Della bellezza maledetta

Poi ti ritrovi in vacanza a sud e d'improvviso ti dimentichi di tutto quando, a guardare con gli occhi che spingono aria nei polmoni se all'orizzonte c'è natura che richiama memorie agli incontri, il panorama che avevi lasciato, che avevi dimenticato, che avevi raccontato, che avevi immaginato, ritorna ad incantare grazie alla magia delle origini, per qualche istante, prima di grattare le unghie sulla realtà dei compromessi già digeriti dell'espatriato. Già ripetuti, già combattuti, già accettati, già difesi. Già dimenticati, appena la brezza marina invita all'oblio, per un po'. Durerà poco.

Ci dev'essere una qualche legge divina, maledizione antica, su queste terre - pensi - per cui a tanta bellezza, a tanta magia di paesaggi, dettagli e tradizioni, a tanto sole, cibo, canti, debba corrispondere, per un dannato equilibrio, altrettanta perdizione, corruzione, omertà, egoismo e quant'altro di malefico si possa elencare, si voglia sottolineare, si debba ammettere, ci abbia spinto a partire. E spostandosi a nord, emigrando verso società supposte migliori, è come se si lasci un po' di quella malvagità alle spalle ma si debba, per ragion di cose, per quest'equilibrio invisibile ma sofisticatissimo, perdere anche bellezza, rinunciare a incanti e legami, perché non si può avere il paradiso in terra, perché si deve scendere sempre a compromessi e lasciar da parte propagande di terre natie. Stai soltanto provando a giustificare - pensi - stai cercando ragioni che non esistono, inventando scomuniche surreali e condanne che gravano su persone e non sulla natura. Maledetto sud. Eppoi sei in vacanza e la tua percezione delle cose è già diversa, perché la consapevolezza di tornare ai tuoi compromessi, ai tuoi equilibri raggiunti, lascia scivolare quel po' di male che inevitabilmente incontri per strada, nel paesaggio, tra le parole di quei complici. Eppoi sei in vacanza e proprio grazie alle vacanze puoi approfittare di quei panorami altrimenti ignorati, altrimenti abituali, vicini ma rimandati a domani, ne basta sapere l'esistenza, la vicinanza, ma non ne apprezzeresti la bellezza in quel mondo, perché chi vive lì non ha il tempo, non ha la voglia o forse nemmeno le risorse: e allora è meglio vivere altrove e tornarci solo in vacanza - ti ripeti - per assaporare quello che c'è di bello e schivare abilmente il resto, come solo chi ci ha vissuto saprebbe fare, come un turista non saprebbe interpretare. Comodo, egoisticamente vantaggioso, ma coerente con le tue scelte di lasciar l'animo quieto e non ricadere nei soliti interrogativi o in dibattiti ricorrenti sulla qualità di vita, sui compromessi personali, sull'amor di patria, le fughe vigliacche, le lotte quotidiane, le soluzioni e le utopie.

Questa terra ha ossigeno pesante che passa nei polmoni lentamente ma nel riciclo d'aria lascia tracce di pensieri e graffi dubbiosi. Non c'è pioggia, no, non come al nord, eppure per te questo sole abbronza sì la pelle ma brucia sorrisi sottili, prolunga silenzi affollati. Ci sono terre bellissime, lì, a sud, che però non avresti ogni giorno alla finestra, non potresti contemplare - ti ricordi - perché tornare non significherebbe vivere lì, ingenuamente, e allora, di nuovo, meglio in vacanza, meglio saltare su questi scogli del porto come altri non saprebbero fare, correrci con una scioltezza che il turista non potrebbe avere, saper dove mangiare, parlarne il dialetto, ridere di un proverbio, scoprire cose nuove ma attraverso connessioni che un turista faticherebbe a creare, ma in vacanza. Eppoi andare via, ripartire, con quel nodo in gola che ogni anno diminuisce, però poi ritorna, lottando contro risposte ben affilate e certezze oramai consolidate, pronte a difendere equilibri costruiti altrove. Eppoi andare via, mentre il finestrino dell'aereo t'allontana da questa terra dannata e quella maledizione è anche in te, ne porti dentro la bellezza e l'orrore, che danzano scomposte, riaffiorano, improvvisamente, a volte la bellezza, a volte l'orrore.
Foto scattata qui, approssimativamente, qualche giorno fa.

