Una parte dei miei appunti di lavoro. Oggi ho avuto un meeting davvero interessante... |
Dammi il potere che ci penso io
La testa nelle stelle e
Essere italiani all'estero
Essere italiano all'estero è infatti tante cose, alcune speciali, altre banali, che soltanto gli altri italiani, quelli in Italia, possono capire. Oppure no.
Essere italiano all'estero è essere un cervello in fuga e addirittura un danno economico per l'Italia, anche se non tutti sono ricercatori in cerca di fondi e non c'è un filtro al controllo all'aeroporto; la frontiera, se esiste ancora, la attraversano anche quelli che sono in fuga dal proprio cervello e si vede. Essere italiano all'estero è avere i piedi leggeri ma né più né meno dei cugini francesi, spagnoli, tedeschi, irlandesi, polacchi o olandesi, solo che l'italiano all'estero è italiano e allora cambia tutto. Oppure no.
Essere italiano all'estero è lamentarsi in continuazione della situazione politica e sociale italiana ma poi non iscriversi all'AIRE, per esempio, perché è un'istituzione italiana e quindi fatta male, meglio rimanere residenti ufficiali da mamma e papà come foste un fantasma, continuare a non votare dall'estero, anzi dire di non votare dall'estero perché non è giusto votare vivendo altrove ed influenzare attivamente il voto di chi invece lì ci vive ancora, però continuando a vomitare lamenti, che non si riesce a non pensarci e in fondo è sempre la patria, perché my country, right or wrong. Oppure no.
Essere italiano all'estero è voler essere soltanto qualcuno in un luogo, ma non funziona, perché poi c'è il nome, italiano, e l'aspetto, italiano, e l'accento, italiano, e c'è quella cosa, l'italianità, che è dentro e c'è chi la sfoggia con orgoglio, chi se la porta dietro come un'ombra, chi quasi con vergogna, chi io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Essere italiano all'estero è riconoscere Tiziano Ferro che canta dall'altoparlante della metro di Bruxelles in una serata di solitudine ed avere come un senso di disgusto che sale lento dallo stomaco al collo, dalle dita al sudore sulla fronte, che gli altri x-ani all'estero non possono capire. Oppure no.
Essere italiano all'estero è venir considerato il giudice supremo di ogni lasagna e tiramisù, della pasta super scotta fatta dall'amico tedesco, per esempio, che non avresti mai mangiato neanche con la pistola alla tempia ma che ingoi, anzi lasci sciogliere in bocca, con il sorriso di un'educazione empatica; o essere chiamato ad assaggiare la pizza, quella lì che tutti suggeriscono in città, anche se tu, in Italia, magari la vera pizza non sapevi neanche che sapore avesse, ma tanto chi te lo chiede non lo sa, sa che sei italiano, un italiano all'estero, e allora tu sei l'Italia. Tu. Pensa te.
Essere un italiano all'estero significa conoscere una ragazza colombiana bellissima che poi ti dice di stare con un italiano e d'improvviso sentirsi quasi in colpa a guardarle la scollatura, che se fosse stata con un francese ci avresti provato quasi più gusto ma con un italiano no, che è subito in famiglia e ti dispiace.
Essere italiano all'estero è rappresentare l'Italia tutta in una sola persona, quando in ufficio il collega si avvicina parlandoti dell'ultima battuta internazionale di Berlusconi con gli occhi increduli e con il tatto di chi ti sta annunciando un lutto improvviso, a te che magari la notizia era addirittura sfuggita o che l'assuefazione di abitudini natali sminuiscono notevolmente o a te che invece ti difendi, come a sentirti attaccato da forze straniere, come a vestirti da ultimo fante inviato a lottare contro i barbari invasori. Oppure no.
Essere italiano all'estero è sentirsi responsabili se in ufficio sta per arrivare un nuovo collega, italiano, sentirsi responsabile delle sue capacità, del suo inglese, della sua cultura, perché lì, nel tuo ufficio, italiano come te, rappresenta anche te, rappresenta un'altra finestra sul tuo mondo per gli altri, fatta di stereotipi da confermare o novità da scoprire, rappresenta un te che non puoi controllare perché non sei tu ma che ha conseguenze su di te. Oppure no.
