Così poi dopo ore in ufficio alla ricerca dell'impatto minimale sui requisiti in continua evoluzione e dopo il corso di francese dove sebbene l'accento non migliori almeno si dialoga con sorrisi immancabili e dopo qualche birra piacevole in centro con un ex collega irlandese in visita da Dublino, che ovviamente vuole andare al pub irlandese anche in trasferta perché non a caso si chiamano public houses ed è anche giusto rifugiarsi ogni tanto dove ci si sente a casa, ecco che dopo 14 ore fuori casa è meglio prendere un taxi, meno lucido dopo qualche birra e abbastanza stanco della giornata imbottita.
il giocondo: "Sono 13.90 signore"
io: "Va bene, ecco - e gli porgo 20 euro - potete prenderne 14". Ed uso il mio francese balbettante dall'accento circonflesso.
il giocondo: "Oh, grazie tante signore, ecco - e mi porge il resto, aspettando con la mano tesa che lo prenda - ecco qui".
io: "Hm, ma sono 4 euro... avevo detto 14, non 16!!". Ed in francese tra i due numeri c'è una bella differenza che anche il mio francese di terzo livello (non super saiyan) riesce a distinguere.
il giocondo: "Ah, mi scusi... - prende i soldi e - ecco qui". E mi porge un biglietto da 5 più un euro.
io: "Grazie, potete prendere l'euro". E gli regalo un sorriso. Il caffè lo pago io, penso, in fondo so' semp nu signore.
il giocondo: "Come? Grazie... grazie... buona serata".
E il taxi si allontana veloce in una Bruxelles già insonnolita e silenziosa. Poi però ci penso, mentre giro la chiave nel portone scuro e invecchiato, tra stanchezza, pensieri e stupidaggine, che forse quel "parce que je suis toujours un monsieur" non l'avrà mica capito.
Da morire dal ridere
Da alcuni minuti sto letteralmente morendo dalle risate, peccato che sia tutto amaramente vero e sia politica italiana.
Come in un mondo alla rovescia
Capita che la sera in un pub a Bruxelles, come in un mondo alla rovescia, la gente esca fuori per respirare perché all'interno la nube di fumo (sì perché in Belgio è consentito fumare nei locali pubblici) può raggiungere livelli insopportabili e non tanto l'odore impregnante in vestiti, capelli e pensieri del giorno dopo, quanto quell'amaro in gola, quegli occhi arrossati di chi dopo 3 ore di apnea nel fumo passivo ha bisogno di una boccata d'aria fresca, quella naturale, quella normale. Così capita che l'altra sera all'entrata del La maison du peuple, noto luogo di perdizione brussellese, due ragazzi s'incontrino:
l'altro: Ah, anche tu qui fuori?
lui: Sì, sono dovuto uscire per un po' d'aria fresca, non resistivo più...
l'altro: Vabbé capita dai, ti capisco, è lo stesso per me.
lui: E' che... non riesco a smettere, ho cominciato da piccolo e... non riesco più a smettere...
l'altro: Brutto vizio, lo so, è lo stesso anche per me.
lui: A volte ad uscire fuori, in serate come queste in cui piove e fa freddo, mi domando perché per dell'aria fresca debba fare tanti sforzi, in fondo è solo dell'aria fresca, non potremmo averla anche all'interno?
l'altro: Eh... in altri paesi è così, ma cambieranno anche loro prima o poi...
lui: Già...
l'altro: O forse dovremmo smettere... Dovremmo iniziare a fumare anche noi...
lui: Tu ci riusciresti? Io non so se potrei smettere...
l'altro: Non è facile, è che oramai siamo troppo dipendenti... Fottuta aria! Ne siamo schiavi oramai!
lui: Già...
l'altro: Dai, entriamo.
lui: Aspetta, solo un altro tiro, un'altra boccata...
l'altro: Ti ricarica eh? Fottuta aria! Anche io non ne posso fare a meno e ogni sera nei pub è la stessa storia... Devo inventarmi una scusa, devo lasciare tutti e venire qui fuori a tirarne un po'! A volte... a volte vorrei essere come loro, lì dentro, vorrei poter star bene con quel fumo e non aver bisogno di questa fottuta aria fresca!
lui: Già... ci siamo cascati come dei fessi da piccoli... E ora... e ora siamo fottuti, non smetteremo più...
l'altro: Dai, entriamo, è già tanto che siamo fuori. Pronto per l'apnea di fumo?
lui: No, ma vengo lo stesso. Solo... un altro tiro, un'altra boccata ancora. Ah... che bello... mi fa sentire davvero meglio!
l'altro: Fottuta aria! Fottuta aria! Non ne faremo mai a meno!
l'altro: Ah, anche tu qui fuori?
lui: Sì, sono dovuto uscire per un po' d'aria fresca, non resistivo più...
l'altro: Vabbé capita dai, ti capisco, è lo stesso per me.
lui: E' che... non riesco a smettere, ho cominciato da piccolo e... non riesco più a smettere...
l'altro: Brutto vizio, lo so, è lo stesso anche per me.
lui: A volte ad uscire fuori, in serate come queste in cui piove e fa freddo, mi domando perché per dell'aria fresca debba fare tanti sforzi, in fondo è solo dell'aria fresca, non potremmo averla anche all'interno?
l'altro: Eh... in altri paesi è così, ma cambieranno anche loro prima o poi...
lui: Già...
l'altro: O forse dovremmo smettere... Dovremmo iniziare a fumare anche noi...
lui: Tu ci riusciresti? Io non so se potrei smettere...
l'altro: Non è facile, è che oramai siamo troppo dipendenti... Fottuta aria! Ne siamo schiavi oramai!
lui: Già...
l'altro: Dai, entriamo.
lui: Aspetta, solo un altro tiro, un'altra boccata...
l'altro: Ti ricarica eh? Fottuta aria! Anche io non ne posso fare a meno e ogni sera nei pub è la stessa storia... Devo inventarmi una scusa, devo lasciare tutti e venire qui fuori a tirarne un po'! A volte... a volte vorrei essere come loro, lì dentro, vorrei poter star bene con quel fumo e non aver bisogno di questa fottuta aria fresca!
lui: Già... ci siamo cascati come dei fessi da piccoli... E ora... e ora siamo fottuti, non smetteremo più...
l'altro: Dai, entriamo, è già tanto che siamo fuori. Pronto per l'apnea di fumo?
lui: No, ma vengo lo stesso. Solo... un altro tiro, un'altra boccata ancora. Ah... che bello... mi fa sentire davvero meglio!
l'altro: Fottuta aria! Fottuta aria! Non ne faremo mai a meno!
Vuoi sapere di più sul Belgio?
Il regista Jerome de Gerlache ha realizzato un breve video che tenta di raccontare attraverso simpatiche animazioni la complessità del Belgio e la sua natura mista, spesso quasi surreale, come continuava a sottolineare la prof di francese al corso serale. Il testo nasce dalla mente dello scrittore belga Marcel Sel e proprio nell'intento di volerlo tradurre per poi riportarlo qui nel blog, son entrato in contatto con lui (perché solo ascoltando il video non riuscivo a carpire tre-quattro parole né i nomi dei politici nel finale ed altri dettagli minori). Con mia grande sorpresa Marcel Sel (che ringrazio nuovamente) mi risponde in italiano, felice di poter scrivere nella lingua del suo bisnonno: ed ecco il Belgio, ancora una volta, presentarsi nella sua veste di terra ricca di diversità (e quindi ricchezza).