Dei sapori del sud

Caro ragazzo con l'accento milanese che, mentre eri seduto proprio lì, al tavolo affianco, ad un bar ristorante a pochi metri dalla spiaggia, a Positano, hai chiesto della maionese e mi hai quasi fatto smettere di mangiare il pesce all'acquapazza che avevo ordinato, incuriosito e con un sospetto disarmante, quando come fosse la cosa più normale del mondo hai aperto il panino con mozzarella di bufala, prosciutto crudo e pomodori che stavi mangiando e l'hai spremuta con scioltezza, lì, la maionese sulla mozzarella, di bufala, invece di metterci dell'olio di oliva, che sarebbe stata proprio la morte sua, qualora il panino fosse stato troppo secco, pugnalandomi silenziosamente al petto e commettendo uno di quei delitti che possono rovinar l'umore e l'appetito, ecco, ascolta un consiglio dal profondo del cuore: la prossima estate, per le vacanze, vattene in Francia.

Messaggio all'Eurozona

Ah, la saggezza popolare. Tornato ieri sera da una settimana in Italia, Google Reader dice 198 items da leggere. Sti cazzi. Foto scattata qui, qualche giorno fa.

Lo sbarco a Mechelen (e l'addio)

Prendere il treno per Mechelen che però passa per l'aeroporto principale di Bruxelles non è probabilmente la scelta migliore, però è comodo come orari, è nuovo, ha due piani, c'è sempre posto e fa solo due fermate: all'aeroporto e a Mechelen. Perfetto, pensavi. Poi però ti ritrovi ogni mattina in mezzo a chi sta per partire, mentre tu vai a lavorare. Soprattutto a luglio, partono per le vacanze, gli altri, mentre tu vai a lavorare. Va beh, pensavi. Intanto che valigie salgono, si moltiplicano, cozzano tra loro in conversazioni inconcludenti non fosse altro che per l'incompatibilità delle loro destinazioni, o forse dei padroni, disattenti, prendi posto tra chi ha già gli occhiali da sole pronti in viso e non per difendersi da un sole che, a quell'ora eppoi a Bruxelles, non potrebbe mai infastidire, né per nascondere un sonno ancora despota di movimenti e congetture, gli occhiali son già lì ma son per gli altri, un messaggio agli osservatori che si va in vacanza, al mare, gli occhiali son lì per te, che vai a lavorare. Bravo, pensavi. Poi c'è chi, tra il sorriso euforico di progetti indottrinati, non lascia la valigia per un attimo, con una mano, tra le gambe, mentre fissa qualche punto ignoto nel finestrino opaco e con la testa è già a destinazione mentre c'è chi arriva in gruppo, in quattro, già in festa, a far baldoria nel treno, come se l'imminente partenza desse loro il diritto innegabile a coinvolgere gli altri nell'euforia incontenibile, a coinvolgere anche te, che vai a lavorare, che volevi leggere un libro e invece no. Che bello non andar in vacanza con loro, pensavi.

Poi all'aeroporto, il vuoto. Il portellone del vagone vomita via chili di valigie e rumore mentre sinfonie di richiami, fischi e freni sbuffanti spingono lentamente il treno a riprendere la marcia, alleggerita non solo di persone ma anche d'altalene. E d'occhiali da sole. Ah, pensavi. I sedili del vagone sono lo scheletro che rimane quando la carne vien strappata via in pochi istanti: rimangono brandelli di sporcizia e tracce di un passaggio frettoloso, coperti da un silenzio alienante, perché insolito. D'improvviso riesci quasi a sentire anche il tuo respiro, mentre il treno sfreccia indisturbato verso Mechelen e i binari, meschini, cambiano rotta e dimensione, tagliando un paesaggio d'improvviso verde, di campagne belghe e orizzonti nuvolosi. Poi inizia il decollo affannato e la terra, laggiù, si fa piccola, sempre più piccola, fino a confondersi in mezzo a milioni d'asterischi, troppo lontani. Non c'è più ritorno, pensi. Quando la navicella spaziale atterra a Mechelen, dal vuoto della cabina si diffonde una tensione crescente mentre dall'oblò s'intravedono costruzioni aliene e agglomerati di materiali ferrosi. Sei solo, pensi. Il portellone che si apre automaticamente, premendo appena il pulsante luccicante, sfoggia fieramente il progresso umano raggiunto in un spiuuuffffhh un po' goffo ed ecco che due gradini meccanici fuoriescono imperiosi e si posizionano perfettamente in attesa del tuo primo passo mentre le due porte, imperiose anche loro, scompaiono magicamente ai lati, tra ingranaggi sofisticatissimi degni di quest'odissea nello spazio. Ci siamo, pensi. Piove, perché nonostante le mille teorie azzardate durante birre serali e concerti di parole sterili, anche a Mechelen c'è atmosfera e la pioggia, dunque, semina sui tuoi passi messaggi indecifrabili di attacchi alieni, mentre dagli altoparlanti si diffondono notizie di bombardamenti stellari tra accenti iracondi e dittonghi graffiati e la stazione aerospaziale è tutto un fremito di creature indescrivibili però frettolose, con cui non potrai comunicare per via di quel linguaggio extraterrestre ancora da studiare. Prima o poi, pensi. Poi, ripensi. Appena entri nella navetta spaziale che ti porterà a destinazione ti accorgi di quanto insensate siano stati tutti quei racconti fantascientifici sulle tecnologie aliene se ti trovi d'improvviso in quel pianeta lontanissimo ma in effetti, infine e dunque, sei in un autobus. E l'autista adatta la sua lingua, in una che capisci, e ti sorride perché ti riconosce, dopo un mese di viaggi interplanetari. Domani partirai per le vacanze, anche tu, ma senza occhiali da sole, e al ritorno non dovrai più arrivare ogni mattina su quel pianeta recondito però familiare, che ti ha dato una certezza in più: gli alieni sono buoni.
L'interno della navicella spaziale, quando gli occhiali da sole scappano via per le vacanze e resta il vuoto. Poi, le stelle.

