Lo so, non si fa, ma sono bellissimi. Foto scattata qui. |
Di grazie che valevano la pena
Poi ti ritrovi a sorseggiare una birra artigianale belga al mercato del lunedì di place Maurice van Meenen, lì sotto il bellissimo municipio di Saint-Gilles, dove tra l'altro ti sei pure sposato, mentre la folla s'accalca, si muove, si mescola, chi con una birra, chi con un bicchiere di vino, chi in fila per una piadina romagnola, chi per un crepe marocchina, c'è una banda musicale di signori già abbastanza anziani che suona per il mero gusto di suonare e diffondere allegria, c'è il ragazzo francese delle crepe bretone che ti riconosce perché eri lì al mercato del venerdì di place des Chasseurs Ardennais dove normalmente lo ritrovavi ed eri lì al mercato del giovedì della place Victor Horta vicino Gare du Midi dove lo hai incontrato diverse volte per pranzo, lo dici alle persone in fila, che lui è un artista della crepe, non li conosci ma ci si conosce tutti lì, facciamo tutti parte del villaggio globale, non li conosci ma cosa importa poi, siamo in quella parte di Bruxelles dove troppe formalità non piacciono a nessuno. Poi, mentre brindi per la seconda birra artigianale e la banda passa, trombetta, sviolina, tamburella, ti accorgi che proprio a un metro da te, lì di fronte, con una birra in mano c'è Charles Piqué, sindaco di Saint-Gilles e ministro-presidente uscente della Regione di Bruxelles, non ci credi, ne sei convinto, è proprio lui, ne mostri la pagina wikipedia all'amico che non ti segue mentre determinato gli vai vicino, lo interrompi, ti presenti, che sei italiano ma che vivi a Bruxelles da più di 5 anni, che ti sei sposato proprio lì e che vivi nel suo comune da oramai più di 3 anni e che lo vuoi ringraziare, grazie signor sindaco, grazie davvero, per tutto quello fatto finora, per quello che seguirà, perché l'adori quell'atmosfera lì, perché sei felice ed è anche merito suo, ti chiede dove abiti, cosa fai, ha il sorriso dei manifesti elettorali, ti stringe la mano ma tu lo vorresti quasi abbracciare, grazie e scusate per l'interruzione, grazie e scusate per il disturbo, buona continuazione e per l'emozione o per le birre sbagli anche due accenti francesi e una coniugazione.
Poi, non dovresti pensarlo ma ti salta in testa la connessione, non dovresti far confronti ma tra un singhiozzo di malto e una memoria che risale a galla pensi a quando vivevi in Campania, all'ipotesi di un possibile incontro con il presidente della regione, quel tal Bassolino, pensi: lo avresti mai ringraziato? E no che non lo avresti fatto, ti ripeti, mentre l'immagine già viene archiviata e nuove chiacchiere, nuovi sorrisi s'accavallano nel mercato, mentre pensi che più che un grazie sarebbe stata un altro il saluto, molto più tipico e sincero, ma il passato non c'è più, ti ricordi, è il presente che merita attenzione.
Poi, non dovresti pensarlo ma ti salta in testa la connessione, non dovresti far confronti ma tra un singhiozzo di malto e una memoria che risale a galla pensi a quando vivevi in Campania, all'ipotesi di un possibile incontro con il presidente della regione, quel tal Bassolino, pensi: lo avresti mai ringraziato? E no che non lo avresti fatto, ti ripeti, mentre l'immagine già viene archiviata e nuove chiacchiere, nuovi sorrisi s'accavallano nel mercato, mentre pensi che più che un grazie sarebbe stata un altro il saluto, molto più tipico e sincero, ma il passato non c'è più, ti ricordi, è il presente che merita attenzione.
