Tre anni altrove (o anche all'estero)

Curioso compiere tre anni all'estero (un anno e mezzo in Irlanda ed un anno e mezzo in Belgio) su un treno, proprio mentre si attraversa un altro confine, qui al ritorno da qualche giorno tra Strasburgo e Metz (la città gialla), per andare poi a Lussemburgo ed infine rientrare a casa, per ora a Bruxelles. Sarà che tre anni non son stato all'estero, ma semplicemente altrove, altrove da abitudini, conoscenze, familiarità. E capisci, dopo tre anni fuori, quante contraddizioni, quante assurdità esistono sugli emigranti, le nazioni, stereotipi e propagande. Capisci, per esempio, che non ha senso la situazione del collega cinese, sposato con una connazionale che al momento vive in Francia, ma distanti a causa di un visto, per lui, che non riesce ad ottenere, avendo già trascorso due anni in quel paese, un po' di tempo fa. Già, le nazioni, quante burocrazie e quanti limiti, hanno poco senso quando ci si sposta soltanto da un luogo ad un altro e non dal mio paese al tuo paese. Perché tuo?

Capisci che gli altri come te, gli altri immigrati italiani in giro, hanno diversi modi di interagire, di mescolarsi e di confondersi con gli altri e da loro puoi imparare, puoi distinguerti, evitarli o ricercarli, ma senza cadere nell'illusione di una patria altrove che non c'è. Capisci che tutti quei ragazzi italiani emigrati in paesi migliori, tutti quei sorridenti emigranti del nuovo millennio che si manifestano orgogliosi di non vivere più in Italia e d'essere approdati in qualcosa di migliore, ecco spesso sono falsi (probabimente, magari, sì, sì, ovviamente non tutti), sono falsi inconsciamente quando son orgogliosi del paese civile di destinazione (che sia Svezia, che sia Irlanda, che sia qui oppure là), loro che a quel miglioramento sociale non hanno mai partecipato attivamente e che lo contrastano a quello che han lasciato, che non hanno tentato di migliorare attivamente, e sono gli stessi che poi guarderebbero in modo strano quelli che invece son orgogliosi di quello stesso paese d'origine, probabilmente per eventi, primati e monumenti cui a loro volta non hanno mai partecipato attivamente. Perché allora quegli orgogli?

Sarà che quando si ama un luogo, se ne vuole far parte in todo, cultura, storia e soprattutto pregi, ma nessun luogo è un paradiso, se non agli occhi dei propri compromessi, quegli stessi che spesso causano una fuga, un abbandono o la ramificazione di radici sempre più profonde ed inamovibili. Capisci, dopo tre anni fuori, che il viaggio più importante non è attraverso terre, isole e mari, ma dentro di te, perché andando altrove ci si impara a conoscere internamente attraverso il diverso, affrontando esperienze altrimenti rare se non addirittura impossibili tra le quattro mura amiche o nello stesso paese ma tra le solite destinazioni lavorative, che sia Roma, che sia Milano, che sia laggiù o l'altra ancora; perché all'estero poi, quel fuori è fuori dalle proprie abitudini, fuori dalle proprie conoscenze, fuori dal proprio ordinario e allora ci si mette alla prova, in un continuo confronto, tra errori ed esperienze, vittorie e lacrime, in situazioni sicuramente nuove, che sia parlare una lingua straniera o ritrovarsi in un gruppo di ragazzi ed essere l'unico italiano, che sia scontrarsi con culture lontane, spesso sconosciute, o imbattersi nello stereotipo di te nella mentre altrui, soltanto per la tua provenienza, soltanto per essere nato in un luogo e non in un altro, aver assimilato una cultura e non un'altra. Ma non c'è nulla di già scritto, la patria non è mica nel sangue. Ecco, sapevate che un neonato di 30.000 anni fa (sì proprio tanto tempo fa) trasportato qui, nella nostra società globalizzata, dalle caverne al mouse, crescerebbe esattamente allo stesso modo di un suo coetaneo contemporaneo, perché il cervello umano non si è evoluto poi tanto e si adatterebbe in maniera completa al nuovo intorno che nuovo non sarebbe per chi vi crescerebbe dal principio?

Cosa significa? Significa che non è tanto il nascere in un luogo né l'identità dei propri genitori né tantomeno qualcosa di mistico che possa essere nel sangue, ma è il crescere, ricevere un'educazione e assimilare una certa cultura fin da piccoli: è questo che ci rende italiani piuttosto che egiziani piuttosto che canadesi. La patria è soltanto una educazione. Allora io non sono italiano, ma sono soltanto cresciuto in Italia ed ho assimilato la cultura italiana; se fossi cresciuto in Portagallo, avrei assimilato un'altra cultura, altre abitudini e modi di vedere le cose, indipendentemente dal luogo di nascita, dai genitori, dai nonni e dal primo pianto infantile. Semplicemente. E il fatto d'essere nato in Germania da genitori italiani, esser cresciuto poi in Campania, vivere adesso in Belgio con una ragazza spagnola venendo insieme da Dublino, ecco tra le quattro lingue che ogni giorno devo utilizzare per comunicare e condividere un pensiero, capisco quanto quell'idea di patria, di nazione, d'orgoglio d'origini o di destinazioni, quanto tutto ciò sia spesso soltanto un'inutile barriera. Certo il mio aspetto, i miei lineamenti ed i colori, saranno spesso un facile biglietto di visita, ma soltanto per l'apparenza. Se a km di distanza si capisce già che son italiano o alla prima vocale italiana che son campano, o alla prima jota spagnola, suono nasale francese o vocale aspirata inglese si capisce che non son madrelingua, che son straniero, c'è sempre quel bisogno di associazione per gli altri e di identità per noi. Eppure la patria non è in noi, di base siamo tutti uguali: il bambino di 30.000 anni fa, io e voi, potremmo esser cresciuti tutti in un altro paese e identificarci oggi in quella nuova patria, per poi capire che patria è soltanto un'appartenenza, un'etichetta che riassume genericamente pezzi di noi, un'idea politica di propaganda, un contenitore di irrazionalità, d'odi e d'orgogli, una educazione da identificare e capire, nelle origini e nei suoi limiti. Solo così, senza rigetti né crisi d'identità, potremmo intendere che non esistono stranieri, nessun emigrante né immigrato, ma soltanto spostamenti da un luogo ad un altro, condividendo culture senza giusto né sbagliato, ma soltanto un diverso da conoscere ed interpretare; e allora l'estero sarà altrove. Tutto qui.