Piove, ma che importa

Cose che solo a Bruxelles, direbbe qualcuno. Piove, anche se dalla foto non si direbbe, ma si continua a bere e chiacchierare con gli amici, aprendo l'ombrello, all'aperto. Piove, ma che importa. Che tristezza, direbbe qualcuno. Che bello, che ottimismo, direbbe qualcun altro: a breve smetterà di piovere. Foto scattata qui, qualche ora fa.

Come i bicchieri rotti del bar

Non sono quelle chiacchiere attente quando gli occhi impegnati seguono movimenti veloci delle labbra e smorfie artistiche si adattano all'esclamazione incredula del momento né le risate in coro di chi guadagna il suo attimo di protagonismo grazie ad una battuta ben riuscita mentre intorno al tavolo si riuniscono umori spensierati. Ci sono sguardi, nella confusione inesauribile di un bar, che si perdono nei dettagli insignificanti di una sedia, l'inquadratura furtiva di una finestra, le mani di uno sconosciuto, e ci sono parole che cadono mal comprese, a chi domanderà di ripeterle si risponderà con una menzogna leggera, con altro, velocemente, di meno importante; ci sono gesti, di chi inghiotte memorie nel sorso di una birra amara, e ci son fughe, di chi va incauto in bagno soltanto per riappropriarsi di qualche secondo d'intimità. Ci sono cose, nella confusione incessante di un bar, che fanno parte del sottofondo di rumori, musica ed espressioni, che ne arricchiscono l'immagine anche se superflue, inutili e impercettibili, ma son sempre lì, come i bicchieri rotti del bar, fanno parte dell'ambiente in quest'anarchia di dettagli preziosi però fugaci, però veraci e, quando te ne accorgi, quando sei prigioniero di uno di loro, però rapaci. Bisognerebbe diffidare di quei bar in cui non si ascolti mai, tra il mormorio continuo della gente, lo scontrino inzuppato sul bancone e la prossima comanda con il dito alzato, quel suono acuto però abituale di bicchieri rotti subito ignorati, di domande frantumate prontamente rimpiazzate da nuove colme di interrogativi, e di frammenti, quelli nostri, seminati involontariamente, magari raccattati da qualche cacciatore di particolari che li farà suoi, nel tempo di una metafora, per poi spargerne di altri e lasciarli all'atmosfera della serata, cui appartengono, come i bicchieri rotti del bar.

Second skin

Ci sono due città, a Bruxelles. In realtà sono più di due. Mi domando quanto si conoscano.
Foto scatta qui, se ricordo bene.

Alla ricerca dell'italianeità perduta

Ma quanto ci vuole per fare un fumetto che sembra qualcosa di accettabile? Questa volta
prima a matita, poi ricalcato e infine digitale, troppo tempo. Anyway, godetevi il bidet :)

