In una tazza di caffè

Il ragazzo maltese si presenta alla porta dell'ufficio con in mano l'oggetto tanto atteso, una caffettiera piccola ma pregiata, e non tutti capiscono il segnale, perché la macchinetta del caffè è il simbolo della setta creatasi in tempi arcani, e lui, il collega maltese, quasi non dice una parola, mentre tu lasci la scrivania d'impegni e finzioni insieme al ragazzo spagnolo, silenziosi. Poi alla prossima porta, di nuovo, la macchinetta del caffè quasi non si vede, ma gli occhi attenti capiscono il segnale, ed ecco che il ragazzo polacco e quello austriaco vi seguono. Nel corridoio in fila indiana, tutti dietro al ragazzo maltese, incomincia la processione con in testa il totem tanto venerato, l'oggetto che libera le papille gustative dalle torture degli intrugli vomitati dal distributore meccanico, lì, nell'atrio, il totem che diffonde quell'odore che sveglia olfatto e sorrisi persi tra le eco di tastiere stonate e monitor inerti.
Quasi senza dir una parola, i membri della setta giungono nella cucina al piano di sotto, dove ritrovano la ragazza belga e quella svedese. E il rito ha inizio. Il ragazzo maltese, proprietario dell'unica caffettiera in quell'ammasso di cemento e vetri, procede alla preparazione minuziosa del caffè e c'è sempre chi lo osserva con gli occhi da bambino, chi ne segue ogni gesto curioso, anche il più elementare, nell'attesa di ricevere la propria dose quotidiana di caffeina raffinata, felice di non rassegnarsi ai rumori metallici e al segnale poco poetico del distributore dell'atrio, ancora una volta. Tu in realtà non dovresti far parte della setta, perché il caffè non lo bevi quasi mai, da quando vivi all'estero, non perché intento a spogliarti d'italianità supposte, ma per la mancanza di un rito, in tanti anni, come quello a cui assisti in quel momento, mentre lei, la caffettiera, inizia a riscaldarsi non solo delle fiamme piccole però numerose del fornello, ma anche e soprattutto di quel momento sociale, di quella tribù quasi segreta di bisognosi di una pausa aromatizzata. Il collega maltese scambia con te qualche parola in italiano, prima di tornare alla sua lingua abituale, l'inglese, un po' per rispetto verso gli altri, un po' perché preferisce così, dice, nella paura di sbagliare. I suoi lineamenti arabi quasi ti confondono, lui che potrebbe essere italiano quanto te, proveniente da un'isola geograficamente più vicina anche di Lampedusa, ma con altra bandiera, altra cultura, altra patria, teoricamente molto più vicino a te della collega belga, eppure avvolto da una misteriosa ignoranza, l'ignoranza di chi ha vissuto anni senza mai dover saper nulla di quell'isola, quasi come se non esistesse, dove però si parla anche la tua lingua e c'è tutto un mondo di connessioni da scoprire.

Quando domandi della cremina, noti lo sguardo interrogativo dei membri della setta e ne decifri mancanze inammissibili. Veloce prendi un bicchiere di plastica e lo riempi di qualche cucchiaino di zucchero, aspetti paziente le prime gocce di nettare nero ed inizi a sbattere forte fino ad avere una crema che in effetti non riesce mai come volevi, ma poco importa, perché tutti son lì ad osservarti curiosi, intenti a scoprire cosa possa mai celarsi dietro quell'eccezione al rito. Quando sciogli un cucchiaino di crema nella tazza del ragazzo maltese, quasi ti guarda con ammirazione, con gli occhi di chi ha scoperto terra dopo mesi di navigazione sofferta, con l'espressione di chi ha ricevuto un gelato dopo ore di giochi al parco, quello strato sottile di schiuma marroncina che si crea sulla superficie del suo caffè, quasi fosse al bar italiano in un giorno di vacanza a Napoli, riempie di gioia il suo sorso ad occhi chiusi. Non è più caffè, è quasi amore.
La collega svedese sorride quasi condividendo un imbarazzo, che lei, quella scena, quegli occhi chiusi e un po' tutto quel rito, lo trova sì simpatico ma senza esagerazioni, altrimenti si rischia di cadere nel ridicolo, lascia intendere. Attenta però a sottovalutare una tazza di caffè, ragazza svedese, perché una tazza di caffè può essere anche amore, sai? Ti racconto una storia d'amore e caffè, ragazza svedese. C'era una volta un uomo che amava una donna, ma lei, la donna tanto desiderata, era sempre ostile, diremmo quasi amara. Ma l'uomo sapeva che dietro quelle ostilità c'era una dolcezza da scoprire, dello zucchero da assaporare. E proprio come tu adesso, ragazza svedese, stai girando quel cucchiaino per mescolare lo zucchero sul fondo della tazza, così quell'uomo sapeva bene che provando e riprovando, che continuando e perseverando, avrebbe trovato sotto quell'apparenza amara della dolcezza, anche in quella donna, e che lo zucchero sarebbe potuto arrivare finalmente alla sue labbra.
Ecco, ragazza svedese, perché non bisogna sminuire una tazza di caffè, che può essere un rito, una delizia o semplicemente dell'acqua nera. Poi, ti fermi un attimo e ci scopri una poesia, se c'è chi lo prepara con una caffettiera, chi ancora lavora alla cremina e chi poi ti racconta storie d'amore e caffè.

2 commenti:

TopGun ha detto...

Ma cu sti mod' oi Briggidaaa tazz' e cafè pariit'!


Gran post.

andima ha detto...

uno dei ritornelli più belli :D

cmq pensavo che la cremina fosse più conosciuta, tra gli stranieri va bene, ma anche amici di Torino mi guardavano con occhi straniti quando una volta ho iniziato a sbattere zucchero e le prime gocce di caffè in un bicchiere. Poi, va beh, l'effetto finale conquista sempre :D