Sul barcone degli alieni

Il mantello di nubi che copriva esteso la notte e l'orizzonte, lasciando pennellate intense di grigio tra l'oscurità intorno, nascondeva anche le stelle, tutte, dai brillii soffusi a quelle di riferimento, dai gruppi che qualcuno associa a disegni animali e mitologie antiche a quelle solitarie che magari son pianeti neanche troppo lontani, forse vicini abbastanza da accogliere una speranza, un desiderio, una preghiera di conforto, non importa di quale religione, che sia di quelle falsamente educate o prassi di una vita, ci son certi momenti, certi attimi di paura o soltanto bisogno di uno spettatore superiore, qualcuno che ti ascolti, lì, che sia di carne e pensieri o soltanto di nubi e notte, a cui lasciare la tua speranza. E invece no, non ce n'erano stelle quella notte e a scrutarlo, quel cielo, era grigio e nero, fino ai limiti dello sforzo visivo, dove si mescolava al mare per aggiungere incertezza ad una destinazione già tanto tremolante come le mani ed i piedi, per il freddo e la fame, su quel barcone pieno come granelli di sabbia in un pugno: difficili da contenere e pronti a disperdersi nell'acqua ad ogni movimento brusco, improvviso, imprevisto.
E lui se ne stava lì, in un angolo tra sporcizia e sudore, con il gomito del compagno di viaggio a lato che gli premeva nel costato, cercando invano d'addormentarsi, non ci riusciva, troppe voci di chi aveva freddo e fame, qualche pianto di chi già sentiva l'alito della morte sul collo e invece era il vento mischiato alla tosse intermittente di altri; voleva dormire per recuperare un po' di forze e magari svegliarsi già sulla terra ferma, ma troppi lamenti intorno di chi stremato dal viaggio estremo e troppi pensieri, dubbi, qualche progetto nella testa: impossibile dormire su quel barcone e poi per cosa? Che sogni poteva mai partorire la mente stremata in quel barcone d'anime invisibili, in balia del mare e delle trame d'Atropo?

E il sonno in fondo era quasi proibito, bisognava stare sempre in allerta, sempre pronti ad uno scatto vitale, anche se lì, in quell'angolo, con quel gomito e quei pensieri, davvero non ce l'avrebbe fatta a fuggire in tempo da un possibile rischio o almeno così pensava. Gli avevano detto che in Italia avrebbe avuto qualche possibilità di guadagnare qualcosa, gli avevano detto che 2.300 dollari era un prezzo onesto per scappare da quella Tunisia in sommossa, anche se per accumulare quei soldi s'era venduto quasi tutto quello che aveva, gli avevano promesso un aiuto, l'amico di un amico, un lavoretto iniziale. Lo avevano anche avvertito che non sarebbe stato facile, che avrebbero potuto rispedirlo a casa o che casa non l'avrebbe mai più rivista, che avrebbero potuto ammazzarlo di botte o più semplicemente che avrebbe trovato insulti e intolleranza e non braccia aperte e sorrisi. Forse era meglio dormire, gli avevano detto tante cose e adesso si mescolavano confuse, ma non riusciva, non riusciva a dormire. Gli avevano anche detto che tanti italiani lasciavano l'Italia per trovare qualcosa di meglio, li chiamavano cervelli in fuga, che a lui quel nome gli fece subito ridere, anche lui aveva un cervello ed era in fuga, in fuga verso una terra da cui altri a loro volta fuggivano e non capiva perché. Poi aveva pensato che forse è una cosa normale, che magari un giorno scapperemo da questo pianeta in cerca di un pianeta migliore e magari ci sarà qualche altro popolo stellare che approderà sulla Terra convinto d'aver trovato un posto migliore del pianeta di partenza e così all'infinito. E questo pensiero lo fece ridere, spontaneamente.

"Che ridi?" Gli domandò un altro che gli stava di fronte, anche lui nel vortice dell'insonnia obbligata.
"Siamo extraterresti e questa è un'astronave!" Rispose come a dire la cosa più naturale e banale del mondo.
E ci fu più di un sorriso per un attimo, soltanto per un attimo, su quel barcone di alieni.

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