Tanti, troppi pensieri in 3 anni, lo so. Ma forse (e probabilmente) devo capire ancora tanto e allora 3 anni non son poi abbastanza: niente panico però, non c'è fretta né superbia, c'è solo un viaggio da continuare, fuori e dentro di me. Ah, e grazie tante per la compagnia, davvero.

7 commenti:

Anonimo ha detto...

"Capisci, dopo tre anni fuori, che il viaggio più importante non è attraverso terre, isole e mari, ma dentro di te, perché andando altrove ci si impara a conoscere internamente attraverso il diverso, affrontando esperienze altrimenti rare se non addirittura impossibili tra le quattro mura amiche"

quant'è vero! bellissima riflessione la tua, che condivido pienamente! difficile spiegare queste sensazioni a chi non le ha vissute in prima persona... ora che mi ci fai pensare io sono partita il 2 maggio 2007, ormai fanno 3 anni e quasi 7 mesi! :)

Anonimo ha detto...

Spero che leggano in tanti questo bel post, ottime riflessioni ed originali!
ps

ilmisci ha detto...

Post molto interessante, io ho da poco superato i quattro anni di vita altrove, e mi ritrovo in molte delle tue considerazioni.
Gramsci diceva che i simboli di una nazione: l'inno, la bandiera, l'esercito con le sue divise e i suoi rituali, le parate e il protocollo sono tutti simboli voluti per creare un'identità che divida la gente, che la renda più facile da controllare e da dirigere.
Anche senza scomodare Gramsci, è forse vero che siamo quello che siamo per il luogo in cui siamo nati e cresciuti, per le esperienze che derivano dal crescere a Napoli piuttosto che a Brussels o a Bucarest.
Cittadini del mondo, e nulla più, forse questo è quello che siamo realmente.

andima ha detto...

@Daphnae
E allora anche tu avrai tanti pensieri, tante cose da raccontare, tante riflessioni raccolte durante un viaggio sicuramente intenso, che non può che continuare;)

@Anonimo
grazie:) ma ammetto che tante riflessioni meriterebbero più spazio mentre altre più tempo, più incubazione, e non è facile capire tre le due, per non cadere nel silenzio perenne o nello sparare caxxate. Alla fine condivido ed i commenti mi aiutano a sviluppare molti di questi pensieri.

@ilmisci
Sono d'accordo sul dividere la gente attraverso quel senso di patria innato e fortissimo e sul controllarne poi in parte emozioni e stimoli attraverso quell'attaccamento, quell'appartenenza coltivata e radicata, esattamente come le religioni, anch'esse nate da una educazione, da un bisogno umano di appartenenza e risposte, di fede; però allo stesso modo sono convinto che la diversità sia essenziale, perché ricchezza e base della nostra evoluzione. I due concetti non cozzano, perché si può conservare e rispettare il diverso senza dover porre la propria cultura in cima ad ogni cosa, si può capire d'avere una nazionalità soltanto per una coincidenza di eventi e allo stesso tempo condividerla e riceverne di nuove, aprirsi al diverso senza l'utopia di creare un unica nazione un'unica cultura. Ecco, se capisco che di base siamo tutti uguali, non significa che voglio una realtà di persone tutte uguali, non voglio annientare le culture amalgamandole in un mix che terminerebbe in una ipotetica supercultura mondiale; voglio sicuramente preservare quelle diversità ma con la coscienza di non aver nessun diritto, nessun orgoglio, nessun privilegio su questa o su quell'altra, e di identificarmi in una ben precisa soltanto per educazione, per coincidenze, appunto. E' attraverso questa coscienza delle cose che si possono applicare diversi filtri e apprezzare di più le altre culture e probabilmente anche la propria, secondo me.

Anonimo ha detto...

E' un bellissimo post in cui mi ci ritrovo.
Ormai da anni non ho più patria, mi sento apolide e sono fiero di esserlo. Patria è solo un concetto che alcuni uomini dell'antichità, stanchi di viaggiare come nomadi, si sono inventati per nascondere la verità: che l'uomo sedentario non può crescere, non può vivere liberamente se rimarrà nello stesso posto dove è nato fino alla sua morte.

E come dico sempre: per noi non esistono mete da raggiungere, il viaggio stesso è la meta.

Zax (Andrea) ha detto...

bel post :-)

Andrea

andima ha detto...

questo post, con stile spettacolare, spiega l'essere italiano, e non poteva mancare in questo post.