C'è chi non prende più la metro, da due anni. Un terzo della città ne ha ancora paura, dicono. C'è chi preferisce avvolgersi nella rassicurante frustrazione del traffico mattutino della città più imbottigliata d'Europa pur d'evitare posti "sensibili", che di sensibile spesso hanno soltanto chi ci entra, chi ci esce, chi sospira. C'è chi addirittura è andato via, perché - dicevano - non si sentivano più al sicuro qui, come se altrove possano dare qualche garanzia di tranquillità, come se tutto l'equilibrio quotidianamente creato in anni a Bruxelles fosse svanito nel terrore degli attacchi. C'è anche chi quel terrore lo ha ingoiato dopo pochi giorni e la centrifuga inarrestabile di distrazioni e priorità ne ha facilitato la digestione, di notizie, aggiornamenti, lamenti. E c'è chi invece di quel giorno porta ferita ancora aperta, chi ha perso qualcuno, chi non c'è più, chi se lo porta sul corpo come una memoria che il tatto riporta mestamente agli altri sensi. Il senso del terrore, quello, lo hanno trasmesso un po' a tutti, per instanti, giorni, anni, ognuno col suo grado di permeabilità personale, anche solo nello sguardo sospetto quando entri nel vagone della metro e c'è una barba ambigua che richiama stereotipi e timori. Il timore che possa succedere di nuovo, che questa volta sia il tuo turno, che non ci sia abbastanza tempo per scappare. Scappare da un attacco o semplicemente scappare dalle tue paure. Il tempo ci aiuterà. Due anni però forse non bastano per tutti.
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