Il video riassume i tratti fondamentali del paese attraverso le sue caratteristiche fondamentali: le lingue; utilizzando uno stile simpatico e spesso pungente (tanto da suscitare qualche polemica), l'autore cerca di trasmettere la complessità (e forse la confusione) legata al Belgio ed alla gestione amministrata, alla convivenza pacifica delle diverse comunità.
Per i più pigri e per coloro che magari non masticano bene l'inglese, ho tradotto di seguito l'audio del video, arricchito di riferimenti per eventuali approfondimenti:
"Il Belgio ha la reputazione di essere il paese più noioso del mondo, abitato soltanto da gente amichevole che mangia cozze con patatine fritte e maionese e produce cioccolato svizzero. Per farla breve, cosa necessaria se davvero si vuole capire perché la quarta più grande potenza del mondo potrebbe suddividersi in tanti piccoli insignificanti pezzi, il Belgio è davvero, totalmente, completamente noioso!
Noioso? Il Belgio?
In verità sembra evidente che non sia altro che un ingiusto pregiudizio. Il Belgio attualmente è uno dei paesi più strani del mondo. Per cominciare, sono gli unici ad avere un monumento alto 20 cm che ti fa la pipì di fronte, gli unici ad avere un primo ministro che, alla richiesta di cantare l'inno nazionale, erroneamente canta quello francese. Gli unici ad avere un solo monumento famoso fatto esclusivamente di... ehm... palle.
Durante 150 anni il Belgio ha prodotto i migliori esperi di ingegneria e la più inefficiente struttura politica. Il Belgio stesso fa qualsiasi cosa nella maniera più complicata possibile. Nelle 3 lingue nazionali: olandese, francese e tedesco. Hanno un governo centrale e tre regioni, ogni regione ha un governo con gli stessi poteri del governo centrale. Un'ottima idea per rendere totalmente impossibile la gestione del paese.
Fortunatamente solo la regione di Bruxelles nel centro è bilingue, in francese ed olandese. La regione fiamminga è monolingua, in olandese, anche se ci sono servizi amministrativi per francofoni qui, qui e qui ed anche qui e... oh sì, qui. I cittadini francofoni possono essere giudicati in francese nella così chiamata contea BHV dove una forte minoranza parla francese.
La Vallonia è un territorio francofono, beh ad eccezione di qui e qui ed anche qui, dove vive la minoranza tedesca. Quindi, per gestire queste numerose minoranze, i tecnologi (alla cicoria) belgi decisero che 3 regioni non era sufficienti ed aggiunsero altre 3 strutture, chiamate comunità. Ci sono 3 comunità: olandese, francese e tedesca. Come lo stato centrale e come le regioni, ogni comunità ha un governo ed un parlamento e, per esempio, la comunità francese fornisce servizi culturali e sociali a francofoni in Vallonia ed a Bruxelles, ma non può fornire nessun tipo di servizio ai 300.000 francofoni nelle Fiandre, perché le Fiandre sono monolingue e gli stranieri devono parlare olandese. Che Dio sia dannato! (in olandese, Godverdomme).
La comunità tedesca può agire soltanto in Vallonia, la regione francofona, mentre la comunità olandese può agire nella regione di Bruxelles o nelle Fiandre. Quindi, come potete vedere, una famiglia francofona a Bruxelles potrebbe dipendere dal governo centrale per la pensione del nonno, dal governo della comunità francofona per l'accademia di musica, dal governo della comunità olandese per le scuole elementari, dal governo della regione di Bruxelles per la gestione dell'immondizia e così via.
Così, nel complesso, può accadere che ministri di quattro distinti governi lavorino per una sola famiglia brussellese. Adesso potete capire perché i belgi non possono vivere insieme e non possono vivere separati!
I belgi sono sicuramente una meraviglia di tecnocrazia alla cicoria progettata per trasformare qualsiasi cosa semplice in qualcosa di catastroficamente complicato. E funziona! Il che vorrebbe dire che non funziona affatto! Beh, ad essere onesti c'è una cosa che unisce le differenti comunità di questo piccolo, strano ed indecente paese: tutti concordano sul fatto che il piatto nazionale sia chiamato french fries in inglese, French fries with mayonnaise, frieten met mayonnaise, frites à la mayonnaise, fritten mit mayonnaise.
Ah quasi dimenticato, il signor Van Cauwenberghe è un politico francese mentre il signor Bourgeois è un politico olandese."
Teenage dream
La scuola in Belgio è incominciata da qualche settimana, ma nel liceo vicino casa c'è ancora chi ha la testa altrove, sperando in "vacanze a vita". Foto scattata qui. |
Cosa succede in Europa?
In Olanda il partito della libertà di Wilders, spudoratamente intollerante verso gli immigrati, macina consensi in un paese dove la presenza di comunità musulmane raggiunge il 5.6%. In Belgio il partito nazionalista ha vinto le ultime elezioni e gioca un ruolo chiave nella lenta formazione del nuovo governo in un paese in cui le masse migratorie hanno già creato più di uno squilibrio e la società spesso reagisce in modo abbastanza simile alla nostra Lega, basti pensare al recentissimo caso di discriminazione nella scuola di Lokeren in cui si son divisi gli studenti belgi da quelli stranieri, in qualcosa già etichettata come nuova apartheid. In Svezia il partito nazionalista del giovane Akesson è entrato per la prima volta a far parte del governo e basta guardare uno degli spot elettorali per capire gli umori che ne hanno sostenuto l'ascesa: il capitale statale destinato al welfare diminuisce senza sosta mentre lo sportello dedicato alle pensioni e quello dedicato agli immigrati ne contano le spese fin quando rimane un ultimo budget ed ecco una signora anziana svedese camminare lenta per ottenerlo mentre donne musulmane (in burqa) corrono veloci per assicurarsi gli aiuti. In Finlandia, Danimarca, Ungheria e Romania partiti nazionalisti acquistano potere forti di propagande populiste, anticipando quello che altrove è già una realtà governativa. In Italia la destra maggioritaria è da anni costretta ad allearsi con la Lega per mantenere una stabilità governante e basta ascoltare qualche comizio di Bossi, Borghezio e Maroni per riassumere le volontà razziste e xenofobe del partito. Cosa succede in Europa?
Le parti politiche incamerano da sempre umori della gente che esprime la propria approvazione attraverso il voto ma che si lascia soprattutto ammaliare da propagande e parole quando si gioca con paure, incertezze e statistiche spesso abilmente pubblicizzate. Così flussi migratori vengono facilmente associati ad aumenti di criminalità, disoccupazione, degrado sociale, riassumibili nel timore del diverso, dello straniero, a maggior ragione quando sono tante le caratteristiche differenti, come la religione, l'apparenza, il colore della pelle. E se magari non è esattamente una fotografia della realtà ma giochi propagandistici di pochi per raccogliere consensi e ottenere maggior potere, è sicuramente una fotografia delle paure della gente, del bisogno di stabilità che mal si accosta alla venuta di grosse comunità straniere (specialmente quando i media hanno reso comuni associazioni tanto banali quanto imbarazzanti come quelle con il terrorismo).
