Dell'abituarsi alle stelle

Era lì a sfogliare una rivista, di quelle sterili che davano durante il volo, perché proprio non sapeva che fare, che lui si annoiava durante l'ennesimo viaggio, seduto all'ultimo sedile della fila mentre al lato del finestrino c'era un bambino ipnotizzato dal cielo, dalle nuvole, quella sorta di magia che era volare, perché proprio lì fuori c'era ciò che incantava una volta, che s'osservava con la boccuccia aperta e gli occhioni affamati, che lì magari, un po' più a destra, si sarebbe intravisto Peter Pan intento in una delle sue avvincenti avventure, e dall'altro lato, un po' più giù, c'erano forme ed animali da scoprire nei contorni di una nuvola all'apparenza innocua ma che la fantasia avrebbe presto trasformato in un mondo animato. Però niente, alle nuvole, al cielo, alla magia del volare s'era già abituato, che con il progresso s'erano abbattuti sogni secolari di praterie azzurre da esplorare, che in quel tubo metallico con ali adesso le attraversava, quelle praterie, e non c'era più bisogno d'attendere il vento che spingesse una nube, anche se la prima volta rimase quasi senza fiato da piccolo, ché c'era quello, il vento, che muoveva le nuvole, piano piano, e che se non facevi attenzione non lo capivi, e quello le muoveva senza che nessuno lo sapesse. Corse a dirlo alla mamma, quando lo scoprì, mentre adesso era lui che andava più veloce delle nuvole, più veloce del vento, ma si annoiava.

Non lo sapeva il suo pro pro pro nipote, mentre l'airbus spaziale si spingeva verso la galassia vicina, non sapeva che c'eravamo abituati al cielo, alle nuvole, a volare, ne avevamo perso l'incanto, e non lo sapeva mentre sfogliava una rivista di quelle sterili che davano durante i voli galattici, perché proprio non sapeva che fare, che lui si annoiava durante l'ennesimo viaggio, mentre al lato del finestrino c'era una bambina ipnotizzata dallo spazio, dalle stelle, quella sorta di magia che era volare in quel buio decorato, perché proprio lì fuori c'era quello che incantava una volta, che s'osservava con la boccuccia aperta e gli occhioni affamati, che lì magari, un po' più a destra, si sarebbe intravisto E.T. sorvolare un cratere lunare, e dall'altro lato, un po' più giù, c'erano brillii e orbite da scoprire nei contorni di una notte infinita che la fantasia avrebbe presto trasformato in un mondo popoloso. Però niente, alle stelle, ai pianeti, alla magia del volare s'era già abituato, che con il progresso s'erano abbattuti sogni millenari dello spazio da esplorare, ché in quel tubo metallico con le ali adesso lo attraversava, quell'universo non più misterioso, e non c'era bisogno d'attendere la cometa passare, in una notte di campagna, anche se la prima volta rimase quasi senza fiato da piccolo, che c'era quella, la stella cadente, che cadeva all'improvviso lasciando una scia luminosa, di colpo, e che se non facevi attenzione non lo capivi e lei cadeva senza che nessuno lo sapesse. Corse a dirlo alla mamma, quando lo scoprì, mentre adesso era lui che lasciava una scia luminosa nella scatola di metallo, più veloce della stella cadente, ma si annoiava.
Poi sfogliando la rivista si rese conto che la bambina al finestrino lo stava fissando, che già non fissava il finestrino né le stelle né i pianeti e si voltò a guardarla come sorpreso e lei risposte con un sorriso, semplice e innocuo, che non seppe ignorare, a cui reagì con un altro sorriso, improvvisamente, sorpreso: era ancora umano, e pur essendosi abituato al cielo ed alle stelle, sapeva ancora sorprendersi per un sorriso, che poi in fondo son stelle in mezzo a noi.

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