Essere italiano all'estero è confrontarsi costantemente con gli altri italiani all'estero, giudicarli, osservali, godere dei loro errori nella lingua straniera, ridere del loro accento inconfondibile, evitarli quasi fossero la peste o finire col relazionarsi soltanto con loro, perché gli altri, gli altri, gli altri. Ecco, sempre gli altri, ma tu? Essere italiani all'estero significa sentirsi speciali per non si sa quale motivo, sentirsi addirittura migliori rispetto agli italiani in Italia e provare strani orgasmi interiori quando si dice di vivere all'estero, che all'estero è tutto più bello, anche la pioggia. Oppure no. Essere italiani all'estero è vantarsi di vivere in un paese più civile, poi però tornare in Italia e dimostrare di non aver imparato molto da quella ostentata civiltà, ma la colpa poi è sempre dell'intorno, italiano. Oppure no.
Essere italiani all'estero è sentirsi chiamare vigliacchi, fuggiaschi, egoisti, per avvantaggiarsi di un'agevolazione dei tempi moderni e volare altrove con pochi soldi e provarci, senza ancora la consapevolezza di diventare così un italiano all'estero. Ah, perfida trappola!
Essere italiani all'estero è tornare a casa credendo d'essere in vacanza e fare a cazzotti con il proprio passato, venir travolti da valanghe d'emozioni, positive e negative, e riprendere un aereo con il testa battaglie di ricordi e certezze, delusioni e conferme.
Essere italiani all'estero significa decifrare una propria italianietà anche negli altri e attraverso gli altri conoscere la propria, finire con l'imparare qualcosa di più della propria terra vivendo altrove e poi tornare in Italia e sentirsi mezzo straniero, perché magari non tutte le scoperte lasciano il sorriso, non tutti i cambiamenti son compatibili con la vita che si aveva prima, non tutti gli italiani all'estero poi riescono a vivere in mezzo agli italiani in Italia e rimangono come in un limbo amaro di compromessi e nostalgie. Oppure no.
Essere italiani all'estero è tutto questo e tanto altro oppure no, perché ciascuno in fondo ha la propria avventura all'estero, il proprio equilibrio da trovare anche con la propria italianità, la cultura che vuoi o non vuoi hai dentro per educazione e che farà parte del percorso personale nelle culture altrui: l'importante è capirlo, senza drammi né alterigie. Oppure no.
Fai presto a dire pollo
Allora il dilemma diventa se è gallina o se è gallo, il pulcino, ma lui, il pulcino, non te lo dice e in più son tutti uguali, galli e galline, fino al primo mese di vita. E un mese, nel commercio, è tanto, è soldi, è spreco. Bisogna fare in fretta, bisogna trovare i polli. Fai presto a dire è un pollo, quando pensi ad un amico, invece non è facile, quando pensi ad un pulcino. A meno che tu non sia giapponese, che loro, i giapponesi, sono tanti in poco spazio e alla fine son costretti a controllare ogni dove: e infatti han trovato la risposta nel culetto dei pulcini. Insomma, loro cercavano di risolvere il dilemma e cercavano in un buco. E ce l'han fatta. Io ho diversi amici che cercano le risposte di una vita in un buco, ma ancora niente, stanno sempre lì, sulla soglia.
Cosa abbiamo imparato? Alcune relazioni non son sempre banali, alcune han tanta fantasia e a volte pure un po' di coraggio, a creare connessioni tra maestri zen, neurologia, misteri del cervello e posteriori dei pulcini E che c'è chi riesce a sessare 1700 pulcini all'ora solo guardandogli il posteriore. E c'è pure chi, sul sesso dei pulcini e sui sessori, c'ha studiato i misteri della memoria umana. E allora, se hai un dubbio, se non trovi la risposta, se non riesci a risolvere un mistero, forse stai semplicemente cercando nel buco sbagliato.
Fiori sull'asfalto
Indignati a Bruxelles
il signore del negozio vicino casa
Non avevo mai parlato troppo con il signore del negozio vicino casa, ci vado ogni tanto per comprare qualche lattina d'acqua tonica, anche se non le tiene mai in frigo, anche se son cosciente di pagarle qualcosa in più, ma almeno lì sei il protagonista, sei il suo cliente, ti guarda, ti segue con gli occhi, ti chiede, ti consiglia, ti aspetta alla cassa con le dita già sulla calcolatrice, che in realtà non stai pagando una lattina: stai riempiendo il suo tempo. Ma stai riempiendo anche il tuo, lo stai vivendo, più delle file impersonali alle casse veloci o della lista della spesa sempre incompleta: lì, a comprare una lattina di cui non avresti neanche bisogno, che al ritorno devi pure metter in frigo ed aspettare prima di berla fresca, riesci a cibarti di dettagli e sentirti libero di parlare. Però poi non parli mai troppo, con il signore del negozio vicino casa. Lui parla francese, ma non è belga, il popolo dei piccoli alimentari, qui a Bruxelles, di solito è asiatico, d'indiani più che cinesi, o magrebini, e invece lui è polacco, o almeno pensavi fosse polacco o comunque dell'est, tra quei capelli bianchi e quelle rughe pronte a riunirsi tra gli occhi ed il sorriso come corde tese di una chitarra gitana, ad ogni saluto, augurandoti buona giornata e l'arrivederci alla prossima lattina. Mai nel frigo però, mi raccomando.
