coprire i rumori meccanici della metro, della ferraglia che cigolando nei suoi versi rauchi e profondi si apprestava a fermarsi all'ennesima stazione. Finalmente i portelloni aperti e quel grido disumano trova maggior spazio per diffondere il suo sfogo, nell'ampia piattaforma stranamente quasi deserta, giungendo alle sedie zoppicando, accasciando tutto il peso inutile del corpo e lasciandolo alla gravita' mai cosi' accogliente. Tutti a fissare quel percorso drammatico. La metro non riparte sotto segnalazione del personale addetto, nell'intento di capire cosa fosse accaduto. Poi qualcuno si avvicina alla signora, una mano pacato sulla spalla, un'altra che le porge un fazzoletto, chi chiede, chi si avvicina in rispettoso silenzio. Poi il gesto convenzionale della paletta verde, il suono stridulo a singhiozzi della chiusura dei portelloni e la metro riparte, mentre dai finestrini si scorge appena quel grido ininterrotto, circondato da aiuti sconosciuti e preghiere straniere, sipario repentino su quello che già ognuno si lasciava alle spalle, inevitabilmente.
Qualche secondo di silenzio, come d'un doveroso lutto o di coscienze pensierose nelle menti ancora scosse, e poi il solito mormorio, confusione del parlare, dei telefoni a squillare, della calca verso casa, degli appuntamenti e dei baci da incontrare. E il mondo era tutto li', in quel vagone, nella corsa verso la prossima stazione, inarrestabile avanzata che non può curarsi di certi eventi e deve andare avanti, impassibile, indifferente, per dovere, per legge, perché cosi' e' stata costruita la società ed i suoi pilastri, perché deve essere cosi' e di tante cose non può esserci memoria, rilevanza, traccia.
L'estranea passeggia impalpabile, a volte danza, a volte si lascia in equilibri precari, e quando adempie ai disegni di Atropo ecco che da qualche altra parte qualcuno dirà: c'est qui qu'est mort ?
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