Ti voglio bene, nonna

Quando al telefono ti dico che ci vedremo tra qualche settimana ma che sarà soltanto per una settimana e che no, non starò lì, a sud, ad agosto, quasi ti prende un colpo, nonna, se per un attimo il tuo acuto è riuscito ad attraversare anche il più impensabile tunnel gelminiano dal Cilento a Bruxelles, e perforare rapace i timpani innocenti del vicino di casa, soltanto perché per te, nonna, non è normale che io lavori ad agosto, tutto il mese d'agosto, come se poi fosse ancora la normalità, prendersi addirittura un mese di ferie e non lavorare ad agosto, come se in questi tempi di crisi irrisolvibile e disoccupazione rampante fosse ancora uno degli ambiti traguardi, un mese di ferie ad agosto, come se poi quella sorta di tradizione italiana si dovesse applicare inderogabilmente anche a me che vivo fuori, dove agosto non è lo stesso agosto, per fortuna, e non devi immaginarmi qui ad immolarmi eroicamente in un ufficio deserto soltanto perché, ad agosto, sarei di colpo stacanovista ammirevole, immigrato sofferente, ma poco importa perché tutto il mondo è il tuo orticello, sintetizzato e semplificato, nonna, e in applicazioni banali d'equazioni elementari tutto il mondo si dovrebbe fermare, ad agosto, non perché faccia troppo caldo o perché secondo teorie dubbiose non varrebbe neanche la pena lavorare, se tutti gli altri vanno in ferie, ad agosto, ma semplicemente perché è agosto ed agosto, nonna, nei tuoi schemi fa rima con vacanza, degli altri, nelle tue abitudini non si colora di lavoro e come pilastri biblici è una verità per fedeli devoti che non si discute nemmeno nel tuo orticello, figuriamoci per telefono.
In realtà non c'è logica nella leggerezza delle tue affermazioni memorizzate, nonna, quasi fossero intercalari che parlano di tradizioni e passato, impregnati di ricordi quasi centenari e legislazioni di luoghi comuni, come frasi aggiunte a condire un copione già recitato, ma bello da ripetere, come ritornelli a riempire silenzi altrimenti stonati. E sbaglio, a farmela poi tornare in mente, quella domanda leggera sul mese d'agosto, con un sorriso sottile che nasconde una tua immagine nella smorfia accennata, sbaglio perché era una domanda che non cercava nemmeno risposta, era un pezzo di sud, era un pezzo di te, nonna, che un giorno racconterò a chi spero tu possa vedere, era una di quelle frasi che, se poi non me l'avessi detta, ci sarei forse rimasto male. E ti voglio bene anche per questo, nonna.

Sonno

Senti Sonno, io e te ci dobbiamo sincronizzare, non puoi rompermi le palle alle 9:20 in ufficio e poi sparire a mezzanotte senza dir nulla.

Tutta l'Italia che non sei

Quando bussano alla porta appena dopo la partita contro la Germania, ti domandi chi mai possa essere a quell'ora: è il vicino senegalese, del piano di sopra, con il piccolo di appena 8 anni che si nasconde timido, come sempre, dietro le gambe del padre, ma che lancia sempre occhiate curiose alla ricerca di dettagli che solo la sua fantasia saprà cogliere. Congratulazioni, congratulazioni, ti ripete il vicino del piano di sopra, congratulazioni per la partita, come se la vittoria lì, contro la Germania, fosse anche merito tuo, come se a giocare in mezzo al campo lì, nel cammino verso la finale, ci fossi stato anche tu. Congratulazioni, mentre lui ti stringe la mano poco sicura tu sei lì a rappresentare l'Italia tutta, tu, italiano all'estero, connessione immediata tra la squadra di calcio appena vittoriosa ed un'appartenenza a quei colori, a quella bandiera, quella cultura. A quello stereotipo. Un po' quasi non ci credi, mentre ti stringe la mano e ti sorride sincero, un po' ti mette quasi in imbarazzo, come se non fosse il caso, lì, di erigersi ad ambasciatore italiano di fronte alla porta di casa, con la paura di deludere l'aspettativa di vicini emozionati e bambini sognatori. Ancora una volta, che si parli di scandali berlusconiani ripetuti o vittorie calcistiche non pronosticate cambia poco, tu, altrove in terra straniera, diventi improvvisamente il punto di riferimento incontrollato degli interrogativi a volte scontrosi o delle esclamazioni questa volta affettuose. Ti avrà sentito gridare, appena dopo il secondo goal di Mario o negli ultimi minuti di sofferenza catastrofica, ti avrà sentito gioire e soffrire e ti avrà pensato, inevitabilmente, durante la partita, in un'empatia sportiva poi culminata in quelle congratulazioni reiterate che non puoi che incassare e riflettere con sorriso un po' forzato, perché non te le meriti, perché non le vorresti, perché non le controlli.
C'è una patria in te attribuitagli dagli altri, condita di stereotipi secolari e relazioni necessarie, che spesso incontra umori ostili o soltanto la sorpresa repentina di vergogne e meriti nazionali; è uno specchio che distorce attraverso cui c'è chi filtra e chi fraintende, c'è chi ipotizza e chi attende recite che non farai, copioni che non seguirai, per poi confermarli, fatalmente, al primo gesto involontario delle tue mani nell'aria o al primo accento marcato nella lingua d'altri, che filtrerai anche tu, incoscientemente, come se tutti, all'estero, avessimo gemelli fantasmi, al nostro fianco, lì a rappresentare le aspettative altrui. Ci sono alieni, all'estero, a volte son i tuoi stereotipi moltiplicati, a volte sei tu.