Quello che certamente non si può negare è la presenza di un cambiamento, in grossa scala, della società europea. Le ondate migratorie possono sicuramente cambiare gli equilibri interni di un paese (o di un continente) ma la bravura di un governo dovrebbe essere nel trovare nuovi equilibri, nell'adattarsi ai cambiamenti aggiornando il sistema e gli approcci e non nell'opporsi a tutti i costi cercando di mantenere le logiche preesistenti congelandosi nel tempo e rifiutando mutamenti sociali che inevitabilmente dovranno affrontare ad ogni modo nel futuro prossimo. Chiudere gli occhi di fronte alla realtà e cercare di isolarsi o quanto meno rifiutare le evoluzioni del proprio paese andrebbe contro una delle proprietà basiche della natura: la dinamicità. E se quel bisogno di stabilità diviene la forza di questi nuovi movimenti politici, le conseguenza non sembrano affatto felici, perché rifiuto e proibizionismo, discriminazione e isolamento non aiutano certamente il cambiamento, non favoriscono la integrazione degli ultimi arrivati e fomentano quegli umori in molti assopiti (ma di facile risveglio) d'odio e razzismo, scacciando uno dei principali elementi nella crescita e nel miglioramento di una società: la diversità.
Insomma, l'Europa sta cambiando ed è qualcosa di storicamente normale. Vogliamo chiuderci, preservare la nostra razza e proteggerci da contaminazioni e cambiamenti, erigere mura intorno ai nostri confini e pretendere che chiunque entri si adatti di colpo, indiscutibilmente, fin a cambiare il colore dei capelli? Non sarebbe meglio prender coscienza del cambiamento, favorire l'integrazione ma contemporaneamente adattarci anche noi (e non soltanto pretendere), senza degenerare in sentimenti razzismi e xenofobi? Ci vorrà tempo, sicuramente, e magari non sarà qualcosa di semplice ma insieme si può. Accusare, gridare ed odiare è davvero facile e inconcludente, sappiamo fare di meglio.
Le parti politiche incamerano da sempre umori della gente che esprime la propria approvazione attraverso il voto ma che si lascia soprattutto ammaliare da propagande e parole quando si gioca con paure, incertezze e statistiche spesso abilmente pubblicizzate. Così flussi migratori vengono facilmente associati ad aumenti di criminalità, disoccupazione, degrado sociale, riassumibili nel timore del diverso, dello straniero, a maggior ragione quando sono tante le caratteristiche differenti, come la religione, l'apparenza, il colore della pelle. E se magari non è esattamente una fotografia della realtà ma giochi propagandistici di pochi per raccogliere consensi e ottenere maggior potere, è sicuramente una fotografia delle paure della gente, del bisogno di stabilità che mal si accosta alla venuta di grosse comunità straniere (specialmente quando i media hanno reso comuni associazioni tanto banali quanto imbarazzanti come quelle con il terrorismo).
Quello che certamente non si può negare è la presenza di un cambiamento, in grossa scala, della società europea. Le ondate migratorie possono sicuramente cambiare gli equilibri interni di un paese (o di un continente) ma la bravura di un governo dovrebbe essere nel trovare nuovi equilibri, nell'adattarsi ai cambiamenti aggiornando il sistema e gli approcci e non nell'opporsi a tutti i costi cercando di mantenere le logiche preesistenti congelandosi nel tempo e rifiutando mutamenti sociali che inevitabilmente dovranno affrontare ad ogni modo nel futuro prossimo. Chiudere gli occhi di fronte alla realtà e cercare di isolarsi o quanto meno rifiutare le evoluzioni del proprio paese andrebbe contro una delle proprietà basiche della natura: la dinamicità. E se quel bisogno di stabilità diviene la forza di questi nuovi movimenti politici, le conseguenza non sembrano affatto felici, perché rifiuto e proibizionismo, discriminazione e isolamento non aiutano certamente il cambiamento, non favoriscono la integrazione degli ultimi arrivati e fomentano quegli umori in molti assopiti (ma di facile risveglio) d'odio e razzismo, scacciando uno dei principali elementi nella crescita e nel miglioramento di una società: la diversità.
Insomma, l'Europa sta cambiando ed è qualcosa di storicamente normale. Vogliamo chiuderci, preservare la nostra razza e proteggerci da contaminazioni e cambiamenti, erigere mura intorno ai nostri confini e pretendere che chiunque entri si adatti di colpo, indiscutibilmente, fin a cambiare il colore dei capelli? Non sarebbe meglio prender coscienza del cambiamento, favorire l'integrazione ma contemporaneamente adattarci anche noi (e non soltanto pretendere), senza degenerare in sentimenti razzismi e xenofobi? Ci vorrà tempo, sicuramente, e magari non sarà qualcosa di semplice ma insieme si può. Accusare, gridare ed odiare è davvero facile e inconcludente, sappiamo fare di meglio.
Da dove vieni? Non ci importa
Tempo fa il capo del dipartimento sviluppo organizzò un incontro tra due team (tra cui il mio) mai incontratosi prima, al fine di conoscere i diversi progetti, soluzioni adottate, tecnologie utilizzate ed altro zucchero sintattico. Prima di entrare nella sala riunioni ci richiamò in un angolo dicendosi:
"Mi raccomando, massima professionalità e... una cosa importante, quando vi presenterete uno ad uno - puntando con il dito a qualcuno di noi - all'altro gruppo, evitate di dire da dove venite, è un'informazione inutile, dite il vostro nome, il vostro cognome, il vostro ruolo nel team, magari da quanto tempo ci lavorate... ma evitate di dire la vostra nazionalità, è un'informazione inutile... siamo qui come esperti informatici, la vostra provenienza è irrilevante".
E mentre qualcuno dei miei colleghi lanciava sguardi e smorfie strane, come a non comprendere il monito o cercare la medesima espressione negli occhi degli altri, a me quelle parole sembrarono subito bellissime, veritiere e d'una semplicità imbarazzante, perché seppure la nazionalità sarebbe stata palese a guardare i lineamenti del collega cinese o alla prima parola in inglese degli accenti italiani e francesi difficili da camuffare, manifestare la propria nazionalità in un contesto del genere (e probabilmente in tanti altri contesti) sarebbe stato davvero qualcosa tipo i cavoli a merenda; e non tanto per facili stereotipi o possibili stupide rivalità nazionali, quanto per l'informazione aggiunta: nessuna.
