Sogni di mezza estate

Le piogge d'agosto che non danno pace nei paesi del nord Europa ballano sulle tele degli ombrelli e si ripetono, nel loro ritmo d'accompagnatrici tenaci, per risuonare nei pensieri della gente e trasformarsi in lamenti sociali e imprecazioni liberatrici, come se fossero una novità, come se fossero un'eccezione. Non lo sono, le piogge d'agosto nelle capitali del nord Europa, se si guardano le statistiche, se si guardano i dati e le abitudini, che dovrebbero guidare certe conclusioni, che dovrebbero definire cos'è la normalità. Ma la normalità si confonde nelle percezioni di chi è abituato ad altri cieli, di chi ha nella mente altre immagini programmate, altre aspettative radicalizzate. E invece poi i dati dicono che, per esempio, a Parigi agosto è il mese dell'anno con più pioggia (in media):
E che anche a Lussemburgo agosto è il mese con più pioggia:
E indovinate a Dublino qual è il mese con più pioggia dell'anno? Agosto, a pari merito con dicembre:
E non è che i cugini britannici se la passino poi tanto meglio, a Londra per esempio agosto è solo il secondo mese di quest'ambita classifica, dopo dicembre:
A questo punto quasi ci si sente rincuorati quando si nota che a Bruxelles agosto è solo il quarto, se non fosse che il primo è luglio...
Certo, più pioggia (come quantità) non sempre significa più giorni di pioggia (wet days, nei grafici, per cui agosto in media scenderebbe al terzo posto), ma le due statistiche insieme (e che coppia) sicuramente non fan pensare a cieli estivi di sole e leggerezza. E' la natura, nient'altro, che al nord Europa preferisce un'estate differente nei suoi meccanismi d'equilibri e ricicli. Lamentarsene equivarrebbe quindi a lamentarsi della mancanza di angurie a dicembre, per esempio. Ma la nostra natura di figli di stereotipi stagionali (e commerciali) o d'abitudini adolescenziali d'altri colori mal s'adatta a latitudini nordiche d'aspettative intolleranti e compromessi in continua digestione. E piove, di gocce e lamenti.

L'insostenibile leggerezza delle porte

Quelli che per gentilezza non lasciano chiudere la porta alle proprie spalle, perché ti hanno intravisto con la coda dell'occhio, perché si sono volutamente girati per controllare se dietro avessero qualcuno, se potessero dispensare quella cortesia gratuita, anche se non ti conoscevano, anche se non ti avevano mai visto, e lo fanno con la tempistica esatta, calcolando le distanze e la velocità del tuo passo, senza lasciarti nella scomoda posizione di chi si sente forzato ad avanzare il passo solo perché era in effetti troppo lontano ancora dalla porta, senza dover rincorrere il suo gesto per il mero principio di dover accettare forzatamente quella gentilezza, ecco quelli che lo fanno bene quasi sincronizzandosi con la tua prossima venuta o, e spesso ancor più difficile ma non meno meritevoli, quelli che si accorgono della distanza, si accorgono che non ce la farai e che dovrai fare uno sforzo in più per dire grazie e trovarti la porta semiaperta con la mano, e che quindi lasciano che si chiuda, la porta, alle loro spalle, ti ignorano ma a fin di bene, evitano per trasformare una gentilezza in scortesia, una bestemmia a denti stretti mascherata da grazie forzato, ecco quelli che riescono in questa semplice eppure non sempre facile scelta, dell'aspettarti con la porta aperta o lasciare che si chiuda loro alle spalle, hanno una grande probabilità di risultarti simpatici. Gli altri, quelli che ti aspettano anche se sei palesemente troppo distante, o quelli che la lasciano chiudere alle proprie spalle anche se eri lì a pochi centimetri, sono gemelli separati dello stesso problema con il mondo e con se stessi. O forse soltanto un poco miopi.

E sembra che in città ci sia qualcuno che non è finito mai in tivù

Ma che belli vederli all'opera, quegli italiani all'estero che creano, fanno cose, sperimentano, s'impegnano in attività nuove, s'uniscono ad altri ragazzi all'estero e fanno teatro, organizzano eventi, imparano a suonare uno strumento, finiscono in un concerto ma non come spettatori, si ritrovano a spolverare vecchi sogni e nuove sfide; ci son italiani all'estero che non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi su un palco di teatro, alla cassa di un mercato biologico, alla riunione di un quartiere in transizione e tante altre attività completamente slegate dal lavoro che altrove han conquistato, soprattutto in quei casi, quando non c'è connessione alcuna con il cv memorizzato, con quello che facevano prima, con i progetti che avevano sull'aereo all'atterraggio, nelle chiacchiere che arricchivano di speranze con gli amici alla partenza; e lo fanno per socializzare, per crearsi un gruppo, per riaccendere un hobby, per assecondare un istinto o convinti dal compagno d'appartamento, coinvolti dal conoscente del corso serale di lingua, e lo fanno anche e probabilmente perché rotto un equilibrio, quello del mondo di prima, diventa più facile provare, si è maggiormente aperti a sfidarsi, a improvvisarsi, a contribuire, accompagnare. Son belli, quei ragazzi all'estero, quando gli vedi il sorriso della soddisfazione alla fine delle cose, un po' increduli un po' ritornati bambini, se altrove han ritrovato passioni, han riscoperto giochi, condiviso giocattoli, perché sono la prova della flessibilità umana, della sopravvivenza ma soprattutto di quella legge universale di Paul Eluard, di quel "creato, io creo, è l'unico equilibrio, è l'unica giustizia", e loro son belli perché appunto creano, creano cose e legami, con gli altri e anche tanto con se stessi.