Poi all'aeroporto, il vuoto. Il portellone del vagone vomita via chili di valigie e rumore mentre sinfonie di richiami, fischi e freni sbuffanti spingono lentamente il treno a riprendere la marcia, alleggerita non solo di persone ma anche d'altalene. E d'occhiali da sole. Ah, pensavi. I sedili del vagone sono lo scheletro che rimane quando la carne vien strappata via in pochi istanti: rimangono brandelli di sporcizia e tracce di un passaggio frettoloso, coperti da un silenzio alienante, perché insolito. D'improvviso riesci quasi a sentire anche il tuo respiro, mentre il treno sfreccia indisturbato verso Mechelen e i binari, meschini, cambiano rotta e dimensione, tagliando un paesaggio d'improvviso verde, di campagne belghe e orizzonti nuvolosi. Poi inizia il decollo affannato e la terra, laggiù, si fa piccola, sempre più piccola, fino a confondersi in mezzo a milioni d'asterischi, troppo lontani. Non c'è più ritorno, pensi. Quando la navicella spaziale atterra a Mechelen, dal vuoto della cabina si diffonde una tensione crescente mentre dall'oblò s'intravedono costruzioni aliene e agglomerati di materiali ferrosi. Sei solo, pensi. Il portellone che si apre automaticamente, premendo appena il pulsante luccicante, sfoggia fieramente il progresso umano raggiunto in un spiuuuffffhh un po' goffo ed ecco che due gradini meccanici fuoriescono imperiosi e si posizionano perfettamente in attesa del tuo primo passo mentre le due porte, imperiose anche loro, scompaiono magicamente ai lati, tra ingranaggi sofisticatissimi degni di quest'odissea nello spazio. Ci siamo, pensi. Piove, perché nonostante le mille teorie azzardate durante birre serali e concerti di parole sterili, anche a Mechelen c'è atmosfera e la pioggia, dunque, semina sui tuoi passi messaggi indecifrabili di attacchi alieni, mentre dagli altoparlanti si diffondono notizie di bombardamenti stellari tra accenti iracondi e dittonghi graffiati e la stazione aerospaziale è tutto un fremito di creature indescrivibili però frettolose, con cui non potrai comunicare per via di quel linguaggio extraterrestre ancora da studiare. Prima o poi, pensi. Poi, ripensi. Appena entri nella navetta spaziale che ti porterà a destinazione ti accorgi di quanto insensate siano stati tutti quei racconti fantascientifici sulle tecnologie aliene se ti trovi d'improvviso in quel pianeta lontanissimo ma in effetti, infine e dunque, sei in un autobus. E l'autista adatta la sua lingua, in una che capisci, e ti sorride perché ti riconosce, dopo un mese di viaggi interplanetari. Domani partirai per le vacanze, anche tu, ma senza occhiali da sole, e al ritorno non dovrai più arrivare ogni mattina su quel pianeta recondito però familiare, che ti ha dato una certezza in più: gli alieni sono buoni.
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L'interno della navicella spaziale, quando gli occhiali da sole scappano via per le vacanze e resta il vuoto. Poi, le stelle. |
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