Insomma davvero una bella lezione. Così all'inizio della riunione sarà stato strano per alcuni, ma al momento delle presentazioni ognuno recitò quella filastrocca meccanica senza riferirsi alla propria nazionalità: Salve, mi chiamo Ciccio Pasticcio, sono Software Engineering, mi occupo del design del Tostapane da circa 57 anni, sono responsabile della componente BricioleDiPaneCleaner. Poi al termine delle tre o quattro ore di chiacchiere e requisiti non funzionali, la seduta si sciolse e ognuno si rilassò a suo modo. Neanche il tempo di riprendere la giacca dalla sedia che già si sentirono ad eco le prime due frasi in ogni gruppo di ragazzi:
"Bel meeting, eh. Scusa.. non ricordo il tuo nome, com'è che ti chiami?"
"Ah, piacere. E da dove vieni?"
"Mi raccomando, massima professionalità e... una cosa importante, quando vi presenterete uno ad uno - puntando con il dito a qualcuno di noi - all'altro gruppo, evitate di dire da dove venite, è un'informazione inutile, dite il vostro nome, il vostro cognome, il vostro ruolo nel team, magari da quanto tempo ci lavorate... ma evitate di dire la vostra nazionalità, è un'informazione inutile... siamo qui come esperti informatici, la vostra provenienza è irrilevante".
E mentre qualcuno dei miei colleghi lanciava sguardi e smorfie strane, come a non comprendere il monito o cercare la medesima espressione negli occhi degli altri, a me quelle parole sembrarono subito bellissime, veritiere e d'una semplicità imbarazzante, perché seppure la nazionalità sarebbe stata palese a guardare i lineamenti del collega cinese o alla prima parola in inglese degli accenti italiani e francesi difficili da camuffare, manifestare la propria nazionalità in un contesto del genere (e probabilmente in tanti altri contesti) sarebbe stato davvero qualcosa tipo i cavoli a merenda; e non tanto per facili stereotipi o possibili stupide rivalità nazionali, quanto per l'informazione aggiunta: nessuna.
Insomma davvero una bella lezione. Così all'inizio della riunione sarà stato strano per alcuni, ma al momento delle presentazioni ognuno recitò quella filastrocca meccanica senza riferirsi alla propria nazionalità: Salve, mi chiamo Ciccio Pasticcio, sono Software Engineering, mi occupo del design del Tostapane da circa 57 anni, sono responsabile della componente BricioleDiPaneCleaner. Poi al termine delle tre o quattro ore di chiacchiere e requisiti non funzionali, la seduta si sciolse e ognuno si rilassò a suo modo. Neanche il tempo di riprendere la giacca dalla sedia che già si sentirono ad eco le prime due frasi in ogni gruppo di ragazzi:
"Bel meeting, eh. Scusa.. non ricordo il tuo nome, com'è che ti chiami?"
"Ah, piacere. E da dove vieni?"
Quella libertà di pensare negata (e assassinata)
Un dottorando si suicida a 27 anni, appena prima della soglia. E non so quanti dubbi spinosi, quante incertezze amare, quante domande insolute su un futuro ignoto che non si riesce ad affrontare con le dovute convinzioni, quanti punti interrogativi che sicuramente rimbombano tra le pareti celebrali fino a distorcere la percezione della quiete e tramutarsi in notti insonni, sudate, dannate; non so davvero se lo Stato, quello non più di diritto, quello che manifesta casta e corruzione, quello che ignora, che non aiuta, quello della propaganda della non crisi e degli esempi palesi di degrado morale e civile, non so se si possa trascinare sul banco degli imputati ma so per certo che non era lì, quando i finanziamenti alla ricerca mancavano, quando l'università veniva lasciata in mano a dinosauri e a logiche interne di selezione e premio, quando la televisione diffondeva notizie farlocche e statistiche camuffate mentre la realtà gridava isterica all'inquietudine, appena prima della soglia, mentre un ragazzo di 27 anni veniva inghiottito dalla depressione, nonostante il suo 110 e lode, nonostante i suoi 3 anni di dottorato senza alcuna borsa di studio, nonostante i suoi sforzi al circolo nautico per quei 25 euro al giorno, appena prima di finire, prima di dicembre e l'ultimo esame, prima del traguardo e poi la paura fottuta di rimanere senza lavoro, con le speranze universitarie già troncate magari da nepotismo e patti di potere, con quegli studi in filosofia della conoscenza e della comunicazione in un'Italia che appariva lontana, piccola, freddissima, anche a Palermo.
Quegli sforzi, quell'impegno, quei risultati magari altrove sarebbero stati premiati, generando soddisfazione e rispetto personale, evitando il sipario drammatico di chi addirittura non vede alternativa se la propria libertà di pensare deve arrendersi di fronte all'immobilità delle cose, in un paese che fallisce inevitabilmente, quando i giovani sono privati persino di un proprio futuro, quando le speranze delle nuove generazioni non riescono a volare e cadono, anche in un tonfo fatale.
Quegli sforzi, quell'impegno, quei risultati magari altrove sarebbero stati premiati, generando soddisfazione e rispetto personale, evitando il sipario drammatico di chi addirittura non vede alternativa se la propria libertà di pensare deve arrendersi di fronte all'immobilità delle cose, in un paese che fallisce inevitabilmente, quando i giovani sono privati persino di un proprio futuro, quando le speranze delle nuove generazioni non riescono a volare e cadono, anche in un tonfo fatale.
Quando gli immigrati italiani dormivano in letti sempre caldi
"Nonno, quanto tempo hai vissuto in Germania?" - Domando a mio nonno materno, qualche settimana fa in vacanza in Italia, durante l'immancabile visita con pranzo-maratona (dove mangiare è un piacere soltanto ai primi piatti, dopo è quasi un tentativo di omicidio, ma fatto con amore).
"39 anni e un mese." - Mi risponde con voce rauca ma precisa, con un numero che mi avrà già detto tante volte da piccolo ma la memoria a quei tempi dimenticava facilmente le storielle del nonno, quelle ripetute anche cento volte, mai abbastanza.
"39 anni?".
"E un mese" - mi ripete, come se quell'ultimo mese fosse stato tanto importante da meritarsi una memoria così dettagliata. E magari lo è stato.
"39 anni... e dopo tutto questo tempo come mai non siete rimasti in Germania? Come mai siete tornati in Italia?"
Il nonno mi fissa per un attimo, come se le sue memorie fossero scritte sulla mia faccia e allora in uno sguardo concentrato c'è bisogno di leggerle o almeno di ripetersele tra i miei lineamenti crucciati e lo sguardo curioso.
"Non volevo più rimanere in Germania, volevo vivere la pensione qui, nella mia terra. Eppoi.. la Germania mi ha deluso, i tedeschi mi hanno deluso, ci trattavano male, ci sfruttavano... non mi andava più di vivere lì".
"E invece saremmo dovuti rimanere lì!" Interrompe dall'altra stanza la nonna, con la sua voce acuta e tagliente di chi ascolta da lontano e non può trattenersi da un commento secco e sicuramente già ripetuto.
"In che senso?" Mi rivolgo di nuovo al nonno, curioso di riascoltare storie magari già note ma adesso, con gli occhi di un emigrante, per immedesimarmi o soltanto cercare di capire, confrontare, rivivere altri tempi attraverso chi all'improvviso sembra più vicino nonostante le distanze.