Cose che solo a Bruxelles
Poi ti ritrovi in un locale notturno brussellese, tale Madame Moustache, tra luci rosse e musiche sintetiche, che loro, le luci, anche se non accese sanno trasmettere ritmi e metriche, mentre una birra ovviamente insieme e poi un'altra con lui e un brindisi con gli altri, che in pista la folla già freme e la birra barcolla tra gesti altrui maldestri, ma poco importa mentre il corpo trasmette il segnale e allora ti dirigi di fretta ai bagni, è sempre lei, la birra fatale, a te il sollievo e a loro i guadagni, pensi, già, perché a Bruxelles si paga per farla anche se hai già pagato l'ingresso, Un euro tutta la serata o 40 centesimi alla volta, dice il tizio che parla, parla e ti chiede il compromesso e per un euro ha già pronto il timbro per tutta la serata, un timbro solo per il bagno, ridi e vai per i 40 con la vescica emozionata. Panta rei con offerta, pensi, se ne fai tanta, cose che solo a Bruxelles, surrealismo in continua scoperta.
Stay hungry, stay foolish
Qui la traduzione in italiano. Mai stato un fan di Apple e degli i-coso,
ma lui infatti non era solo quello.
Ma tutti uguali no
Il multiculturalismo ha fallito, lo han detto anche Cameron, la Merkel e Leterme, insomma lo han detto in tanti, perché ponendo la cultura al di sopra dell'individuo e l'importanza di conservare la diversità al di sopra dell'integrazione si è giunti ad alcuni punti critici di convivenza e comprensione ed è tutta colpa sua, della diversità, che fa benissimo, direbbe il biologo, visto che alcuni virus, per esempio, rimangono confusi di fronte a mix inattesi, ché nell'evoluzione la selezione naturale ha favorito proprio le miscele migliori ed il punto è quello: se c'è il mix. Ma chi s'impunta sul fallimento non pensa al mix, la realtà è ben più chiara: li vorrebbe tutti più uguali. Il collega egiziano magari in giacca e cravatta e dall'inglese certificato è più uguale al ragazzo irlandese e allora trasmette maggior armonia dell'altro, quello meno uguale, il magrebino della strada che magari veste la sua tunica bianca o la signora africana che mostra colori inconsueti. Se fossero meno diversi, se fossero più uguali o se lo diventassero in breve tempo, saremmo sicuramente più felici (o almeno lo sarebbe il ragazzo irlandese e la Merkel) e difficilmente parleremmo di fallimento anche perché a quel punto non ci sarebbe da parlare neanche di multiculturalismo. Facile. Facile, ma anche un po' macabro, diventare tutti meno diversi, anche se ha ragione Fontana quando afferma che la diversità è un mezzo e non il fine, ché nella diversità c'è anche quello che non piace (i pedofili son la parte brutta della diversità, per esempio) e allora non è un fine ma un mezzo per migliorare, solo che in mezzo ci siamo noi, ognuno con la propria cultura da difendere (o da mettere in discussione).
Il punto è che la realtà va in quella direzione da sola e non solo perché lo dice il biologo o la selezione naturale, ma anche perché la realtà è già così, mista e complementare, e lei, la realtà, va avanti anche se non siam d'accordo. Certo, per chi è cresciuto in una famiglia mono-culturale, a scuola in una classe mono-culturale, e gli amici, la televisione e l'intorno mono-culturale, poi è difficile l'approccio col diverso, soprattutto quando quel diverso è anche meno agiato, è ancora più diverso, non solo per cultura ma anche tanto altro, dove la povertà fa da cassa di risonanza e ci fa gridare al fallimento, a noi generazioni di mezzo che vivono l'esplosione di un multiculturalismo che non sarà più un trauma ma la normalità per quelle prossime, le generazioni delle scuole multiculturali, l'università, gli amici e le relazioni sociali. Magari non sarà la perfezione (e lo sa bene mia madre), ma se basta una spallata a farci cadere nel fallimento, beh allora sarà anche peggio.