Spaghetti boló
Ma non mi guardare a quel modo, caro collega fiammingo, quando mi arrivi al tavolo della mensa aziendale con quel sorriso malizioso e il tuo piatto di spaghetti boló, quella pietanza non più imitazione né tantomeno tentativo maldestro ma più probabilmente abitudine culinare di latitudini ravvicinate, non mi guardare così perché non troverai giudizio nel mio stereotipo d'italiano da buona forchetta e non credere che tra quegli spaghetti bianchi e quel pugno di sugo rosso insipito potrai mai rivedere i miei lineamenti del sud un poco scoloriti; appena inizi a tagliarli, quegli spaghetti bolò come fossero due blocchi monocolore di giallognolo e rosso, con coltello e forchetta, quasi fosse una lasagna, e mangiarli senza alcun criterio di giudizio su cosa sia la mantecatura né il tempo giusto di cottura, non troverai nella mia espressione né disagio né disgusto, perché ne sarò indifferente così come se in quel momento tu stessi mangiando qualsiasi piatto esotico di cui non conosco il nome né gli ingredienti né la sua versione originale, non troverai nessuna breccia nel mio orgoglio patriottico ridotto a briciole né avanzerò mai nessun diritto sui tuoi gusti e la qualità del piatto nonostante tutto. Però, non appena mi chiederei quella cosa, non appena la tua domanda punzecchierà la conversazione per sapere perché mai io non ne mangio mai, di spaghetti bolò, lì a mensa, a Bruxelles, sfodererò la super risposta oramai ben testata e con poche e semplici parole ti metterò spalle a muro e boccone in gola, avrò vinto, semplicemente, e abbasserai gli occhi meschino con una smorfia di smacco e l'inevitabile tortura di darmi ragione: ma tu - ti dirò con scioltezza - te la mangeresti mai una carbonnade fiamminga cucinata nella menza di un'azienda, a Napoli? Ecco.
Quello che i nonni non dicono
Ci pensi quando noti che le ricette che credevi di cucinare davvero bene poi riesci anche a migliorarle e poi, dopo altre prove, altri esperimenti, altra pratica, riesci addirittura e ancora a superare ulteriormente quello che prima rappresentava già un gran bel traguardo. E pensi a tuo nonno, lì, al tavolo la domenica mattina o ad ogni festa tradizionale, quando ci si riuniva tutti insieme e ognuno lasciava che il profumo dei piatti della nonna conquistasse palati e sorrisi: facile, per la nonna, cucinare bene, dopo anni e anni di prove, di raffinamenti, migliorie. Quello che però i nonni non raccontano, ai nipoti che stan lì a fianco a chiudere gli occhi e godersi le pietanze prelibate, è di quante volte han mangiato pasta scotta o sughi troppo liquidi, troppo secchi, troppo salati, troppo insipidi, quello che i nonni non dicono, perché non ricordano, perché non potrebbero, perché non vogliono, perché altrimenti si rovina una leggenda di forchette e acquoline in bocca, è che anche le nonne un tempo non sapevano cucinare, anche le nonne una volta preparavano piatti mediocri e loro, i nonni, erano lì a mangiarli, a condividere i risultati, a consigliare, giudicare, ingoiare, aspettare. Il segreto delle nonne è tanto banale quanto importante: se una cosa non ti riesce bene la prima volta, provaci ancora, perché solo fallendo e capendo dai tuoi errori puoi poi migliorarti; il segreto dei nonni ne è un corollario non meno importante: se una cosa non è riuscita bene, ingoia e sii paziente, supporta e costruisci insieme. Il segreto dei nonni era lì, ogni volta a tavola e tu non lo vedevi, loro non te lo dicevano, e tu intanto tornavi a casa poi e la tua pasta non era al punto giusto, la mantecatura non ti riusciva bene, fallivi e pensavi che non saresti mai riuscito a cucinare a certi livelli perché, in fondo, ti mancavano gli ingredienti principali che la ricetta non menzionava: il tempo, l'esperienza, la pazienza e la perseveranza. Ed è talmente universale, quel segreto dei nonni, che dovremmo ricordarcelo sempre, in cucina come al lavoro, nelle sfide personali e nei risultati di gruppo: non demordere, fallire è una cosa bellissima.
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