"Emigrare 50 anni fa non era certo come oggi. Prima si emigrava senza neanche conoscere la lingua, gli italiani andavano dove avevano già un parente o un amico o un amico di un amico... o si partiva davvero all'avventura, per sentito dire, per mandare soldi a casa, perché qui non si trovava lavoro e c'era tanto bisogno di soldi.. all'estero si finiva in ghetti, vivendo in comunità a parte. E c'era ignoranza, tanta. E i tedeschi sfruttavano questa ignoranza".
"39 anni e un mese." - Mi risponde con voce rauca ma precisa, con un numero che mi avrà già detto tante volte da piccolo ma la memoria a quei tempi dimenticava facilmente le storielle del nonno, quelle ripetute anche cento volte, mai abbastanza.
"39 anni?".
"E un mese" - mi ripete, come se quell'ultimo mese fosse stato tanto importante da meritarsi una memoria così dettagliata. E magari lo è stato.
"39 anni... e dopo tutto questo tempo come mai non siete rimasti in Germania? Come mai siete tornati in Italia?"
Il nonno mi fissa per un attimo, come se le sue memorie fossero scritte sulla mia faccia e allora in uno sguardo concentrato c'è bisogno di leggerle o almeno di ripetersele tra i miei lineamenti crucciati e lo sguardo curioso.
"Non volevo più rimanere in Germania, volevo vivere la pensione qui, nella mia terra. Eppoi.. la Germania mi ha deluso, i tedeschi mi hanno deluso, ci trattavano male, ci sfruttavano... non mi andava più di vivere lì".
"E invece saremmo dovuti rimanere lì!" Interrompe dall'altra stanza la nonna, con la sua voce acuta e tagliente di chi ascolta da lontano e non può trattenersi da un commento secco e sicuramente già ripetuto.
"In che senso?" Mi rivolgo di nuovo al nonno, curioso di riascoltare storie magari già note ma adesso, con gli occhi di un emigrante, per immedesimarmi o soltanto cercare di capire, confrontare, rivivere altri tempi attraverso chi all'improvviso sembra più vicino nonostante le distanze.
"Emigrare 50 anni fa non era certo come oggi. Prima si emigrava senza neanche conoscere la lingua, gli italiani andavano dove avevano già un parente o un amico o un amico di un amico... o si partiva davvero all'avventura, per sentito dire, per mandare soldi a casa, perché qui non si trovava lavoro e c'era tanto bisogno di soldi.. all'estero si finiva in ghetti, vivendo in comunità a parte. E c'era ignoranza, tanta. E i tedeschi sfruttavano questa ignoranza".
"In che senso?"
"In che senso? Io lavoravo al Patronato Enasco ed ero lì proprio per aiutare gli emigrati italiani in Germania. Quante storie ho ascoltato... La più comune era di italiani che non potevano avere la pensione pur avendo lavorato lì per anni, perché gli avevano dato contratti di apprendistato, ma loro non lo sapevano! Bastava un prefisso in più appena prima della parola lavoro, gli italiani che appena parlavano un po' di tedesco.. figurati a leggerlo.. firmavano nella fretta di lavorare, di prendere qualche soldo..".
Poi il nonno si ferma, chissà quante memorie avrò riportato alla mente con una semplice domanda, chissà quante immagini di colpo riaffiorano davanti gli occhi come lucciole frenetiche, ognuna con la sua luce intermittente, con il suo ricordo illuminato.
Poi il nonno si ferma, chissà quante memorie avrò riportato alla mente con una semplice domanda, chissà quante immagini di colpo riaffiorano davanti gli occhi come lucciole frenetiche, ognuna con la sua luce intermittente, con il suo ricordo illuminato.
"Nonno, e come vivevano gli emigrati italiani all'epoca?"
"Come? Come bestie. Si potevano affittare soltanto mansarde e cantine, che poi erano uno schifo... spesso si affittava soltanto il letto, mica un appartamento? Ed il letto era sempre caldo".
"Caldo? Cioè?"
"Il letto si affittava per 6, per 8 ore, qualcuno si svegliava e un altro arrivava per dormire. E il letto rimaneva sempre caldo. C'era tanta povertà e non tutti si potevano permettere una stanza. E allora i locali affittavano anche solo i letti.. si dormiva con i topi che correvano per il pavimento.. uno schifo.. uno schifo.. ".
"E ce n'erano tanti di italiani nel sud della Germania a quei tempi?"
"Tantissimi, ma erano introvabili!"
"Cioè?"
"Non te l'ho mai raccontato? Il console venne nel nostro ufficio che voleva organizzare una festa, una grande festa per tutti gli italiani della zona, una festa per mangiare e bere gratis eh, mica a pagamento.. ma non riusciva a rintracciarli e noi sapevamo perché. Magari ne rintracciava cento, ma d'italiani ce n'erano mille, migliaia, di sicuro".
"E perché non si trovavano?"
"Perché all'epoca per qualche soldo in più si cambiava subito lavoro, ci si spostava da una parte all'altra, mica era un problema come oggi un trasloco! Una cosa veloce. E il problema era che gli italiani non aggiornavano l'indirizzo di residenza. Si era registrati magari lì, poi si spostavano e.. niente, senza aggiornare, magari non lo sapevano nemmeno, magari se ne fregavano, figurati, a quei tempi ci si preoccupava d'altre cose.. Così quando un ufficio cercava di rintracciarli, le lettere non arrivavano mai al destinatario."
Si ferma di nuovo, ma si vede che gli piace raccontarmi la storia, gli piace vedere il nipote interessato ed attento alle sue parole, da vecchio emigrante rimpatriato a nuovo emigrante in cerca di equilibri.
"Ma poi l'abbiamo fatta, la festa.. - continua - andai da quelli della nettezza urbana e domandai in quali giorni della settimana raccoglievano l'immondizia in certe zone della città. Martedì mattina mi dissero. Bene. Andai a farmi una camminata il lunedì sera e iniziai ad aprire qualche cassonetto dell'immondizia. Non appena trovavo salsa di pomodori, spaghetti o qualsiasi altra cosa di cucina italiana, ecco! Sapevo che in quel palazzo c'erano italiani. La mattina seguente tornavo lì e sapevo già dove bussare: alla mansarda o alla cantina, gli italiani non potevano permettersi nessun altro posto, sapevo di non sbagliarmi!"
"E poi siete riusciti a fare quella festa?"
"Sì, sì, quanta gente.. quanta gente venne.. Quando seppero che si mangiava e beveva gratis.. Bastò avvisare qualche famiglia e poi il passaparola andò veloce. E il console mi fece i complimenti."
"Nonno, se la prossima volta mi fermo qui per qualche giorno, ti va di raccontarmi tutto? Voglio sapere tutto, lo registriamo.. la vita di emigrante di 50 anni fa, come si viveva, il lavoro, gli sforzi, tutto, visto con gli occhi di mio nonno." E al nonno scappa una lacrima, 40 anni di lavoro per aiutare gli immigrati italiani in Germania, nominato Cavaliere Ufficiale della Repubblica, è un pezzo di storia da raccontare, così come l'altro nonno, che di anni all'estero ne ha vissuto 20, forse meno felicemente. Storie di nonni che al nipote adolescente passavano come noiose e inconcludenti, ma che ora appaiono come le pagine di un libro da divorare e adesso è tempo di ascoltare, prima che sia troppo tardi.
"E ce n'erano tanti di italiani nel sud della Germania a quei tempi?"
"Tantissimi, ma erano introvabili!"
"Cioè?"
"Non te l'ho mai raccontato? Il console venne nel nostro ufficio che voleva organizzare una festa, una grande festa per tutti gli italiani della zona, una festa per mangiare e bere gratis eh, mica a pagamento.. ma non riusciva a rintracciarli e noi sapevamo perché. Magari ne rintracciava cento, ma d'italiani ce n'erano mille, migliaia, di sicuro".
"E perché non si trovavano?"
"Perché all'epoca per qualche soldo in più si cambiava subito lavoro, ci si spostava da una parte all'altra, mica era un problema come oggi un trasloco! Una cosa veloce. E il problema era che gli italiani non aggiornavano l'indirizzo di residenza. Si era registrati magari lì, poi si spostavano e.. niente, senza aggiornare, magari non lo sapevano nemmeno, magari se ne fregavano, figurati, a quei tempi ci si preoccupava d'altre cose.. Così quando un ufficio cercava di rintracciarli, le lettere non arrivavano mai al destinatario."
Si ferma di nuovo, ma si vede che gli piace raccontarmi la storia, gli piace vedere il nipote interessato ed attento alle sue parole, da vecchio emigrante rimpatriato a nuovo emigrante in cerca di equilibri.
"Ma poi l'abbiamo fatta, la festa.. - continua - andai da quelli della nettezza urbana e domandai in quali giorni della settimana raccoglievano l'immondizia in certe zone della città. Martedì mattina mi dissero. Bene. Andai a farmi una camminata il lunedì sera e iniziai ad aprire qualche cassonetto dell'immondizia. Non appena trovavo salsa di pomodori, spaghetti o qualsiasi altra cosa di cucina italiana, ecco! Sapevo che in quel palazzo c'erano italiani. La mattina seguente tornavo lì e sapevo già dove bussare: alla mansarda o alla cantina, gli italiani non potevano permettersi nessun altro posto, sapevo di non sbagliarmi!"
"E poi siete riusciti a fare quella festa?"
"Sì, sì, quanta gente.. quanta gente venne.. Quando seppero che si mangiava e beveva gratis.. Bastò avvisare qualche famiglia e poi il passaparola andò veloce. E il console mi fece i complimenti."
"Nonno, se la prossima volta mi fermo qui per qualche giorno, ti va di raccontarmi tutto? Voglio sapere tutto, lo registriamo.. la vita di emigrante di 50 anni fa, come si viveva, il lavoro, gli sforzi, tutto, visto con gli occhi di mio nonno." E al nonno scappa una lacrima, 40 anni di lavoro per aiutare gli immigrati italiani in Germania, nominato Cavaliere Ufficiale della Repubblica, è un pezzo di storia da raccontare, così come l'altro nonno, che di anni all'estero ne ha vissuto 20, forse meno felicemente. Storie di nonni che al nipote adolescente passavano come noiose e inconcludenti, ma che ora appaiono come le pagine di un libro da divorare e adesso è tempo di ascoltare, prima che sia troppo tardi.
Ready for new adventures
I fumetti in Belgio sembrano davvero una passione nazionale, basti pensare alle numerose botteghe a tema e a quanti edifici sian ricoperti da personaggi giganteschi qui a Bruxelles. Uno dei più famosi è senza dubbio il belga Tintin e la domanda più gettonata riguarda il colore dei suoi capelli: Tintin è rosso o biondo? Foto scattata qui. |
Caro Zlatan
Caro Zlatan,
Sarà strano vederti con la maglia del Milan quest'anno ma tanto oramai il calcio è mercenario e i soldi sono la sola cosa che conta. Tu però sei falso più dei soldi ed per ogni squadra hai sempre una frase ad effetto, così per l'Inter era la squadra che tifavi da bambino, il Barcellona era la sola squadra che volevi ardentemente e adesso il Milan ha la maglia più bella: quante cose che ti fanno dire i soldi, eh?
E non dovrei neanche parlare di calcio, che tanto alla fine è un business mascherato da sport, è una droga che ammalia le masse e richiama al senso nazionale ogni due anni dimenticando ogni altro problema, tanto che il tifoso della Juve non ammetterà mai che gli scudetti erano rubati magistralmente così come il tifoso dell'Inter non parlerà mai delle raffinerie della Saras che in Sardegna distruggono il territorio e seminano morte. A quel punto non sono meglio i soldi di chi sforna il film-panettone ogni Natale? Lo so, certi film non li vedrei neanche con il cannocchiale, ma in fondo sono innocui.
E il Milan? Dai non fare il tonto, lo sai che non ti hanno comprato perché volevano te, lo sai benissimo che hanno comprato te e l'altro mercenario brasiliano perché al presidente serviranno a breve voti ed il suo consenso passa anche per la squadra di calcio che possiede, per quel record improvviso di abbonamenti, così come quella frase della conferenza stampa, hai detto "mi ha convinto Berlusconi", te l'hanno dettata, è chiaro. Non è vero? Dubito, ma se non fosse così siamo sempre lì, quel conflitto d'interessi che in un paese normale non dovrebbe esistere. Però a me lo puoi dire, che ti hanno convinto i soldi, saresti meno ipocrita e non ti piegheresti alla propaganda più disgustosa e servile, perché se amassi davvero il calcio non dovresti approvare certe cose. Ah già, ma al Barcellona non era poi tanto diverso, sei andato nella squadra di chi usa lo sport per pura propaganda indipendentista, di chi fa di una vittoria a Madrid addirittura un golpe. Eppure sei svedese, dovresti insegnarci qualcosa sul senso civico e su come le cose dovrebbero funzionare, ma ora che ricordo... anche con la tua nazionale hai fatto i capricci di chi non aveva tempo, poi ritorna, poi lascia e poi ci ripensa.
Lo so, lo so, tutte queste chiacchiere a te non interessano, bastano i soldi. E i goal. Ah, a proposito, volevo però chiederti una cortesia, al primo goal di quest'anno potresti non alzare la maglia mostrando sotto la faccia di Silvio? No, perché c'ho lo stomaco sensibile, non si sa mai, eppoi tu per soldi faresti questo ed altro.
Grazie, grazie ancora per essere andato via e aver portato la coppa dalle grandi orecchie a Milano che a mio padre (e pure a me) quasi gli prendeva un infarto.
Sarà strano vederti con la maglia del Milan quest'anno ma tanto oramai il calcio è mercenario e i soldi sono la sola cosa che conta. Tu però sei falso più dei soldi ed per ogni squadra hai sempre una frase ad effetto, così per l'Inter era la squadra che tifavi da bambino, il Barcellona era la sola squadra che volevi ardentemente e adesso il Milan ha la maglia più bella: quante cose che ti fanno dire i soldi, eh?
E non dovrei neanche parlare di calcio, che tanto alla fine è un business mascherato da sport, è una droga che ammalia le masse e richiama al senso nazionale ogni due anni dimenticando ogni altro problema, tanto che il tifoso della Juve non ammetterà mai che gli scudetti erano rubati magistralmente così come il tifoso dell'Inter non parlerà mai delle raffinerie della Saras che in Sardegna distruggono il territorio e seminano morte. A quel punto non sono meglio i soldi di chi sforna il film-panettone ogni Natale? Lo so, certi film non li vedrei neanche con il cannocchiale, ma in fondo sono innocui.
E il Milan? Dai non fare il tonto, lo sai che non ti hanno comprato perché volevano te, lo sai benissimo che hanno comprato te e l'altro mercenario brasiliano perché al presidente serviranno a breve voti ed il suo consenso passa anche per la squadra di calcio che possiede, per quel record improvviso di abbonamenti, così come quella frase della conferenza stampa, hai detto "mi ha convinto Berlusconi", te l'hanno dettata, è chiaro. Non è vero? Dubito, ma se non fosse così siamo sempre lì, quel conflitto d'interessi che in un paese normale non dovrebbe esistere. Però a me lo puoi dire, che ti hanno convinto i soldi, saresti meno ipocrita e non ti piegheresti alla propaganda più disgustosa e servile, perché se amassi davvero il calcio non dovresti approvare certe cose. Ah già, ma al Barcellona non era poi tanto diverso, sei andato nella squadra di chi usa lo sport per pura propaganda indipendentista, di chi fa di una vittoria a Madrid addirittura un golpe. Eppure sei svedese, dovresti insegnarci qualcosa sul senso civico e su come le cose dovrebbero funzionare, ma ora che ricordo... anche con la tua nazionale hai fatto i capricci di chi non aveva tempo, poi ritorna, poi lascia e poi ci ripensa.
Lo so, lo so, tutte queste chiacchiere a te non interessano, bastano i soldi. E i goal. Ah, a proposito, volevo però chiederti una cortesia, al primo goal di quest'anno potresti non alzare la maglia mostrando sotto la faccia di Silvio? No, perché c'ho lo stomaco sensibile, non si sa mai, eppoi tu per soldi faresti questo ed altro.
Grazie, grazie ancora per essere andato via e aver portato la coppa dalle grandi orecchie a Milano che a mio padre (e pure a me) quasi gli prendeva un infarto.
Ciao,
Un appassionato di calcio che si appassiona sempre meno
Un appassionato di calcio che si appassiona sempre meno
Tutti gli assassini di Angelo Vassallo
Dopo aver sparato i 9 proiettili mortali che hanno lasciato senza vita il sindaco Angelo Vassallo, riempiendo di sangue i sedili di quell'Audi in una sera di fine estate, i sicari avranno lasciato la scena del delitto rapidamente e percorso tratti di quella terra meravigliosa, di quel Cilento lontano in cui son cresciuto, che pochi attimi prima avevano colpito irrimediabilmente, attraverso il corpo di chi cercava di salvaguardarne qualche frammento, migliorarlo, assassinando un padre di famiglia, un lavoratore dedito alla collettività, un ideale di cambiamento. E se altrove quel senso civico sarebbe da considerare normalità, verrebbe magari visto come ovvio adempimento della carica coperta, in Campania è un'eccezione, un caso raro, qualcosa da estirpare prima che contagi, che metta radici e come l'edera cresca e colori le mura antiche ma solide dell'omertà e dell'individualismo, degli interessi personali e dello sfruttamento.
C'è una terra bellissima lì nel sud Italia, fatta di coste verdi e rigogliose, di mari chiari e spiagge estese, montagne popolose e segreti da scoprire. Eppoi ci sono i segni dell'uomo, quelli dell'uso indiscriminato, di cemento e colori morti, di corruzione e benesseri personali, disorganizzazione e servizi mal gestiti, di un'autostrada che passa lì vicino ma suona di cantieri e tangenti e traffico bloccato, d'illegalità che mal si sposa col paesaggio ma ne fa oramai parte fino a diventarne elemento intrinseco. E ci sono anche i tricolori alle finestre, come se l'amore per il proprio paese, per la propria terra fosse così semplice e banale come stendere un velo al sole e lasciare che la facciata della casa abbia quelle pennellate di rosso e verde, quel simbolo di appartenenza; poco importa se poi nel quotidiano la maggioranza non lo ami, non rispetti quell'intorno perché per adattamento o educazione, per abitudine o compromesso, ci sia bisogno di un amico per un posto di lavoro o del carrozziere in nero per riparare l'auto, bisogni chiamare il parente per il posto al municipio o costruire parte della casa senza i permessi necessari, si metta uno straniero alla guida per non perdere i punti alla patente o farsi amico l'infermiere per le visite fuori orario; e così piano piano, oggi questo domani quello, chiama lui, fallo così, chiudi un occhio, non ci pensare, così risparmi, vai tranquillo, lo fanno tutti, non fare il fesso, ecco che la terra si colora di disonestà, di quella sottile, di quella innocua, che non arriverà mai a sparare 9 colpi di proiettile ma cova, di generazione in generazione, d'abitudini e consigli, cova quella mentalità, quell'approccio egoisticamente fatale, quel senso civico ignorato o mal interpretato nel benessere familiare o nei sorrisi degli amici, quella stessa mentalità che dimenticherà presto il nome di Angelo Vassallo, magari suggerirà al successore di stare attento, di non mettersi nei guai, alimentando in questo modo il potere di pochi, di chi fa di quella mentalità la propria ricchezza e la propria difesa, propria linfa e sicurezza, fino ad arrivare al punto d'ammazzare chi la possa minacciare, chi provi a cambiare, a migliorare.
E allora quella terra bellissima, lì nel sud Italia, nella Campania lontana dai telegiornali se non nei titoli di arresti di propaganda del governo del fare, quella terra diviene maledetta, inguaribile, malata di un cancro genetico. Non si merita tutto ciò e non se lo meritano neanche i tanti Angelo Vassallo che ogni giorno rimangono in fila alla posta o conservano un fazzoletto usato fino al prossimo cestino, battono tutti gli scontrini o preferiscono non chiamare l'amico dell'amico e dicono NO, no alla corruzione quotidiana rispettando e amando la propria terra, no al compromesso, all'abitudine più comoda ma illegale; e un no meno comune, meno leggero probabilmente avrà ucciso il sindaco di Pollica in una sera di settembre, marcando a fondo le differenze, intimidendo i prossimi ideali, allargando una lista giù lunga di nomi già dimenticati, ma non bastano purtroppo martiri ed eroi moderni così come non basterà imprigionare sicari e mandanti: sono tanti, sono troppi.
C'è una terra bellissima lì nel sud Italia, fatta di coste verdi e rigogliose, di mari chiari e spiagge estese, montagne popolose e segreti da scoprire. Eppoi ci sono i segni dell'uomo, quelli dell'uso indiscriminato, di cemento e colori morti, di corruzione e benesseri personali, disorganizzazione e servizi mal gestiti, di un'autostrada che passa lì vicino ma suona di cantieri e tangenti e traffico bloccato, d'illegalità che mal si sposa col paesaggio ma ne fa oramai parte fino a diventarne elemento intrinseco. E ci sono anche i tricolori alle finestre, come se l'amore per il proprio paese, per la propria terra fosse così semplice e banale come stendere un velo al sole e lasciare che la facciata della casa abbia quelle pennellate di rosso e verde, quel simbolo di appartenenza; poco importa se poi nel quotidiano la maggioranza non lo ami, non rispetti quell'intorno perché per adattamento o educazione, per abitudine o compromesso, ci sia bisogno di un amico per un posto di lavoro o del carrozziere in nero per riparare l'auto, bisogni chiamare il parente per il posto al municipio o costruire parte della casa senza i permessi necessari, si metta uno straniero alla guida per non perdere i punti alla patente o farsi amico l'infermiere per le visite fuori orario; e così piano piano, oggi questo domani quello, chiama lui, fallo così, chiudi un occhio, non ci pensare, così risparmi, vai tranquillo, lo fanno tutti, non fare il fesso, ecco che la terra si colora di disonestà, di quella sottile, di quella innocua, che non arriverà mai a sparare 9 colpi di proiettile ma cova, di generazione in generazione, d'abitudini e consigli, cova quella mentalità, quell'approccio egoisticamente fatale, quel senso civico ignorato o mal interpretato nel benessere familiare o nei sorrisi degli amici, quella stessa mentalità che dimenticherà presto il nome di Angelo Vassallo, magari suggerirà al successore di stare attento, di non mettersi nei guai, alimentando in questo modo il potere di pochi, di chi fa di quella mentalità la propria ricchezza e la propria difesa, propria linfa e sicurezza, fino ad arrivare al punto d'ammazzare chi la possa minacciare, chi provi a cambiare, a migliorare.
E allora quella terra bellissima, lì nel sud Italia, nella Campania lontana dai telegiornali se non nei titoli di arresti di propaganda del governo del fare, quella terra diviene maledetta, inguaribile, malata di un cancro genetico. Non si merita tutto ciò e non se lo meritano neanche i tanti Angelo Vassallo che ogni giorno rimangono in fila alla posta o conservano un fazzoletto usato fino al prossimo cestino, battono tutti gli scontrini o preferiscono non chiamare l'amico dell'amico e dicono NO, no alla corruzione quotidiana rispettando e amando la propria terra, no al compromesso, all'abitudine più comoda ma illegale; e un no meno comune, meno leggero probabilmente avrà ucciso il sindaco di Pollica in una sera di settembre, marcando a fondo le differenze, intimidendo i prossimi ideali, allargando una lista giù lunga di nomi già dimenticati, ma non bastano purtroppo martiri ed eroi moderni così come non basterà imprigionare sicari e mandanti: sono tanti, sono troppi.
E Bruxelles non è
Bruxelles non è questo cielo grigio che si rispecchia nello sporco di una stradina mentre lo sguardo si perde stregato tra l'arte nouveau di un edificio ed i colori dorati di affreschi e decorazioni centenarie, né tanto meno sarà il bagliore di sole dei pomeriggi affollati al parco dove c'è chi respira sprazzi di natura e riposo e chi rincorre se stesso lasciando la testa leggera tra il mormorio di cagnolini e risa lontane. Bruxelles non è la calca mattutina nella metro in cui teste robotiche s'affrettano a raggiungere scrivania ed impegni tra il sonno ancora da scolorire dagli occhi e le notizie sfogliate pigre con uno sguardo alla fermata né sarà la filastrocca dell'uomo dal codino e dagli odori forti che sale nel vagone per chiedere gli spiccioli giornalieri con in tasca il bisogno familiare e a lato una dignità impolverata, mentre passa veloce tra le facce indifferenti di chi è troppo immerso nella propria vita per osservare quella degli altri o ha la mente già decisamente affollata da priorità e dettagli forse poco necessari. E Bruxelles non è nemmeno i bruttissimi palazzoni di vetro del quartiere europeo dove burocrazia, protocolli e riunioni si susseguono all'infinito per le decisioni di pochi e retribuzioni ingrassate, mentre alfabeti si mescolano armoniosi dove conta poco l'accento che inciampa o l'impeccabile grammatica privilegiando la comunicazione concreta e favorendo intrecci d'origini ammaliate nelle nuove dinastie continentali, sperando che si perdano sciovinisti sottili e orgogli paralleli, sperando che domani non snobbino comunità meno fortunate nella fama o nelle statistiche ma non per questo da evitare. Tanto meno sarà, Bruxelles nel suo quartiere africano, tra gli arcobaleni della frutta esposta ed il rumore di vita incessante, laboriosa ma sorridente nello sforzo quotidiano quando l'integrazione non sembra una barriera e le distanze si annullano rapidamente, mentre una donna dai lineamenti arabi passeggia velata ed i suoi occhi dalla cornice bianca e magari impersonale non son meno belli negli sguardi di chi oggi decide la propria moda e la sfoggia per le vie poco pretenziose della capitale elastica, appena abbagliata dal falsh di un turista che si raccoglie intorno alle sue icone da manuale o si perde tra le stradine antiche di storia e rivoluzioni. Bruxelles non è nell'odore impregnante di strutto fritto di frites che ricopre la piazza popolosa o nel profumo intenso di waffle e zucchero scaldato che s'espande nella metro rumorosa né tanto meno tra le innumerevoli forme delle praline esposte come gioielli pregiati, ogni sapore un piacere raffinato, ogni ripieno un attimo da contemplare, lento e silenzioso, mai vorace come magari il boccone di un kebab nella strada di voci, di grida e risate, luci notturne e locali da scoprire, tra una birra che non credevi tanto forte ed un pezzetto di formaggio che già ne richiama il prossimo e un altro, un altro ancora. E non credere che Bruxelles sia il sole imprevedibile che ti accoglie dopo le vacanze in Italia anche se tra qualche giorno pioverà e sarà già dimenticato, già tempo d'inutili confronti ed i soliti sbuffi sterili; no, Bruxelles non è tutto ciò eppure è questo e tanto, tanto altro, ed è sporca, pericolosa e mal organizzata seppur tranquilla, precisa e pulita; è grigia, trafficata e rumorosa seppur quiete, verde e rilassante; Bruxelles è unica o forse si potrebbe scrivere tutto ciò di qualsiasi altra capitale europea, per inciampare in una facile contraddizione e poi meravigliarsi per un lamento che diventa incanto, per un sorriso che si trasforma in delusione. Tutto questo è Bruxelles o forse no, perché quel che oggi scrivo magari domani sarà fandonia, ma se narro è perché osservo e se sbaglio, mi domando, se racconto e mi rispondo è tutta colpa di Bruxelles, e magari no, è colpa mia e così sia.
Anema e core
Durante una vacanza nelle origini appena terminata (perché ad esempio a me piace il sud) una foto vale più di tanti altri panorami, mentre si passeggiava per le vie di Napoli... sulla faccia di Quagliarella si legge: "ADDIO traditore! Pubblicata dal Napoli, E' tatuata nella nostra anima!!!". Foto scattata qui. |
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